«Immaginate un chiosco in periferia, di quelli dove si mangia l’anguria d’estate. Avremo raggiunto il nostro obiettivo soltanto quando in uno qualunque di quei tavolini sapranno tutti che cos’è Torino Social Impact». Lo scorso agosto ci eravamo lasciati così, con la suggestione lanciata dal professor Mario Calderini, uno dei massimi studiosi di impatto in Italia, per raccontare il senso più autentico dell’ecosistema di cui è portavoce. Un marchio collettivo che non ha governance ma ha visione, nato in seno alla Camera di Commercio di Torino nel 2017, che oggi conta oltre 360 attori tra pubblici e privati, profit e non profit riuniti per l’imprenditorialità e gli investimenti a impatto sociale.
Come si arriva fino a quei tavolini? Che cosa significa in concreto “impatto”? E come cambia una città come Torino quando sceglie di diventare uno dei migliori posti al mondo per fare impresa e finanza con uno sguardo al sociale? Per capirlo, bisogna mettersi in viaggio, uscire dalla logica dei luoghi e addentrarsi nelle parole, partire dalle domande. Le risposte non saranno mai singole, ci vorrà un coro di voci per restituire sostanza alle definizioni. A VITA le sfide piacciono, soprattutto quando si tratta di raccontare le sfumature. Vi condurremo tra i nodi che insieme compongono la rete di Torino Social Impact: uno spazio di scambio e idee, legami e connessioni che, un passo dopo l’altro, cambiano la fisionomia e rafforzano la vocazione di un territorio.

Scarpe comode e bussola
Prima di partire, bisogna attrezzarsi. Scarpe comode, una bussola per non perdersi, e soprattutto, lo zaino. Che cosa ci mettiamo dentro? Lo abbiamo chiesto (e non poteva essere altrimenti) a Mario Calderini, torinese, docente di Social Innovation alla School of Management del Politecnico di Milano, figura di spicco nel mondo dell’economia sociale a cui la Camera di Commercio di Torino ha affidato il compito di portavoce del Torino Social Impact – Tsi, ma anche il primo a immaginarne i lineamenti.
Appoggiare l’impatto su quei tavolini, entrare nel linguaggio collettivo fino a contaminare l’humus di una città. È possibile? Secondo Calderini ci sono due strade, «una lunga e una breve: non sono alternative, si possono percorrere entrambe». La prima è quella della trasformazione culturale, un percorso a lungo termine che il professore descrive così: «Il riferimento più vicino nella mia memoria, per far comprendere ciò che ho in mente, è la Torino di Diego Novelli negli anni Settanta, quando cresceva l’impostazione dei punti verdi, il tempo pieno nelle scuole, un insieme di azioni che piano piano plasmava e rendeva solida la consapevolezza delle persone sui propri diritti a fruire degli spazi, a gestire i propri tempi e a rivendicare luoghi di libertà. È una strada che mette radici profonde ma che Torino Social Impact farebbe fatica a percorrere da sola. I processi di innovazione sociale dal basso non riescono a radicarsi in maniera massiva dentro le coscienze della società senza una politica pubblica che sia capace di immaginare il futuro».

La seconda strada, continua Calderini, esce dai confini della Ztl e raggiunge periferie geografiche e di pensiero che oggi sono molto distanti da quello che fa Torino Social Impact. Le tappe, in questo caso, consistono in «singole iniziative che riescano a far reinnamorare gli abitanti, a ricordare loro l’esistenza della possibilità di riappropriarsi di spazi e tempi della città. Interventi meno sistemici e più locali (il parco, le panchine, la bocciofila) che in qualche modo, attraverso una serie di sperimentazioni, mettano in luce la concreta opportunità di vivere in un bel posto, costruire spazi comuni, dotarsi di infrastrutture collettive. Segnali dell’esistenza di Torino Social Impact come un terreno in grado di attivare e far scalare processi dal basso».
Cosa mettere dentro lo zaino?
Il professor Calderini non teme le provocazioni, anzi, rilancia. «Io credo che la cosa più importante da mettere nello zaino sia un po’ di antagonismo, anche a livello di comunicazione. Se di impatto stiamo parlando, allora anche il giornalismo deve assumere la postura dell’impatto. In un contesto globale dove le sfide sociali e ambientali richiedono una risposta collettiva, l’informazione può contribuire al cambiamento».
Il secondo elemento, imprescindibile, è lo spirito critico: «Ne sono profondamente convinto». E poi? «Una buona dose di curiosità nei confronti delle esperienze, riscoprire la forza della pars destruens, le principali fonti di errore, quelle che dal latino traduciamo “fantasmi, rappresentazioni mentali”». Calderini si riferisce all’importanza di andare a scavare dentro la storia degli abbandoni e dei fallimenti, «chiedersi perché le cose non sono andate bene. A Torino abbiamo trent’anni di cattive esperienze da cui imparare, ci sono lezioni straordinarie che avrebbero una forza enorme. Occorre rompere il pudore, avere il coraggio di raccontare la parte negativa delle storie e porre le domande giuste per coglierne il valore didattico positivo. Questo è fare impatto, costruire coscienza critica e dare speranza al futuro».
Tre concetti da cui partire
Innanzitutto, l’integrità. Nell’accezione indicata da Calderini è ideologica e tecnica. Ideologica è l’integrità fondata sui tre pilastri dell’impatto sociale: addizionalità, intenzionalità e misurabilità. «Essere fondato su quei tre principi è ciò che distingue l’impatto da un effetto positivo», spiega. E poi c’è un’integrità tecnica: «Abbiamo un grande tetto di vetro che continuiamo a non sfondare, la non disponibilità di dati veri. Penso che questa sia la frontiera da superare oggi: reperire un insieme di dati che consentano di fare realmente dei ragionamenti sistemici per illuminare i problemi sociali e comprendere gli effetti delle politiche e delle azioni di impatto sociale».

Il secondo concetto è riscoprire il valore sociale del mercato. «Non è semplice, ma ci credo fortemente. Dobbiamo tornare ai manuali di economia, ribadire che l’impatto sociale è innanzitutto dato da buone politiche per la competizione e da una buona regolamentazione. Una sorta di promemoria: siccome stiamo dentro al mercato, occorre avere sempre in mente che l’impatto sociale si realizza se i mercati funzionano bene. Usciamo dalla logica della battaglia metro a metro convincendo singoli attori a generare impatto sociale e guardiamo alle infrastrutture sistemiche dei grandi mercati che sono potenzialmente degli straordinari realizzatori di impatto sociale». Un esempio? «Se le giovani coppie non riescono ad accedere ai finanziamenti per la prima casa perché i tassi sono alti, abbiamo due strade. La battaglia metro a metro punta a convincere le banche a comportarsi in modo più intenzionale, addizionale e misurabile. Oppure si punta a una regolamentazione di sistema che aumenti la concorrenza tra le banche ai fini dell’impatto».
E poi c’è la politica. «L’impatto sociale o è politica o non è. Se non c’è una teoria della giustizia sociale non c’è impatto. È il momento di riscoprire la dimensione politica dell’impatto sociale».
Il professor Mario Calderini sarà tra gli ospiti che interverranno mercoledì 19 marzo, alle 18,30 da Toolbox a Torino (via Montefeltro 2), alla presentazione del nuovo numero di VITA Magazine “Provate a fare senza”.

La fotografia in apertura è di Timon Studler su Unsplash. Le immagini nel testo sono di Torino Social Impact
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