Guerra

Siria e Libano: una crisi umanitaria sulla pelle dei minori

di Anna Spena

Oggi si entra nel tredicesimo anno di guerra in Siria, nel Paese più di 15 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria. Due milioni di siriani vivono nei campi profughi libanesi, che è di fatto il Paese che ospita il maggior numero di rifugiati pro capite. Ma il Libano dal 2019 sta attraversando una crisi economica e sociale senza precedenti. È al collasso e a farne le spese maggiori sono i minori, siriani e libanesi, e i giovani che non hanno nessuna opportunità

Aida ha 35 anni, Ma’awiya 42. Non c’è bisogno di spiegarla la vita in un campo profughi, il corpo arriva prima e te la mostra. Aida e Ma’awiya vivono con i loro quattro figli in un campo profughi della piana Marjayoûn, nel Sud del Libano, la zona più rurale e sottosviluppata del Paese. Una distesa lenta dove si alternano — fino al confine con Israele, pattugliato dalle forze di Unifil (forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite) — campi profughi, villaggi cristiani e roccaforti di Hezbollah. Sono scappati da Raqqa 12 anni fa, quando è scoppiata la guerra in Siria. I loro figli sono nati tutti in Libano, il campo profughi è l’unica casa che conoscono. Ma non sono cittadini libanesi e neanche cittadini siriani perché per legalizzare i documenti “servono troppi soldi e non ce la facciamo”. Hanno un solo desiderio per i figli: “devono studiare”. Ma il Libano è un Paese al collasso, e le scuole, come accade spesso, restano chiuse.

Il campo profughi dove vivono Aida e Ma’awiya si chiama Amra, e qui, come in tutti quelli che ormai disegnano la geografia del Libano, un Paese grande per estensione quanto l’Abruzzo, funziona così: si “affitta” una piccola parte di terreno dove poi sarà montata una tenda. Si paga il proprietario del terreno e se i soldi non ci sono si coltivano i campi campi per lui. Tecnicamente si chiamano “Informal Tent Settlements”, di fatto sono distese di terra e tende senza servizi. Ad Amra vivono anche Zahira e Isaam, hanno sei figli, quattro femmine e due maschi. Sono scappati da Deir el-Zor nel 2014, e anche il loro più grande desiderio è quello di farli studiare: “devono avare una vita diversa da questa”. La vita dei siriani in Libano è un’emergenza che si è cronicizzata.

I profughi invisibili

Il Libano ospita, ufficiosamente, due milioni di profughi siriani. L’ultima stima dell’Unhcr risale al 2015, ma la guerra in Siria continua ancora oggi a fare profughi oltre che vittime. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha smesso di registrarli. Per capire fino in fondo il peso di questo numero bisogna guardare ad un altro dato, quello dei cittadini libanesi, che ormai non raggiunge i quattro milioni di abitanti, ma anche in questo caso ci muoviamo nel campo delle stime: l’ultimo censimento della popolazione libanese risale al 1932. La maggior parte dei siriani in Libano non è riconosciuto dal governo, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra sui profughi, dunque non riconosce lo status di rifugiato, per questo non ci sono campi profughi strutturati. Ma oggi in Libano non esiste neanche più un governo. Una volta il Paese era chiamato la Svizzera del Medio Oriente. Le cose hanno iniziato a cambiare con la guerra civile tra il 1975 e il 1990, e poi il conflitto con Israele nel 2006.

La situazione è precipitata, quasi fino al collasso, nell’ottobre del 2019 quando sono partite le proteste di piazza in risposta all’incapacità del governo di trovare soluzioni alla crisi economica. Una crisi finanziaria senza precedenti che ha intaccato l’economia reale generando una crisi sociale profondissima: circa l’82% della popolazione libanese vive oggi sotto la soglia di povertà, il costo della vita è insostenibile, i servizi di base così come le istituzioni statali sono al collasso, la disoccupazione e l’inflazione minacciano la già fragile coesione sociale. La pandemia di Coronavirus e l’esplosione al porto di Beirut nell’agosto del 2020 hanno dato il colpo di grazia. Il Libano ormai è un Paese che non respira più e dalle luci spente. L’elettricità non c’è, esistono dei generatori per chi può permetterseli, ma chi prima aveva i soldi per comprare il fuel adesso non ce li ha più. Le banche rimangono chiuse per settimane, impossibile prelevare. I conti aperti prima del 2019 sono stati tutti bloccati. Se sei malato ti puoi curare solo se sei molto ricco, altrimenti nelle cliniche non ti fanno neanche entrare. Anche le scuole scioperano spesso, lo stipendio medio di un insegnante è di 90 dollari al mese. E tutti i libanesi controllano spasmodici sui loro cellulari l’applicazione “Lira Exchange”, la moneta locale ormai è carta straccia e l’inflazione è schizzata alle stelle.

La crisi sulla pelle dei minori

Senza il supporto della cooperazione internazionale entrambi i Paesi non saprebbero come andare avanti. Fondazione Avsi è in Libano dal 1996, l’ong era arrivata per far fronte all’emergenza socio-sanitaria del dopoguerra e per promuovere progetti in educazione. Oggi la maggior parte dei progetti provano a rispondere alla grave crisi economica e sociale per garantire accesso all’educazione e opportunità di formazione e lavoro ai rifugiati e alle comunità libanesi ospitanti. L’ong organizza corsi di formazione professionale, propone attività educative e di sostegno psicosociale per i bambini siriani e si occupa della distribuzione di beni di prima necessità come acqua, cibo e vestiti. Perché più di tutto l’attenzione è rivolta a minori e giovani?

