Dallo scorso ottobre Gennaro ogni mattina si alza più felice. Sa che alle nove in punto inizia il suo turno di lavoro. «Non avevo mai lavorato prima. Vorrei lavorare per sempre». Gennaro ha 44 anni e vive a Benevento. È meticoloso Gennaro, lo potete immaginare mentre con la perizia dei gesti di una volta organizza, nel laboratorio sterile di produzione, pile di dieci mascherine alla volta e le imbusta. «Ho fatto un corso di formazione da luglio a settembre. Ora sono diventato bravo». Gennaro ha una disabilità psichica, un ritardo mentale di media intensità. Faya invece di anni ne ha 28. Per arrivare a Benevento, nella città che oggi chiama casa, ha vagato per un anno e cinque mesi: «Sono partita sei anni fa dal Gambia», rivela.
«Ho attraversato il Senegal, il Mali, Burkina Faso, poi mi sono ritrovata a Tripoli in Libia. A Palermo sono arrivata su un barcone». Faye è sopravvissuta, insieme a sua figlia Kaddijatou, che allora era poco più che una neonata, lungo tutta la rotta del Mediterraneo centrale. «Ma adesso viviamo in un piccolo appartamento in città. Ho lavorato alla mensa della Caritas, poi da ottobre, invece, lavoro al distretto delle mascherine. Mi piace tanto lavorare mentre mia figlia, che oggi ha sei anni, va a scuola. Appena mi arriva lo stipendio mi piace pagare da sola l’affitto». Faya e Gennaro lavorano nel laboratorio tessile del Consorzio Sale della Terra di Benevento, una delle 36 realtà che fa parte del primo Distretto Diffuso che realizza le mascherine Social Mask, sostenibili e lavabili fino a dieci volte.
La storia di questo gruppo di imprenditrici e imprenditori sociali la potete scaricare gratuitamente qui, otto pagine di storie, interventi e interviste che raccontano com'è nato il primo Distretto Diffuso italiano. Inoltre giovedì 25 febbraio, alle 17,30, sulla pagina Facebook di Vita sarà possibile seguire la diretta dell'evento "Social Mask, storia di un distretto diffuso", dove sarà presentata nel dettaglio tutta l'iniziativa, (partecipano: Riccardo Bonacina, Luca Raffaele, Anna Fasano – Banca Etica, Carlo Borgomeo – Fondazione con il Sud, Gianna Fracassi* – CGIL, Angelo Moretti -Sale della Terra). Un gruppo molto speciale che ha “buttato il cuore oltre l’ostacolo” e si è messo insieme per realizzare un prodotto equo e accessibile a tutti. Che fosse sostenibile dal punto di vista ambientale, che tutelasse i posti di lavoro e ne creasse addirittura di nuovi.
L’idea del Distretto parte dall’esperienza della rete Next Nuova Economia per Tutti, realtà associativa fondata nel 2011 con l’obiettivo di facilitare l’incontro di buone pratiche e avviare processi di rete e co-progettazione. «Abbiamo deciso», spiega Luca Raffaele, presidente di Next Social Commerce società benefit, già Direttore Generale di NeXt Nuova Economia per Tutti, «di avviare un processo di riconversione nazionale di imprese sociali e cooperative tessili, che hanno deciso di mettersi insieme e produrre un “bene comune”. Nei primissimi giorni dopo l’inizio della pandemia abbiamo fatto una ricognizione nella nostra rete di imprese sociali. Tutti avevano “qualcosa” da condividere: chi le competenze tecniche, chi quelle scientifiche. Qualcuno la manodopera e i macchinari. Ci siamo chiesti “Ma qual è il modo migliore per aggregarli e creare valore aggiunto sia per le aziende che per il territorio in cui operano?”. Abbiamo pensato alla formula del Distretto. In questo caso non un Distretto legato alle logiche territoriali, ma che al contrario potesse unire l’intero Paese: un Distretto Diffuso nato dalla collaborazione di 36 realtà, che ha coinvolto fino a 550 lavoratrici e lavoratori nella prima fase di sperimentazione e test, e oggi sono 100 i lavoratori del Sud Italia che realizzano e confezionano le mascherine, tra loro anche 46 persone in una condizione di fragilità». Il Distretto Diffuso promuove infatti l’inserimento lavorativo delle categorie più fragili, tra loro: disabili, detenuti in misura alternativa, titolari di protezione internazionale, vittime di tratta, richiedenti asilo.
