«La speranza di quella terra martoriata passa per creature fragili e straordinarie come Hamin, una bambina nata ad Aleppo durante l’ultimo terremoto, che ho avuto modo di prendere in braccio. Hamin in arabo significa nostalgia, e va letta nell’accezione positiva che offre quella lingua. Io la definisco nostalgia della normalità». Così monsignor Giuseppe Baturi, segretario generale della Conferenza episcopale italiana al suo rientro dalla missione in Siria e Libano, durata una settimana.
«Sono stato in diverse località, in particolare a Damasco, Homs e Aleppo, prima di raggiungere Beirut. È stato un viaggio molto utile per rendermi conto di persona della realtà attuale dei due Paesi, ma anche per rafforzare il rapporto con le popolazioni locali e, in particolare, con le comunità cristiane che da quelle parti sono molto attive. Ho visto una realtà drammatica, e forse la vera sorpresa è stata la situazione del Libano. Ho voluto toccare con mano i frutti delle tante iniziative promosse dalla Cei dopo alcune riflessioni sulla sorte del Mediterraneo. L’8 per mille ci aiuta a sviluppare la solidarietà nei Paesi più poveri: ebbene, nonostante il calo delle donazioni (in parte fisiologico, in parte generato dal periodo di pandemia e di crisi economica), siamo riusciti a mantenere inalterata la quota del fondo per i Paesi più poveri del mondo, pari a 80 milioni di euro per oltre 600 progetti l’anno».
Progetti pensati ben prima del recente terremoto in Siria e Turchia.
«Sì, ma utilissimi soprattutto ora, perché le nuove macerie sono andate a sommarsi a quelle prodotte dalla guerra che sta martoriando la Siria dal 2011. Calcoliamo che gli interventi della Cei per la sola zona di Damasco, negli ultimi 15-20 anni, siano stati pari a tre milioni e mezzo di euro. E altrettanti per i progetti nel territorio di Aleppo: per l’educazione, il contrasto della povertà anche educativa, per creare opportunità di lavoro. La mia presenza serviva anche per manifestare la vicinanza della Chiesa italiana, oltre che della Diocesi di Cagliari che guido, a quelle popolazioni molto provate. In Siria, dal 2011, sono morte 500mila persone su 40 milioni di abitanti: circa 26mila erano minori. Una guerra sanguinosa, alla quale hanno partecipato anche Paesi stranieri. E che sta provocando una continua emigrazione verso l’estero».
La maggior parte di loro sale sui barconi che solcano il Mediterraneo.
«E alcuni, purtroppo, sono morti nelle ultime tragedie. Non è possibile guardare a questi fratelli che approdano nelle nostre coste senza guardare al punto di partenza. Da quelle parti, come se non bastasse, c’è una grave crisi sanitaria: il colera, il Coronavirus, e non solo. C’è una crisi finanziaria spaventosa che, dopo l’esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut, si è ulteriormente aggravata: oggi anche molti dipendenti statali libanesi non riescono a pagare la benzina per rifornire le auto con cui vanno al posto di lavoro. Naturalmente, con l’arricchimento di alcuni ai danni della massa».
Quanto stanno incidendo le sanzioni adottate dalla comunità internazionale?
«Enormemente. Il terremoto ha provocato una grave crisi abitativa, con relativo sfollamento di massa. I danni si registrano soprattutto nelle zone del nord della Siria, occupate dall’Isis, dove ci sono alcuni villaggi cristiani. Le ultime indagini internazionali parlano di oltre il 90 per cento della popolazione siriana che vive sotto il livello di povertà. I cristiani, negli ultimi anni, sono passati dal 10 al due per cento della popolazione. Eppure, abbiamo avuto modo di vedere testimonianze di fede impressionanti. Una donna diceva al suo figlio, un frate francescano: “Anche se dovessi morire, Dio ci ama. Vai avanti”. Un’altra, invece: “Restiamo qui proprio perché siamo cristiani”. Insomma, c’è un messaggio pasquale esplicito che arriva da quella gente, e cioè che la fede fa vivere anche i luoghi di morte. Ecco, non possiamo pensare ai siriani soltanto per gli sbarchi».
Che cosa può fare la Cei, e più in generale la Chiesa cattolica, per smuovere la situazione a livello politico internazionale?
«Intanto c’è stato, dalle prime ore del terremoto, un intervento di Papa Francesco per chiedere di consentire gli aiuti a quelle popolazioni. E poi la presa di posizione dei vescovi. Anche se si parla della sospensione delle sanzioni, vi assicuro che lì ancora non si vedono gli esiti. Che cosa significa? Che non si può fare una Tac in ospedale perché non arrivano i pezzi di ricambio, non si possono fare transazioni internazionali, non si possono fare lavori di ricostruzione là dove sono crollati la maggior parte dei palazzi. Le sanzioni colpiscono il popolo e arricchiscono qualcun altro. Nessuno di noi si sogna di chiedere di riaprire il traffico d’armi, ma solo di consentire gli aiuti umanitari e il ritorno alla normalità per i cittadini. I quali mi hanno chiesto di non dimenticarci di loro. Guardano con molta attenzione all’Europa, e hanno percepito come una benedizione gli aiuti che l’Italia, per prima, ha portato subito dopo l’ultimo terremoto, rompendo l’isolamento. Il sisma ci costringe a ripensare a un sistema che non può basarsi solo sui divieti, bensì sugli interventi delle grandi organizzazioni umanitarie. Il primo volo di aiuti dell’Italia ha dettato un’agenda del cambiamento, una breccia nel sistema sanzionatorio».
