Ministra, sindaca, parole declinate al femminile che stanno entrando – a fatica – nel linguaggio comune grazie anche alla spinta dei media. Altre come ingegnera, avvocata, architetta, rimangono per molte persone un tabù, mentre la discussione sul linguaggio di genere diventa ancora oggi preda di facili ironie e bollata come perdita di tempo in quanto “ci sono questioni molto più serie da affrontare”. Eppure sono passati oltre 30 anni da quando Alma Sabatini aveva pubblicato il saggio intitolato “Il sessismo nella lingua italiana” del 1987 (preceduto dalle “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”), tra le attività della Commissione parità tra uomini e donne istituita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Nel 2017 un convegno organizzato a Modena ha fatto il punto sulla situazione, in cui ci si è resi conto con un po’ di scoramento degli scarsi progressi della società in questo senso. Da quell’incontro è nato il libro “Il sessismo nella lingua italiana – Trent’anni dopo Alma Sabatini”, uscito a maggio di quest’anno e pubblicato da Blonk all’interno della collana “Grammatiche della società”. Curato da Anna Lisa Somma e Gabriele Maestri, si tratta di una raccolta di interventi che riunisce una pluralità di prospettive, con la riflessione sulla lingua come filo conduttore comune. Ne parliamo insieme a Gabriele Maestri, curatore del volume insieme ad Anna Lisa Somma, e dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Scienze politiche-studi di genere.
Partiamo da un pregiudizio: la lingua italiana è sessista?
No, la lingua italiana non è sessista – come non lo è nessuna lingua probabilmente. Questo appellativo di solito deriva dall’uso che se ne fa. Però è altrettanto vero che, come disse Alma Sabatini, la lingua non è né neutra né neutrale: significa che non è indifferente usare una parola o un’altra, un genere o un altro. E’ un problema di uso e, aggiungerei, di consapevolezza di come si parla.
Quindi un certo uso della lingua può anche creare delle discriminazioni, in questo caso di genere?
Se non usata in modo rispettoso o rispondente alla realtà può crearle o approfondirle. Viceversa può anche contribuire a eroderle e a cancellarle. Parlo di “rispondente alla realtà” perché è del tutto irragionevole impiegare un linguaggio che sembra rappresentare un mondo prevalentemente al maschile o in cui il maschile appare il modello, quando la realtà è ben diversa: ciò soprattutto se si considera che le regole della lingua – che pure non sono immutabili – consentono di rappresentare questa dimensione plurale.
Puoi fare qualche esempio di utilizzo non rispondente alla realtà?
Un esempio, che faceva anche Alma Sabatini, è quando si utilizza il cosiddetto maschile inclusivo, o maschile non marcato. Quando diciamo che la scrittrice X è “uno tra i maggiori scrittori viventi”, abbiamo già fatto il danno. Si è già sostanzialmente detto che il maschile è il modello. Certo, non è facile immaginare regole valide in ogni contesto: l’italiano scritto permette di utilizzare strategie come l’asterisco alla fine della parola per includere tutti i generi, mentre quello parlato non consente ciò e, per natura, è più veloce, meno sorvegliato e frutto di riflessione. In ogni caso, si fa più fatica a utilizzare un linguaggio inclusivo se non se ne capisce il senso.
Molti ancora oggi rifiutano la declinazione al femminile di una parola perché “suona male”. Cosa significa?
Una parola ci suona male quando cozza contro le nostre abitudini, legate alle regole o alle regolarità. Per alcuni ruoli da tempo ricoperti dalle donne siamo ormai abituati: ad esempio a nessuno verrebbe in mente di dire “il maestro con la penna rossa” per definire la maestra. Il problema invece esiste per professioni, ruoli e cariche cui le donne hanno avuto accesso più di recente – anche se ormai sono passati decenni – o a lungo ricoperte soprattutto da uomini. Ancora oggi, sulla stessa notizia legata a Virginia Raggi o Chiara Appendino, troviamo un giornale che dice “il sindaco”, un altro che dice “la sindaca”, un altro che dice “la sindaco”. Già qui si vede che, non essendoci omogeneità, c’è la necessità di tornarci sopra con la riflessione. Spesso poi sono le stesse donne a non volere che si utilizzi il femminile nei titoli, nelle parole. Le ragioni sono diverse: da una parte c’è l’idea – sbagliata – che nell’italiano esista il neutro. Lo pensano anche alcuni celebrati esperti di cerimoniale ritenendo che, nel riferirsi alla carica, non debba avere rilevanza il genere di chi la riveste. Poi purtroppo c’è anche chi ritiene che declinando una carica al femminile si perda una parte del prestigio, o si rischi di essere meno rispettate. Come se la declinazione al femminile fosse in qualche modo sminuente per quella persona. L’uso quotidiano dimostra qualcosa di simile: dicendo “cuoco” si pensa allo chef, mentre la cuoca sta in mensa; se dico segretario tutti pensano al segretario di partito o ad un funzionario, se dico segretaria si pensa alla donna che lavora in un ufficio. Sono esempi noti da tempo, ma se suonano ancora adesso così vuol dire che il problema esiste.
C’è chi dice che sono problemi di “lana caprina” e che c’è ben altro di cui occuparsi.
