La fuga dalla Nigeria, l’inferno in Libia e quello in Italia. Dalla miseria e la violenza alla strada, fino all’incontro con suor Rita Giaretta e la rinascita. Joy Ezekiel, protagonista del libro Io sono Joy. Un grido di libertà contro la schiavitù della tratta (Edizioni San Paolo), ha raccontato la sua storia il 7 ottobre, ospite d’onore di Arché Live a Milano, una giornata organizzata da Fondazione Arché onlus.
Quando non è impegnata con il lavoro e il tirocinio gira l’Italia con il libro che racconta la sua storia di vittima della tratta, ingannata e costretta a prostituirsi. Librerie, case di accoglienza, ma anche e soprattutto scuole. Dopo aver trovato la libertà, ora la sua missione è aiutare le altre donne che si sono trovate sulla strada e spingere le ragazze a fare quel passo verso la libertà che lei ha avuto il coraggio di compiere. E sono tante (le donne provenienti dalla Nigeria e che passano per la Libia sono state 20mila dal 2015, secondo i dati di Progetto integrazione assistenza migranti – Piam, una onlus di Asti che si occupa di donne e immigrazione, con particolare attenzione alle vittime di tratta e sfruttamento).
Coinvolgere anche i professori
Lei si chiama Joy Ezekiel, il 4 maggio ha compiuto 30 anni, ed è nata a Benin City in Nigeria. Era una schiava. Dopo gli anni trascorsi a Caserta prima sulla strada o poi insieme a suor Rita Giaretta (di lei abbiamo parlato anche QUI) a Casa Rut, dal 2021 si è trasferita a Roma, in zona San Giovanni: lavora in una cooperativa sociale e si occupa di assistenza agli anziani e ai disabili. Da qualche mese convive con il suo fidanzato. I traumi che l’hanno segnata non l’hanno abbandonata, ma ora insegna ai ragazzi che cos’è la libertà. «Non solo», precisa, «con suor Rita cerchiamo di coinvolgere prima di tutto i professori in modo che i ragazzi siano pronti». Un lavoro che è soprattutto preparatorio all’incontro vero e proprio e che diventa parte del programma scolastico.
I temi della tratta e della schiavitù devono essere portati in aula prima, in modo che si arriverà all’incontro con il testimone in modo consapevole. Non basta una narrazione, occorre avviare processi che aprano allo spazio della trasformazione
suor Rita Giaretta
«No, non si dà in pasto una persona. La scuola deve preparare», precisa suor Rita, «i temi della tratta e della schiavitù devono essere portati in aula prima, in modo che si arriverà all’incontro con il testimone in modo consapevole». Non basta una narrazione, «occorre avviare processi che aprano allo spazio della trasformazione». Per farlo c’è bisogno di tempo. I prossimi appuntamenti, nei primi mesi del 2024, toccheranno anche Latina e Lecco.
Ferite che diventano patrimonio di tutti
Permettere alle ragazze di raccontarsi e prendere consapevolezza che anche le loro drammatiche ferite possono diventare un patrimonio anche per altri, da una parte vuol dire liberarsi, spiega suor Rita, ma anche far emergere una «grande potenza di grazia, che può essere donata». La possibilità di narrare con serenità, frutto di un lavoro fatto nel profondo, «è uno schiaffo positivo per chi ascolta, vuol dire “anche io ce la posso fare”». Certo, ricorda Giaretta, all’inizio soprattutto i ragazzi hanno un atteggiamento di diffidenza davanti a questi racconti. «Chiacchierano, fanno confusione, disturbano. Poi il silenzio». Ecco quello è il momento in cui «sono presi dentro perché hanno capito che queste storie parlano alla loro vita e alle loro fatiche».
Un tesoro dentro
Dunque, il legame di Joy con suor Rita Giaretta. Per Joy una mamma: 67 anni, vicentina, è la religiosa orsolina fondatrice della casa di accoglienza che ha dedicato la vita al recupero delle ragazze vittime della tratta: in 25 anni con Casa Rut ne ha ospitate 600. Joy aveva un tesoro dentro, racconta la religiosa, «il lavoro che abbiamo fatto è stato proprio aiutarla a scavare dentro e far emergere la sua grande ricchezza».
