Cosa spinge un medico a rimettersi il camice dopo averlo tolto in ospedale, per andare a prestare assistenza gratuita a chi è più fragile e rischia di essere dimenticato dal sistema? Per Mariolina Congedo, specialista distrettuale per la neurologia nell’azienda sanitaria di Udine, ma volontaria a Trieste, l’impegno per le persone vulnerabili è un’estensione e una naturale conseguenza della sua professione. Come lei, molti colleghi e colleghe – circa 70 tra medici e infermieri – fanno parte dell’associazione Donk humanitarian medicine, che a Trieste offre prestazioni ambulatoriali a chi è in arrivo dalla rotta balcanica e a chi, italiano o straniero, si trova in difficoltà ad accedere alle cure mediche. Al momento l’organizzazione riesce a tenere aperti ben 8 ambulatori, di cui sei fissi e due mobili, grazie a una nuova acquisizione, il camper attrezzato “Donky”.
Qual è la motivazione che la porta a ricominciare a fare il suo mestiere dopo aver staccato dall’ospedale?
Siamo medici del servizio sanitario pubblico, considero quello che faccio per Donk una semplice estensione della normale attività. Non è niente di eroico. I migranti sono delle persone che transitano sul territorio italiano: dove il servizio sanitario non riesce a coprire i bisogni, noi, che comunque collaboriamo col servizio sanitario pubblico, offriamo la nostra disponibilità. Non è nient’altro che continuare la nostra attività. Io sono una specialista distrettuale per la neurologia nell’azienda sanitaria di Udine, anche se in Donk offro un servizio comparabile alla medicina generale. Certo, siamo volontari, non si lavora per ricevere del denaro: si opera perché ci sembra giusto e vicino alle nostre competenze. Possiamo dare il nostro contributo per non intasare il pronto soccorso, ma anche vedere il fenomeno migratorio da vicino e sgonfiare una serie di luoghi comuni. Non facciamo niente di speciale: è normale che ci si attivi secondo le proprie possibilità. Tante persone a Trieste si sono date da fare sotto diversi punti di vista, si pensi a coloro che portano da mangiare la sera in piazza Libertà (la piazza accanto alla stazione, dove si riuniscono le persone migranti in arrivo, ndr). Ho trovato quella presenza costante ben più eroica di quello che facciamo noi. Come medici Donk, ci poniamo in continuità e siamo un’emanazione del servizio sanitario pubblico. Abbiamo il nostro lavoro retribuito e ci possiamo permettere di dedicare un po’ del nostro tempo al volontariato; inoltre ci sono anche persone più giovani, alcuni neolaureati che ancora non sono entrati in specialità e hanno una fase nella quale decidono di dedicarci qualche ora: è un modo di fare esperienza, seppur un po’ inusuale.
Siete in tutto 70, tra medici e infermieri, un numero alto.
Donk si è molto allargata, siamo diventati tanti e ogni volta che facciamo un incontro si aggiunge qualcuno. Significa che ci rendiamo conto che le migrazioni esistono e sono sempre esistite e che la civiltà di un popolo si misura nel sapere riconoscere a chi arriva quei diritti di base che vorremmo fossero riconosciuti a noi, primo tra tutti la salute. Abbiamo avuto alcuni pediatri che si sono resi disponibili, specie nella fase di arrivo degli Ucraini, o una ginecologa per le famiglie in cui ci sia una mamma in attesa o che ha appena avuto un bambino. C’è anche un operatore farmacista, che non è un volontario, ma che viene inviato con noi negli ambulatori e si occupa di organizzare i farmaci e di farne richiesta: una quota dei medicinali che utilizziamo viene dall’Azienda sanitaria e quindi dobbiamo richiederli per tempo. Non dimentichiamo i mediatori linguistici che sono indispensabili e ci vengono messi a disposizione da vari enti.
Il sistema sanitario nazionale viene svilito e de-finanziato. Però o ci piangiamo addosso o dimostriamo che certe che cose sono fondamentali. Io preferisco dare una dimostrazione positiva
Insomma, lavorate nel rispetto del giuramento di Ippocrate.
Giusto per essere un po’ più moderni, abbiamo una costituzione che dice che devono essere fornite cure gratuite per gli indigenti. So che sono affermazioni che attualmente vengono messe in dubbio e tutti vedono come il servizio sanitario nazionale, che fortunatamente abbiamo avuto finora, venga de-finanziato e svilito. Però o ci piangiamo addosso o dimostriamo che certe cose sono fondamentali. Io preferisco dare una dimostrazione positiva, di una collaborazione possibile tra medici che svolgono una piccola parte della loro attività in ambito volontario e un’azienda sanitaria che tutto sommato li riconosce.
C’è una giornata tipo in ambulatorio?