A oggi sono già stati prodotti 4 milioni di pezzi. La Social Mask è una mascherina Iir lavabile 10 volte, approvata dall’Istituto Superiore di Sanità, che garantisce il massimo livello di efficacia di Bfe (Bacterial Filtration Efficiency) e dei parametri previsti per ottenere lo standard 14683:2019 e la marcatura CE. Questo è stato possibile grazie all’utilizzo di una catena di fornitura di eccellenza e di materiali di qualità, tra cui un cotone antibatterico e il tessuto-non tessuto “Melt Blown” fornito dall’azienda Graziano Ramina e leader sul mercato nella costruzione di macchine e impianti per il settore dei tessuti-non-tessuti. «Il “Melt Blown” compone la parte centrale della mascherina», spiega Graziano Ramina, presidente dell’azienda. «Questo particolare non tessuto garantisce un filtraggio superiore al 99%».
Delle mascherine non possiamo fare a meno. Mentre ne nascevano di ogni tipo, modello, colore, abbiamo perso di vista l’unica domanda seria che bisognava porsi: ma le mascherine quanto “costano” all’ambiente? Fare una scelta responsabile è possibile. Una ricerca dell’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, diretta dal professore di politica economica Piergiuseppe Morone — “An environmental analysis of single-use vs multi-use face masks via Lca” — ha calcolato e messo a confronto l’impatto ambientale delle mascherine chirurgiche monouso con quelle riutilizzabili fino a dieci volte, attraverso la metodologia del “cradle-to-grave”, tradotto in italiano “dalla culla alla tomba”, che analizza come e quanto tutte le variabili del processo produttivo impattano sull’ambiente e di conseguenza sulla nostra salute: estrazione della materia prima, trasporto, produzione, distribuzione, smaltimento.
«Per la ricerca», spiega il professore, «siamo partiti da un’unità funzionale: il volume complessivo di mascherine prodotte e utilizzate in Italia nell’arco di un anno. L’impiego di volume utilizzato nel 2020 per realizzare le mascherine monouso è stato pari a 3,92 chilo tonnellate (migliaia di tonnellate); per quelle lavabili il valore scende fino a 0,31 chilo tonnellate. Di conseguenza a cambiare è anche il volume di materiale utilizzato per il packaging. Intrecciando questo dato con gli altri abbiamo dimostrato che l’impatto sull’ambiente delle mascherine lavabili è significativamente inferiore: meno della metà rispetto a quelle monouso».
Il percorso del progetto Distretto Diffuso delle mascherine sociali sin dall’inizio è stato accompagnato dalla struttura commissariale preposta all’emergenza Covid-19. «Le imprese sociali che hanno partecipato a questo percorso hanno avuto una parte molto più importante di quanto di pensi nel far fronte alla fase dell’emergenza», ha infatti sottolineato il commissario Arcuri. «Credo sia doveroso ricordare che quando mi sono insediato come Commissario, il 18 marzo 2020, non esisteva in Italia nessuna struttura produttiva per le mascherine. Venivano per la gran parte prodotte in un Paese lontano non solo geograficamente e linguisticamente, ma anche per gli standard di produzione e di certificazione dei prodotti».
La storia del Distretto Diffuso ci insegna che il bene comune può e deve essere l’obiettivo di mercato. «In questi mesi di pandemia», ricorda l’economista Leonardo Becchetti, «sono stati resilienti quei lavoratori e quelle imprese che hanno saputo reinventarsi adattandosi ai nuovi vincoli e alla nuova situazione, che hanno colto un’opportunità nella difficoltà. Produrre le mascherine in Italia risponde all’esigenza di una maggiore indipendenza per un bene strategico, farlo in modo socialmente e ambientalmente responsabile è invero e proprio investimento sulle persone e il loro futuro».
Quella del Distretto Diffuso è davvero una storia bellissima. «Perchè», aggiunge Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione Con il Sud, «come tutte le storie meglio riuscite nell’ambito del Terzo settore parte da un’esigenza, da un impulso di darsi da fare per il bene comune».
*da confermare
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