Ha parlato degli interventi della Cei. Che ricadute stanno avendo, nel concreto?
«Cominciamo col dire che le nostre piccole comunità cristiane presenti in Siria e Libano si stanno assumendo enormi responsabilità per l’intera popolazione, con la distribuzione di generi alimentari per tutti, l’educazione scolastica soprattutto a favore di quei bambini che negli anni passati avevano dovuto rinunciare all’istruzione. Iniziative molto belle per favorire l’ospedalizzazione dei più poveri, con il progetto “Ospedali aperti”: perché lì si paga per accedere alle cure ma anche per far uscire le salme. Con i francescani sosteniamo un progetto che consente di garantire 1.500 pasti al giorno. Non solo: con loro e con i salesiani diamo ospitalità a migliaia di persone. Senza questi interventi, non avrebbero un tetto e di che sfamarsi. La Siria ha dato sei Papi al Cristianesimo, non possiamo ignorare la loro testimonianza».
Ha parlato di speranza. È davvero possibile, in quei luoghi?
Sì, l’ho vista negli occhi di quei giovani impegnati a dare gambe ai nostri progetti. Oppure in quella bambina, Hanin, la cui mamma ha partorito durante le scosse di terremoto e ora non ha latte per allattarla. Per sostenere quella speranza, il prossimo 26 marzo in tutte le chiese italiane si parlerà del terremoto in Siria e si raccoglieranno fondi: perché non si pensa alla sofferenza, la si accoglie e vi si provvede. Siamo vicini ai cristiani e ai loro pastori, perciò ho voluto incontrare tutti i vescovi dei sei riti cattolici e due ortodossi. Un fatto non banale, per chi conosce quelle realtà. Insieme riusciremo a portare avanti il dialogo con chi cristiano non è, ma anche a sviluppare nuovi progetti. Uno che mi ha molto colpito è quello che a Beirut sostiene l’unico ospedale per malati gravi psichiatrici presente in Medio Oriente, una sorta di Cottolengo che dà assistenza a 1.500 pazienti che non vengono accolti altrove».
È rimasto colpito soprattutto del Libano. Perché?
«C’è una gravissima crisi, non solo economica (con una svalutazione galoppante) ma anche politica: da tempo manca il presidente alla guida del Paese. L’esplosione del porto di Beirut ha colpito soprattutto le comunità cristiane che vivono in quell’area. Ciò nonostante, continuiamo a sostenere 320 scuole. Senza i nostri interventi diretti, non sarebbe stato possibile acquistare la cucina industriale che prepara i pasti per i 1.500 degenti dell’ospedale psichiatrico di cui parlavo. Sono fatti tangibili, che ci fanno capire quali siano le conseguenze delle sanzioni internazionali».
Lei si è presentato come segretario generale della Cei ma anche come arcivescovo di Cagliari. Non era sufficiente il primo ruolo?
«No, perché ci può essere una politica fatta dalle comunità locali, oltre che dai politici. È una politica di aiuto alle popolazioni che non passa per gli Stati: basti pensare a ciò che fanno i missionari».
Ci parli di altri flash che le sono rimasti scolpiti nella mente.
«Ne racconto alcuni su tutti. Ho visto le croci realizzate da una comunità di suore, fatte con proiettili e spezzoni di mortai. Ho percepito il disagio psicologico di quella gente, soprattutto osservando i disegni dei bambini nelle scuole elementari. Come possiamo raccontare un mondo diverso se ci sono dei bimbi nati dopo il 2011, che hanno visto soltanto distruzione e morti? Un’altra immagine che porto nel cuore è quella di alcune donne islamiche che, ad Aleppo, confezionano delle saponette e vi hanno impresso il logo dell’8 per mille della Chiesa cattolica: loro per prime riconoscono l’importanza dell’intervento della Cei, sanno che da lì dipende la loro vita e il futuro dei loro bambini. Non c’è pace senza sviluppo, non c’è pace senza giustizia, senza verità, senza solidarietà. C’è un cammino di verità che è compito di tutti sviluppare, è il ruolo di noi cristiani. Amore, perdono e accoglienza costituiscono una chance di convivenza anche per i non credenti».
Che fine faranno i giovani che ha incontrato in quei Paesi?
«Dobbiamo offrire loro opportunità di lavoro, servizi sanitari adeguati e accessibili e tanto altro per evitare che anche loro pensino alla fuga come unica soluzione. Noi abbiamo fatto una scommessa, speriamo sia vincente. Come possiamo dire che devono restare a casa loro, quando non hanno neppure una casa in cui abitare? Ho girato un piccolo video (vedi sotto) con lo smartphone, che mostra gli effetti eloquenti della distruzione. Bisogna avere la libertà di poter scegliere. I 500mila morti siriani avrebbero scelto di vivere, se avessero potuto. Bisogna aiutare quelle donne e quegli uomini a vivere in maniera dignitosa. Non c’è solo la Cei ma anche le Chiese di altri Paesi europei che hanno capacità di reperire risorse, oltre a organizzazioni di cooperazione internazionale. Forse dovremmo raccontare meglio ciò che facciamo. Noi vogliamo assicurare un futuro ai nomi delle persone che abbiamo incontrato».
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