Non c’è mai un giorno uguale a un altro. Non sono tutti incontri idilliaci, ci sono anche discussioni e atteggiamenti molto polemici. Per esempio, se ci vengono chiesti dei farmaci non motivati, che magari sono stati somministrati lungo la rotta balcanica in condizioni per nulla chiare e in assenza di documentazione, noi non li prescriviamo. E naturalmente le persone si arrabbiano, non apprezzano il nostro intervento. Poi bisogna considerare che abbiamo a che fare con pazienti che vedono il nostro servizio sanitario in funzione delle possibilità di tipo tecnologico: trovarsi davanti a dei medici che visitano ancora con la semeiotica classica li lascia perplessi e, a volte, scontenti. Veniamo criticati per questo. È un mondo molto sfaccettato, esattamente com’è sfaccettato il mondo dei pazienti locali. Ci sono persone che capiscono l’approccio e altre che lo criticano; ci sono coloro che hanno attese destinate a essere deluse, a volte ci sono atteggiamenti aggressivi. Come dappertutto, insomma.
Quali sono le patologie che vedete più frequentemente?
Sicuramente quelle dermatologiche, per le condizioni igieniche vissute lungo la strada e poi nel silos o in strada. Ci sono infezioni della cute, malattie infettive o da parassiti, come la scabbia. Ci sono anche delle condizioni croniche; persone, per esempio, che già sapevano di avere un’ipertensione. In questi casi abbiamo cercato di stabilire velocemente una continuità di tipo assistenziale, in modo che potessero avere non solo i farmaci, ma tutti gli accertamenti previsti, quindi facendo avere subito l’Stp (l’assistenza per lo straniero temporaneamente presente, ndr) per farli entrare nel sistema di cure regolari. Poi c’è una certa incidenza anche di patologie psichiatriche. C’è qualche caso particolare, come quello di un giovane che aveva riportato un trauma con danno permanente al plesso brachiale nell’arto superiore di destra. Siamo riusciti a farlo andare a Rovigo, sede di un centro di eccellenza di neurochirurgia per il sistema nervoso periferico, dove gli hanno spiegato cosa realisticamente avrebbero potuto proporgli – a sei anni dal trauma – una volta che avesse ottenuto la tessera sanitaria.
Insieme a noi ci sono tante altre associazioni e ognuna cerca di fare la sua parte. È una rete molto grande, ci sono tante persone di buona volontà.
Come funziona per le persone in transito, che quindi non hanno e non avranno la tessera sanitaria?
Possono rivolgersi all’ambulatorio di via Udine (anch’esso poco distante dalla stazione, ndr) presso il Centro diurno gestito dalla Comunità di San Martino al Campo. L’ambulatorio è attivo dal lunedì al venerdì. Donk ha acquistato un camper attrezzato con due ambulatori, utile a raggiungere chi non è accolto, ma non abbiamo avuto il permesso di stazionare in città su suolo pubblico. Non ci potevamo, quindi, portare in prossimità del silos. Alcuni di noi hanno usato il camper a Gradisca d’Isonzo, vicino a una parrocchia che offriva ospitalità, e a Trieste, nel cortile privato dei frati cappuccini in Montuzza, che poi è anche dove le persone vanno per un pasto caldo.
Queste persone, comunque, potrebbero accedere al pronto soccorso?
Certo, questo lo prevede la normativa italiana. Però con gli ambulatori Donk vorremmo evitare che il pronto soccorso sia intasato per problematiche gestibili in ambulatorio di medicina generale, come la scabbia o un taglio al piede. Naturalmente se c’è una frattura o un ascesso di dimensioni tali che non è possibile drenarlo in ambulatorio, mandiamo la persona in pronto soccorso.
Quindi di fatto, le emergenze sono garantite in Italia?
Chiunque si trovi sul suolo italiano può accedere al pronto soccorso, chi ha l’Stp può ottenere anche delle cure continuative e un medico di medicina generale. Per gli interventi che non vengono considerati urgenti, invece, la persona deve avere la tessera sanitaria.
Trieste è una città che vive una situazione particolare, trovandosi all’ingresso in Italia della rotta balcanica. La cittadinanza, secondo lei, è in media solidale con le persone in arrivo?
Lo ricordavo prima, insieme a noi ci sono altre associazioni e ognuna cerca di fare la sua parte, per esempio portando la cena in piazza. È una rete molto grande, ci sono tante persone di buona volontà. Naturalmente è qualcosa che non fa tanto rumore e si vede meno rispetto ai gesti di stizza o di intolleranza. Io ho sempre riconosciuto che anche questi ultimi atteggiamenti hanno delle ragioni che vanno ascoltate, bisogna accettare il dialogo e non si possono negare le ragioni degli altri. Però, per esempio, abbiamo fatto un incontro a Prosecco (borgo situato sul Carso, poco distante da Trieste, ndr) perché ci era stato detto che la popolazione manifestava insofferenza per gli arrivi in una struttura scout che è stata usata per l’accoglienza e che, in alcuni periodi, era molto affollata. Al termine dell’incontro, avevamo una volontaria in più. Siamo andati là pronti a rispondere con forti motivazioni a degli attacchi, in realtà poi abbiamo detto cose molto semplici e alla fine c’era già qualcuno che voleva venire a darci una mano.
Foto in apertura e nell’articolo fornite dall’ufficio stampa
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