Marzo 2020. Si entra nel decimo anno di guerra in Siria. Nel 2011 le prime dimostrazioni pubbliche contro il governo centrale si sono trasformate in rivolte su scala nazionale e quindi in una guerra civile nel 2012. Le proteste iniziali hanno l'obiettivo di spingere alle dimissioni il presidente Bashar al-Assad ed eliminare la struttura istituzionale monopartitica del Partito Ba'th. Ma di mezzo c’è l’Isis, il popolo siriano distrutto, le bombe su ospedali e scuole. Città rase al suolo. «E troppi civili», dice Riccardo Noury portavoce Amnesty International Italia, «che vengono ammazzati e poi eliminati anche dalla narrazione».
Nove anni di guerra
A metà mese entreremo nel decimo. Una data che rischia di coincidere con il possibile epilogo di ciò che resta, dopo nove anni di guerra, con la presa di Idlib. Il tema che vorrei sottolineare è che in tutti questi anni di conflitto nella narrazione i civili sono scomparsi. Come se ci fosse uno scontro militare tra le forze di damasco e gli alleati russi contro i gruppi terroristici e tutto il resto. Ma perché i civili vengono prima ammazzati e poi anche eliminati dalla narrazione?
È quello che sta accadendo a Idlib, nel nordovest della Siria?
Da Idlib saranno fuggite negli ultimi giorni almeno 900mila persone. Magri di più. Di questi sfollati non sappiamo niente. Nessuna informazione esce. Sembra che sia in atto “solo uno scontro militare”. Eppure c’è un esodo di persone che in mezzo alla neve cerca di scappare e noi non siamo in grado di riportare con esattezza neanche il numero. Il disegno del governo siriano era chiaro fin dall’inizio: vincere in quante più zone possibile, assediare i civili, farli scappare. Espellerli da un luogo che consideravano casa per rinchiuderli, intrappolarli, in spazi sempre più piccoli. Le persone che stanno lasciando Idlib in questo momento erano già scappati da altre zone almeno tre o quattro volte.
Perché sembra che questa guerra non ci riguardi?
È un conflitto che non viene raccontato. Soprattutto perché ai giornalisti (quelli indipendente dal regime di Assad) non è permesso entrare nel Paese. E l’unico racconto che ci arriva è affidato agli attivisti locali, che spesso sono operatori sanitari. Sono queste le persone che rischiano la vita quotidianamente per informare. E alla fine, quando possono, scappano anche loro. C’è quindi un vuoto costante di informazione che viene riempito dalla propaganda contro di loro. Il messaggio che l’informazione del governo fa passare è questo: “A Idlib non ci sono civili. Ma solo terroristi che non si arrendono”.
Tra qualche giorno si entrerà nel decimo anno di conflitto. È possibile fare qualche previsione?
È rischioso proiettare qualunque scenario. La sensazione è che dopo Idlib davvero non ci sia più niente da distruggere. Se Idlib cade si entra nel dopoguerra. In una situazione in cui la Turchia cercherà di rimandare indietro i profughi siriani che ha accolto negli scorsi anni. Probabilmente nel territorio kurdo con l’obiettivo di alterare la composizione etnica di quella zona. Ci sarà una Siria decisa nelle varie conferenze tra Assad, Putin in cui sarà impossibile garantire una qualche forma di giustizia per i rifugiati. Dove magari la Turchia avrà confini sicuri e il vero capo politico del Paese sarà la Russia.
Com’è stato possibile tutto questo? Parliamo almeno di sette milioni di rifugiati
Spero che i libri di storia non racconteranno con spirito benefico questa vergogna. Il conflitto in Siria ha mostrato ancora una volta che la comunità internazionale è inadeguata nel risolvere i conflitti. La popolazione internazionale ha la colpa di aver abbandonato a se stesso un intero popolo. Non dobbiamo dimenticare che le prime manifestazioni erano pacifiche e la parola d’ordine era giustizia. All’inizio si poteva fare molto per aiutare, ma perché non si è fatto niente? Il problema dei regimi dittatoriali è che si catalogano le persone per categoria: “buono o cattivo”, “fedele o infedele”. Si dovrebbero avviare processi per punire questi crimini di guerra. Ma tutto il pacchetto della giustizia rientra negli accordi politici. E se il futuro della Siria lo fai decidere a chi dovrebbe essere dietro le sbarre non c’è molta speranza.
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