Miguel Benasayag

«Se la pandemia ci ha resi fragili, la relazione ci renderà forti»

di Marco Dotti

Bisogna agire nella complessità, stabilendo nuovi nessi e nuove forme di relazione e di resistenza al nostro tempo. Ne è convinto lo psicoanalista argentino che, in questa intervista, ci racconta come siamo davanti non solo a una «torsione biopolitica del potere», ma anche a una «forma inedita di psicopandemia»

Siamo soli. Insieme, ma soli. La pandemia ha accelerato una tendenza già in atto e c'è chi, oggi, parla non a caso di una psico-pandemia. Psicoanalista e filosofo argentino, Miguel Benasayag vive a Parigi da anni.

Vivevamo in un immaginario improntato a un'idea di individuo autonomo, autocentrato e di colpo… ci siamo trovati davanti la complessità

Miguel Benasayag

Benasayag è tra i fondatori del collettivo Malgré tout, e lavora da tempo sulla crisi della società della performace e sul rapporto tra identità e conflitto. Un rapporto che la pandemia ha in parte esacerbato, in parte occultato. Tra i suoi ultimi libri, Funzionare o esistere? e La tirannia dell'algoritmo editi da Vita e Pensiero nel 2019 e nel 2020, oltre alle Cinque lezioni di complessità, scritte con con Teodoro Cohen e recentemente apparse a cura della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano.

Funzionare o esistere?

«Liberi tutti!». Sembrava facile, ma oggi assistiamo a una situazione tutt'altro che facile. Gli effetti sociali del Covid-19 hanno reso ostili le relazioni, anestetizzato il conflitto e, dopo un momento di iniziale e acritica adesione al lavoro da remoto, mostrato come anche le prestazioni richieste siano sempre più elevate rispetto a standard fisici e psichici messi a dura prova dalla pandemia…
Torniamo alla dicotomia tra funzionare ed esistere. Vogliamo esistere o vogliamo, semplicemente, funzionare? Ovviamente queste due parole le usiamo per comprendere il bivio in cui ci siamo cacciati, ma nel concreto la vita non ci pone mai davanti a scelte semplici. Anche quella tra funzionare e esistere non lo è, proprio perché mentre "funzioniamo"… esistiamo. E viceversa. Nel comprendere la differenza tra funzionare e esistere si tratta, soprattutto, di cogliere una matrice della post-modernità. È la post-modernità, infatti, a distinguere il funzionare dall'esistere, al fine di valorizzare il mero funzionare.

Funzionare, lavorare, performare., valutare, giudicare e infine espellere i refrattari dal sistema…
L'esistere è troppo complesso per la post-modernità che si è troppo a lungo accontentata di logiche binarie. La post-modernità vuole solo bianco o nero, ha espulso da sé la negatività. L'esistere, legato ai corpi, è per questa post-modernità troppo opaco, troppo chiaroscurale, troppo liminale.

Poi, un anno fa, è arrivata questa pandemia…
La pandemia ha messo il mondo intero in un puro funzionare.

In che senso ci ha messi in un puro funzionare?
Perché la nostra risposta globale è stata: come continuare a fare, come non interropere X, Y o Z. In tre parole: come, nonostante il virus, potevamo continuare a funzionare indipendentemente da tutto. Indipendentemente dai corpi, dalle sofferenze, dai dolori, dalla malattia e da un sistema che, basta guardarci attorno, è sempre più onnipervarsivo ma anche sempre più fragile. C'è stata quasi un'euforia dopo i primi due mesi: riuscivamo a continuare e, nonostante tutto, ad andare avanti. Ma andare avanti in questo modo non basta e, forse, non serve nemmeno. Noi, ad esempio, stiamo parlando ora via skype: è importante, riusciamo a stabilire comunque una relazione, ma quando tutto è così, mediato e ipermediato, allora abbiamo un problema.

