Sonia Ribuoli è mezza francese e mezza emiliana, classe 1987, è una di quelle persone che in silenzio e nel nascondimento, lontana delle carriere luccicanti, portano competenza e umanità a chi vive condizioni estreme o svantaggiate o semplicemente a chi si affaccia al proprio destino senza ricordi né memoria. Dopo l’infanzia molisana, gli studi a Milano, vive e lavora a Pesaro, per la Cooperativa Labirinto. È una educatrice professionale e consulente in scrittura autobiografica. Ogni giorno attraversa le porte di un Centro Alzheimer e della Casa circondariale di Pesaro.
Sonia, chi è l’educatore oggi?
L’educatore vive una moltitudine di possibilità rispetto al proprio modo di operare: è una figura indefinibile, cauta, risponde ad un ventaglio disparato di mansioni: da quella riabilitativa, a quella preventiva o di promozione educativa.
Cosa la attrae di questa professione?
Il potermi addentrare nelle pieghe dell’umano, indagandone le sue possibilità trasformative: l’educatore è un attivatore di cambiamento: se alla fine di un intervento la persona ne esce come ne è entrata qualcosa non ha funzionato; mi attrae la dimensione della sfida e la possibilità di una costante riflessione su di me: aprire nuovi spazi e orizzonti di senso. Mi attrae la dimensione creativa che è possibile giocare all’interno della relazione di aiuto.
Non è un lavoro per tutti…
Non è un lavoro facile per quanto riguarda le richiesta di flessibilità, di adattabilità o disponibilità al cambiamento. Ma a tratti questa è anche una risorsa: devo cercare la giusta misura poiché mi muovo nella consapevolezza che il mio agire educativo si rivolge ad una fragilità, ad una esistenza che, nella sua delicatezza, può facilmente sgretolarsi.
Che tipo di coraggio ci vuole per sostare di fronte al dolore altrui?
Credo che ci voglia il coraggio di andare oltre la paura del dolore altrui e, azzarderei, del proprio (l’altro è uno specchio che riflette anche la mia sofferenza), perché proprio dalla frattura che quel dolore ha creato possa nascere qualcosa in grado di trasformarsi, generando impensate possibilità. Correre il rischio del fallimento e della caduta. Entrare in relazione con l’altro prevede che io entri in una regione di rischio: oltrepassare la soglia, “perdere” la mia identità, essere sopraffatta. Ma è nel rischio che io imparo, che sperimento, che vivono le premesse per far nascere qualcosa di autentico. Qui esistono le possibilità dell’inatteso.
Pone una distanza per poter resistere alla sofferenza altrui?
Ci vuole un lavoro assiduo su se stessi, la disponibilità ad interrogarsi, ascoltarsi continuamente per non sprofondare nell’abisso che la fragilità dell’altro spesso ci porta. Occorre imparare ad abitare la distanza, riconoscerne il confine e non viverla come indifferenza. Percepirla come respiro, come possibilità, come parte di un ritmo, come spazio in cui poter ascoltare l’altro e se stessi.
Cosa c’entra la scrittura col suo lavoro?
Il mio è un lavoro di relazione (spesso la relazione è già un racconto che attende di essere trovato) e passa attraverso il veicolo della parola che molte volte risulta insufficiente e inadeguato. Qui interviene la scrittura a dare voce, a lasciare traccia, a rendere visibili storie e frammenti apparentemente inessenziali. La scrittura è anche strumento per nominare il dolore e può impedire che ci si identifichi con esso, quando questo ha segnato profondamente l’esistenza; scrivendo il proprio dolore lo si deposita in qualche modo sulla pagina e ci si dà la possibilità di andare, anche un po’, oltre. Lavorando con la fragilità umana, incontro quotidianamente persone portatrici di una densità di vita e di una bellezza enigmatica, misteriosa, affascinante che però rischia di andare perduta, dal momento che molti non hanno voce né strumenti per dirsi. Storie che rischiano di cadere nell’invisibilità.
Dove ha imparato tutto questo?
Anni fa mi sono iscritta alla Libera Università dell’Autobiografia – Lua, Anghiari (Arezzo) e ho frequentato il triennio formativo per diventare consulente in scrittura autobiografica: questo percorso mi ha dato non solo strumenti metodologici da applicare nel lavoro di relazione, ma anche mi ha consentito di entrare nella dimensione più silenziosa di me e dalla quale solo è possibile incontrare autenticamente l’altro. La scrittura autobiografica ha una funzione riparativa e di ricomposizione dell’io fragile, è generativa e apre orizzonti: alla LUA ho imparato che la scommessa e il coraggio del consulente autobiografico consiste nel condurre chi scrive a sostare in un rapporto con se stessi dove lo scrivere ricuce: la penna diventa un ago metaforico che cuce insieme le parti diverse e disperse della persona in condizione di fragilità. Ricompone una trama e restituisce una forma a ciò che sembrava destinato a rimanere in brandelli.
Mi racconta una storia?
Ora sto accompagnando un giovane detenuto a scrivere la propria autobiografia. Dopo il primo incontro, M. ritorna con un quadernone fitto di parole fino all’ultima pagina. Aveva già scritto quasi tutta la sua storia. Aveva terminato tutti i fogli e l’inchiostro delle sue penne. M. scrive perché, dice, «ha dentro di sé come una montagna che si sgretola. Fa un rumore grande e fa male, ma gli altri non lo sentono». E mi scrive ancora: «cercherò di guardare dentro me stesso e capire in questo luogo ristretto chi sono e cosa voglio. Sul chi sono devo ancora lavorarci, sul cosa voglia è per ora molto semplice: voglio solo essere amato per quello che sono». La scrittura sta dando a M. la possibilità di ritrovare fiducia in se stesso, M. sta scrivendo ora la sua autobiografia, sta ri-nascendo.
Scrivo per ricordare/
ma goccia su goccia/
scrivo per dimenticare/
scrivo per essere una persona nuova/
scrivo per ripulirmi/
scrivo per ricordare/
scrivo per non odiare più/
scrivo per lasciare una/
traccia su questo posto/
scrivo per rabbia/
scrivo per essere più leggero/
e se avessi il coraggio/
scriverei quella pagina bianca/
per alleggerire il mio vaso di porcellana./
Sarebbe la cosa più coraggiosa che potessi fare/
Scrivo per amare. (M.)
M., giovane detenuto del Carcere di Pesaro
E un'altra?
Vincenzo, 64 anni, ex maestro di scuola elementare, marito e padre. Era anche un ballerino e un viaggiatore, malato di una grave forma di demenza. Incontrandolo ho sentito di toccare la friabilità di una vita e ho avvertito, forte, la necessità di camminare pianissimo e con umiltà e delicatezza nei solchi della sua esistenza. Vincenzo aveva paura perché consapevole di ciò che lo aspettava e temeva per se stesso e per la moglie. Il suo rapporto con la memoria era faticosissimo e, per questo, i suoi ricordi hanno un valore inestimabile, io stessa dovevo scrivere per lui, impossibilitato al gesto. Vincenzo scrisse alla fine una lettera a se stesso e lascia ai suoi cari, ai suoi studenti e a remoti incontri la certezza di non essere stato solo la sua malattia.
Sonia, cosa ci guadagna, perché lo fa?
Per la bellezza che vive nei luoghi impensati e nelle situazioni marginali. Perché nessuno rimanga invisibile. Per quella domanda sempre aperta sulla ricerca del senso.
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