Quando accogliamo le ragazze guardiamo solo gli occhi, non i loro vestiti
suor Rita Giaretta
La bellezza ritrovata
Il primo passo? «Gli sguardi. Ecco noi abbiamo visto in lei una bellezza che non riusciva più a cogliere. Joy è arrivata a testa bassa, piena di vergogna, si sentiva sporca». Joy ha seguito suor Rita a Roma. «Continuiamo a camminare insieme. Ora prende le sue decisioni da sola, è chiaro, ma sente il bisogno di aprirsi, confidarsi e di appoggiare il cuore».
Non posso pensare di farcela da sola
Il prezzo che Joy ha dovuto pagare infatti per rompere le catene è stato salato. È salato: ancora adesso è seguita da una psicologa. «Sto bene», dice, «sono molto impegnata con il corso per diventare operatrice socio sanitaria (a dicembre farò l’esame) e il lavoro. Mi piace stare a contatto con le persone ed è quello che mi ha salvata, ma non posso pensare di farcela da sola e sopportare tutto». I momenti di crisi? Non mancano e sono legati alla sofferenza che si porta dentro. «Ci sono tante domande dentro di me a cui devo dare una risposta, tante cose da chiarire». Spostarsi a Roma l’ha aiutata. «Mi ha fatto vedere oltre i limiti di Caserta, ora sto affrontando nuove realtà. La vita è così grande».
Ho iniziato a raccontare la mia storia già quando ero a Casa Rut. Ora sono felice di parlare agli studenti, non per piangere, ma per far capire
Joy Ezekiel
I miei genitori vivevano in un villaggio della Nigeria meridionale
Morto il papà, quarta di cinque figli, con poco da mangiare, Joy è arrivata in Italia a maggio 2016, quando di anni ne aveva 23. È iniziato tutto così. «Un giorno un’amica di famiglia, una fedele che frequentava la chiesa, ci ha riferito che c’era per me la possibilità di lavorare in Italia. Una grande opportunità per me. All’inizio io ho rifiutato, ma poi, spinta anche dalla mia famiglia, ho accettato e sono partita».
In Nigeria nessuno di noi andava a scuola. Ci arrangiavamo mangiando ciò che le persone buttavano in terra, mentre ritornavano dal vicino mercato. Avevamo sempre fame
Joy Ezekiel
Prima della partenza, il voodoo
«Imade», racconta Joy nel libro, «mi disse che, prima di partire, dovevo sottopormi al rito del voodoo perché non mi accadesse niente di male e gli spiriti mi proteggessero». È la catena della schiavitù che si chiude: «Quando sarò in Italia rispetterò la donna che mi ospiterà, obbedirò ai suoi ordini, non le procurerò dei problemi», le hanno fatto giurare. Con la sua storia, raccontata nella pubblicazione di Mariapia Bonanate, con la prefazione scritta da Papa Francesco, Joy ha ripercorso la sua drammatica esperienza di viaggio, in ogni dettaglio.
Ho accolto volentieri l’invito a scrivere questa breve prefazione, con il preciso intento di consegnare ai lettori la testimonianza di Joy come “patrimonio dell’umanità”
Papa Francesco
Il sogno di Joy è che la sua storia diventi un film. Proprio com’è successo a Fofana Amara con “Io Capitano” di Matteo Garrone. «Conosco la vicenda, ma non riesco a guardarlo».
Per loro ero solo un numero
Il dramma di Joy si apre quando viene portata nel punto di raccolta, dove ha incrociato la strada di tante altre giovani nelle medesime condizioni. Una tappa che anticipa la traversata di due settimane del deserto: tutte stipate nei suv o nei cassoni dei pick-up, costrette a mangiare farina con poca acqua e con il rischio di cadere e di essere abbandonate. Una vicenda segnata dai giorni trascorsi nei campi di detenzione libici e dal tragitto in mare. «È stato umiliante: non ero più una persona. Ero un oggetto che passava da un proprietario all’altro, una merce che faceva parte di un business gestito da trafficanti rapaci, senza scrupoli. Per loro ero soltanto un numero».
Non sono più tornata in Nigeria e non penso di farlo
Joy Ezekiel
La lunga traversata
Il viaggio dalla Nigeria all’Italia ha una prima fermata ad Agadez, in Niger. Nel percorso tra Benin City e Agadez le donne che non sono lasciate a morire nel deserto, vengono usate per corrompere la polizia e garantire un passaggio rapido. Una volta ad Agadez le vittime vengono portate nel mercato degli schiavi, dove arrivano a contarsi dai 20mila ai 25mila migranti ogni mese, per la maggiore provenienti dall’Africa occidentale e diretti in Europa. Le donne sopravvissute raccontano che qui venivano violentate ripetutamente. Nei campi di concentramento in Libia il ruolo dei trafficanti è quello di far guadagnare alle donne, attraverso lo sfruttamento sessuale, il denaro per attraversare il Mediterraneo.