Corpi sottili e ipermediati

Abbiamo un problema perché il sistema funziona, riusciamo a parlare, a comunicare, a lavorare persino ma…
Ma il dialogo, nella maggior parte dei casi, non si attiva o, se si attiva, lascia fuori i legami più sottili e immateriali. Lo dirò con molta franchezza: stiamo abbandonando i corpi. I legami più sottili del nostro essere, infatti, dipendono dal corpo. Dipendono dall'angoscia della presenza del corpo, un'angoscia da cui illusoriamente ci vorremmo liberare.

Da un anno a questa parte, i legami sottili sono stati dispersi e dissipati. Per tale ragione penso che con questa pandemia ci limitiamo a funzionare, cercando aggiustamenti pratici e modi per proteggere la vita.

In termini generali questo ha segnato un passo in avanti enorme per il funzionamento algoritmico e disciplinare…
Il mero funzionare è sempre articolato nel controllo e nell'attacco alla possibilità di agire, che si declina principalmente nell'esistere.

L'impossibilità di agire sembra al tempo stesso una conseguenza e una causa di questa situazione di stato di eccezione permanente. Sulla pandemia si sta innestando una epidemia di secondo grado, una sorta di psicopandemia…
Il troppo funzionamento, schiacciando le dimensioni sottili dell'esistere, non è praticabile a lungo dall'umano. C'è un limite molto chiaro a questo, perché oltre una certa percentuale di repressione dell'esistere anche il funzionamento si autoblocca. Oggi sta accadendo esattamente questo: il funzionamento del sistema è autobloccato a livello mondiale. Tutto funziona, ma niente funziona. L'autofunzionamento ha dei limiti strutturali che dobbiamo riconoscere.

Mettiamo tra parentesi il rumore del mondo e il gioco delle opinioni e cerchiamo tutti di lavorare in un grande esperimento di co-pensiero. Studiare insieme, pensare assieme, agire insieme e tra il funzionare e l'esistere innestare il tertium: il resistere

Miguel Benasayag

Oltre l'autonomia, la relazione

Riconoscere questi limiti, però, sembra una condizione ostativa per il sistema stesso. Una contraddizione in termini…
Però la pandemia mette tutti noi, in quanto esseri umani, nella condizione di capire un dato fondamentale della nostra vita: non siamo esseri autonomi. Non siamo "individui", ma dei "con-dividui". Il problema si colloca nell'immaginario. Vivevamo in un immaginario improntato a un'idea di individuo autonomo, autocentrato e di colpo… ci siamo trovati davanti la complessità.

Possiamo guardare in faccia la complessità?
Questo no, perché la complessità non possiamo affrontarla dall'esterno. Siamo implicati nella complessità, siamo dentro il sistema. Ma proprio questo "stare dentro" la complessità per la maggior parte delle persone è un incubo. Lo è perché non sanno che cosa fare con la complessità.

Torniamo ancora una volta alla questione del funzionare o dell'esistere: si pensa alla complessità come qualcosa da usare, mentre forse va solo abitata…
Se l'orizzonte ideale è quello del potere, della forza, della prestazione e della competizione è inevitabile che, davanti alla complessità che si rivela, un simile orizzonte si fermi. C'è gente smarrita, disorientata, spaventata perché vorrebbe fare, ma non sa che cosa fare con la complessità e con i legami che la rappresentano. Ma il problema, come dicevamo, è mal posto.

Il potere impotente

È crollato l'immaginario ideologico della società della performance, ma al tempo stesso quell'immaginario ci lega ancora a sé?
Possiamo ripeterci all'infinito che la società è complessa, è autopoietica, si autoalimenta come un organismo, vive di e nelle reti. Ma questo per la gente non significa nulla. Non significa nulla perché le persone comuni partono da una constatazione elementare, su cui però tutto sta o tutto cade. Le persone comuni constatano l'impotenza, la propria impotenza e l'impotenza del potere, oltre che l'impotenza della scienza.