Perché sono quelli a cui la crisi sta togliendo anche solo la speranza di futuro. «Nel 2022, grazie alle donazioni degli italiani, abbiamo sostenuto a distanza quasi 1.300 bambini e ragazzi, sia siriani che libanesi. Questo gli ha permesso di partecipare a programmi educativi e professionali, di frequentare la scuola ma anche di partecipare ad attività sportive e ricreative, o a corsi di recupero per ridurre il tasso di bocciature», racconta Alice Boffi, responsabile del progetto sostegno a distanza (sad) di Avsi per il Medio Oriente. «Ogni bambino sostenuto a distanza è seguito da un educatore che cerca di cogliere i suoi bisogni e provvede alle sue necessità. Ma non è un sostegno solo al singolo minore, ma una presa in carico della famiglia che viene coinvolta in attività formative e progetti di cash for work».

Giovani senza opportunità ma pieni di desideri

Lo scorso anno Avsi ha attivato una collaborazione con Aic, associazione italiana calciatori, all’interno del progetto sostegno a distanza, per sviluppare insieme un’iniziativa di sport ed educazione. L’attività è partita lo scorso giugno. L’obiettivo era formare 15 giovani ragazzi e ragazze libanesi per farli diventare a loro volta allenatori dei minori siriani e libanesi che vivono nella piana di Marjayoûn. «Noi di Aic ci occupiamo di organizzare attività sportive ed educative per bambini in Italia e all’estero», spiega Luca Milocco, responsabile organizzativo del dipartimento Junior dell’associazione. Insieme a Milocco in Libano è arrivato anche il team di formatori composto da Francesco Mortelliti, Simone Berardi, Mennato Cannelli, Luca Altomare, Simone Perrotta, direttore Aic Junior e Davide Biondini, vicepresidente Aic nazionale. Nel campo profughi di Marj el kokh i calciatori sono stati “presi d’assalto” dai bambini. Momenti di incontro e gioco pensati e organizzati per strapparli dalla monotonia rigida della vita del campo profughi. Perché è importante garantirgli opportunità diverse? Perché sentano di non essere dimenticati.

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“Mi sono divertita tanto con voi, mi siete piaciuti molto”, Anin 12 anni. E ancora “mi piace giocare con voi e mi piace studiare”, Samira, anche lei 12 anni. “Che bello il tempo insieme così”, dicono Farah e Nour di sei e quattro anni. Tutti minori che fanno parte del progetto di sostegno a distanza di Avsi e che sono coinvolti nell’attività di sport ed educazione nata dalla collaborazione con Aic.

Ma ci sono anche le testimonianze dei giovani libanesi formati dagli allenatori di Aic. Tra loro Mohammad, 20 anni, che ha “sequestrato” Bader, 21. Sono uno davanti all’altra e lui sembra un maestro d’orchestra. Solo che non la dirige durante una riproduzione musicale, ma per scattare una fotografia: «hayaa ‘urid ‘an ‘ansharah ealaa Instagram» (Dai la voglio pubblicare su Instagram). Mohammad è seduto e si gira di profilo, poi frontale, poi sceglie quello destro e ancora poi torna sul sinistro. E con il dito indica a Bader come posizionare il cellulare: «‘adnaa Bader ‘adnaa» (più in basso Bader, più in basso). Poi cambia idea «la ru- bama kan sayiyan min qabl» (forse era meglio prima). Mohammad e Bader sono poco più che adolescenti, a loro piacciono le cose normali: i social media, gli amici, l’amore, lo sport. Ma la crisi abissale e dimenticata che sta attraversando il Libano, gli sta togliendo ogni possibilità. Ma i desideri, quelli no. «Io sono un ingegnere», dice Mustafa, 24 anni, «ma non c’è nessun lavoro per me. Ho pensato di andare via. Ma dove? Come? Con quali soldi?».

Mustafa è contento di essere diventato allenatore: «Dobbiamo puntare sui bambini», dice. «Libanesi, siriani, non ha importanza, basta puntare su di loro». Badar invece ha un grande desiderio: «Andare all’estero e trovare un buon lavoro: vorrei studiare risorse umane». Mohammad Fayad ancora dice: «Io avevo studiato letteratura araba. Poi ho lasciato quella strada perché mi sono detto: “Ma che lavoro posso fare qui? Nessuno. Forse solo l’insegnante, ma al momento fare l’insegnante in Libano, dopo il crollo degli stipendi, non è un’opzione”. Eppure mi sarebbe piaciuto lavorare con i bambini, dopo questo progetto ho capito di esserne capace». I ragazzi che hanno preso parte al progetto «sono giovani che abitano in questa zona del Paese», spiega Boffi. «Sono giovani che hanno voglia di darsi da fare per la loro comunità. Alcuni sono ex bambini del sostegno a distanza, altri fratelli o sorelle di minori che Avsi sta ancora supportando».

In Libano i ragazzi stanno smettendo di inseguire i sogni: «Non c’è tempo», dice Rafca, «dobbiamo lavorare per aiutare le nostre famiglie». Hanine lavora ma vorrebbe continuare a studiare: «L’università è a Saida, troppo lontano da qui, non posso chiedere ai miei genitori, ho altre due sorelle che stanno crescendo». Mohammad sorride, ecco che Bader finalmente gli ha scattato la foto che voleva. Lui, come tutti i ragazzi e le ragazze incontrati, chiede solo una vita normale. Ma normale in Libano è un aggettivo che non esiste più per nessuno. Né per i siriani, né per i libanesi.

Sul profilo Instagram di Vita nelle storie in evidenza trovate il racconto del progetto

*i nomi dei profughi siriani sono stati modificati per mantenere l’anonimato

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