E’ un’accusa ricorrente. Ma, primo, pensarci costa poco e non vedo perché più cose alla volta non si possano fare. Secondo, nonostante oltre 30 anni di studi autorevoli, non si è ancora capito che dare il corretto nome alle cose è fondamentale, altrimenti si rischia di falsare la realtà. Dietro le parole che si utilizzano c’è un mondo, ricco di problemi che vanno certamente oltre il linguaggio: penso al cosiddetto “soffitto di cristallo” e al minore accesso ai ruoli di prestigio da parte delle donne. Ma nella storia ci sono stati momenti in cui questioni di linguaggio sono state addotte per impedire l’accesso a determinate carriere – penso ad esempio all’avvocatura – o addirittura l’esercizio di certi diritti, come il voto.
Un problema che interessa più ambiti, come dimostra il carattere multidisciplinare del convegno del 2017 e questo volume uscito di recente.
Nel 1987 era uscito lo studio di Alma Sabatini “Il sessismo nella lingua italiana” preceduto dalle “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”. Nell’88 Sabatini è tragicamente scomparsa, ma in questo breve arco di tempo ci fu un primo tipo di attenzione verso questi temi. Quindi ci sembrava giusto, oltre che rendere omaggio a chi aveva speso tanta attenzione su questo, provare a fare il punto della situazione, sapendo bene che dopo Sabatini sono arrivati tantissimi altri studi approfonditi, soprattutto in area linguistica, sociologica, filosofica e giuridica. Il volume è diviso in tre parti, più la conclusione espressamente dedicata ad Alma Sabatini, attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuta e ha lavorato con lei. Sono parti che rispecchiano la scansione del convegno, in cui ci si è occupati innanzitutto della lingua: analisi, regole e pratica linguistica, anche attraverso lo studio della stampa e dei quotidiani. Una seconda sezione è legata ai risvolti del linguaggio in ambito giuridico e sociale; l’ultima parte è invece legata alle ricadute pratiche, anche in realtà diverse dalla nostra (c’è ad esempio un confronto con la realtà scandinava). L’ultimo contributo, per esempio, è frutto di un’indagine di Paolo Nitti dal titolo: “Non uso le raccomandazioni perché suona male”. Purtroppo non è una frase riscontrata nel 1987, quando lo studio di Sabatini fu sbeffeggiato da più parti, ma contemporanea. Significa che c’è molto lavoro da fare.
Come se ne esce? Un aiuto può arrivare dai media?
I media nel tempo hanno fatto molto. Penso soprattutto al lungo e costante impegno di Giulia Giornaliste, ma credo sia giusto citare anche Sergio Lepri, storico direttore dell’Ansa, che tanto nello studio curato da Sabatini quanto in tempi più recenti ha sottolineato l’esigenza di evitare usi sessisti della lingua. Si è poi lavorato anche in ambito di pubblica amministrazione con pubblicazioni, manuali di stile che aiutano ad avere degli atti chiari e comprensibili. Perché è vero che l’uso del maschile per una donna spesso contribuisce a confondere l’atto. Mentre l’uso del femminile lo rende reale. Se un atto è firmato da una sindaca non vedo perché si debba scrivere “il sindaco”, o peggio “la signora sindaco”. E’ l’abitudine che rende eufonica o cacofonica un’espressione. Quindi dove le regole della lingua italiana lo consentono si dovrebbe sempre usare il femminile. Per uscirne bisogna quindi cercare innanzitutto di capire, e una volta che si è capito, metterlo in pratica, in modo che altre persone a loro volta possano attivarsi, rendersi conto del problema e agire a loro volta.
Una sensibilizzazione su questi temi può arrivare anche dalle scuole?
I saggi di Alma Sabatini servivano a chi con la lingua ci lavora, come gli operatori dell’informazione, ma anche del mondo della scuola. Cambia il mondo se si entra in un’aula, magari alla scuola primaria, e si dice “buongiorno a tutte e tutti”. Perché educa immediatamente al pluralismo e alla differenza.
In questo modo la lingua contribuisce a plasmare il presente e anche il futuro?
L’errore che spesso si fa è pensare la lingua come un monolite: “le regole sono queste e quindi si deve dire così”. Invece la lingua cambia, è viva, evolve e quindi a sua volta ha il “potere” di realizzare e modificare: quello con la realtà è un rapporto circolare, quasi osmotico. Spesso la lingua cambia senza che ce ne accorgiamo, ma in questo “gioco” la consapevolezza ha pure un ruolo essenziale, perché alla fine nel concreto siamo noi che decidiamo come parlare e come no. E’ proprio questo rapporto circolare che rende la lingua uno strumento prezioso e potente, ma carica le persone di una grande responsabilità. Ed è importante che siano innanzitutto le persone più giovani a interrogarsi su questo, perché permetterà in seguito di avere un’idea diversa del mondo, in cui non c’è un modello cui ci si deve adattare. Perché è lì il problema, e di nuovo si darà la colpa alla lingua dicendo che è sessista, o al contrario che è neutra e quindi non c’è da discutere. Ovviamente usare il femminile non risolve tutto. Non usarlo, però, non è assolutamente utile, oltre che essere profondamente ingiusto.
Foto in alto da Pixabay.
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