La fede e la comunità
E in Italia? Dall’inferno della Libia ad un altro inferno. Prima l’arrivo in Sicilia, il trasferimento a Bari e poi sulla strada a Castel Volturno, dove è rimasta un anno (secondo i suoi aguzzini doveva ripagare un debito di 35mila euro). Ingannata. Incinta da una violenza subita in Libia, costretta ad abortire al quarto mese di gravidanza, Joy si è salvata grazie all’incontro con la comunità di accoglienza Casa Rut di Caserta. «Nel suo cammino verso la libertà», scrive sempre Papa Francesco nella prefazione al libro, «Joy ci indica due realtà fondamentali: anzitutto, la fede in Dio che salva dalla disperazione. Una fede salda, messa alla prova nei momenti più duri. In secondo luogo, la comunità. Joy ha dato inizio alla sua rinascita nel momento in cui è stata accolta dalla comunità “Casa Rut” di Caserta».
Il prezzo della libertà
Lì l’ha accolta suor Rita Giaretta. Nella struttura c’era e c’è ancora una sartoria sociale chiamata Newhope, che è diventata con il tempo una possibilità concreta di riscatto. Joy ha ripreso gli studi e ha cominciato a lavorare in questo laboratorio e dopo la licenza media ha iniziato a studiare per diventare operatore socio sanitario. Quando suor Rita quattro anni fa ha deciso di spostarsi a Roma (zona Tuscolana), Joy – appena presa la maturità – l’ha seguita. «Mi ha chiamato, abbiamo un legame molto forte, è una persona che Dio mi ha messo davanti, è un dono», racconta.
Casa Rut, la rete del territorio
Casa Rut è nata nel 1995 grazie all’impegno di suor Rita e di altre due suore orsoline del S. Cuore di Maria, arrivate a Caserta da Vicenza, che hanno dato vita al centro per prendersi cura di donne, soprattutto migranti, sole o con figli piccoli in situazioni di sfruttamento e condizioni di precarietà sociale e umana. «No, Casa Rut non è una struttura protetta», precisa, «in certe realtà sei la somma del tutto e si lavora con il territorio». Si crea una rete tale che, sottolinea suor Rita, fa da argine. Col tempo, aggiunge, «siamo entrati in contatto con il territorio, ci siamo fatte conoscere dalle istituzioni, dalle procure, dalle forze dell’ordine». Un esempio? «Quando le ragazze dovevano testimoniare nei processi si attivava tutta una rete di protezione e di attenzione». Una rete che è stata in grado di «svestirsi dalla rigidità di un’uniforme e mantenere un tratto di umanità». La chiave? Far conoscere ed emergere la storia drammatica delle ragazze e fare in modo che «venissero trattate come persone, non come merce di scambio». Una vera unità che ruotava intorno ad un progetto, di cui sente un po’ la mancanza. «A Roma è molto più difficile», racconta, «c’è tanta dispersione, tanta frammentazione. Casa Rut è potuta nascere perché era a Caserta».
I criminali sono forti sull’invisibilità degli altri, quando non sei più un numero sono loro a dover stare attenti
suor Rita Giaretta
Lavorare sulla creatività
Nel maggio 2004, in Casa Rut è nata la Cooperativa Sociale Newhope, una sartoria etnica, in cui le migranti possono riappropriarsi della propria dignità attraverso il lavoro, ponendo al centro il valore della persona nella molteplicità delle appartenenze etniche e religiose e considerando la donna migrante risorsa positiva per tutta la comunità, ponendosi quale agente di sviluppo e di rafforzamento dei suoi diritti. Quattro anni fa suor Rita ha fatto una scelta. «La cooperativa Newhope poteva andare avanti: era in grado di camminare da sola.. Ecco, mi sono detta, inseguo un altro sogno», racconta. Il sogno? «Il punto di partenza è l’enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco». La direzione? «Accogliere e integrare. Lavorare sulla creatività delle persone, proprio come abbiamo fatto anche con Joy».
In apertura Joy Ezekiel, foto per gentile concessione dell’autore. Le foto nel testo sono per gentile concessione della fondazione Arché onlus e di Casa Rut
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