In questa crisi appare chiaro il volto del nostro tempo, ma appare non dentro un agire, bensì dentro un patire: è la tristezza nuova del mondo

Miguel Benasayag

È un'esperienza psichica durissima, perché in pochi sono capaci di affrontare questo orizzonte di un buio assoluto. Per questa ragione le teorie complottiste si stanno sviluppando e diffondendo con molta forza. Le teorie complottiste hanno una indubbia capacità di semplificare (banalizzandolo) il complesso. La logica complottista dice: «c'è un pilota nell'aereo, è un pilota cattivo ma c'è». Se c'è un pilota, bene o male le cose sono modificabili e gestibili. Noi, invece, sappiamo benissimo che non c'è alcun pilota. La pandemia ha mostrato che il re non è nudo, solo perché non c'è alcun re. Il suo trono è vuoto.

Una guerra senza guerra

Se non c'è una finalità che cosa ci resta da fare?
La complessità dell'ora presente impone una riconsiderazione generale in rapporto al nostro corpo, in rapporto all'ecosistema, in rapporto ai sistemi di controllo e comando. È come se la grande crisi della modernità e le grandi emergenze della post-modernità, che si sono susseguite per oltre un secolo improvvisamente trovassero il loro punto di rottura. Appare chiaro il volto del nostro tempo, ma appare non dentro un agire, bensì dentro un patire. È la tristezza nuova del mondo.

Questo patire non muove all'agire. Al di là di molta retorica della prima ora, a un anno di distanza nessuno vede più in questa crisi un destino comune…
C'è una perdita totale di speranza. Ma è qui che appare la sfida del momento. La sfida è presto detta: la maggior parte delle persone non è incapace di affrontare l'incertezza, la complessità, il rischio. Ma è sempre per questo che si sviluppa la violenza identitaria, xenofoba e persino quella famigliare. La violenza si sviluppa perché l'incertezza che viviamo non è legata solamente a un virus, ma è incertezza sulla nostra identità. Identità che, oggi, vengono messe radicalmente in questione e la forma più ovvia e più semplice per continuare a sentirci forti, arroccati in un fortino oramai decaduto, è quella di aggredire preventivamente qualcuno: il vicino, un famigliare, lo straniero, il povero, il diverso. La violenza è un modo patologico per reindividualizzarci.

Mi chiedo: quando il Presidente Macron parla di guerra contro il virus fa qualcosa di diverso che seguire una logica che sembra implicare una riduzione della complessità emergente?

Conflitto, communitas, "idee adeguate"

Recentemente, lo storico Aldo Schiavone ha ricordato che l'epidemia non nasce su un campo di battaglia, ma in uno di quei punti d'intersezione fra il naturale e il culturale umano, che sono tuttora nevralgici per la nostra civiltà, e che, se trascurati, possono mettere a rischio la nostra esistenza…
La retorica bellicista sul virus ha funzionato per qualche mese, ma poi è stato chiaro che a colpi di slogan militari non si andava da nessuna parte. Il virus non è un nemico contro cui possiamo lottare, ma se un presidente afferma «siamo in guerra» da un lato giustifica uno stato d'eccezione permanente, dall'altro cerca di disinnescare preventivamente ogni critica. Perché la critica viene letta, proprio in termini militari, come tradimento. Ma il dispositivo di guerra si è fermato perché non c'è un nemico. Se non c'è un nemico, la paura è ovunque, diventa angoscia. Da un punto di vista psicopatologico, nell'angoscia al contrario che nella paura non c'è un oggetto. Ma se non c'è un nemico, il rischio è che il nemico siano tutti e sia ovunque.

Non si tollerano i discorsi critici, ogni discorso pubblico viene assolutizzato. Si ha paura, ma si finisce per avere paura della paura. Questa angoscia, forse, è anche figlia della mancanza di conflitto, ossia di apertura al nuovo, oltre che dell'incapacità di comprendere la complessità. Come possiamo tornare a un conflitto generativo di legame e di posizione critica?
La sfida è proprio questa: riconflittualizzare la nostra situazione. Viviamo una situazione in cui c'è angoscia per una minaccia diffusa e permanente e l'unica risposta che stiamo attivando è essere disciplinati e obbedire o – ma è la stessa cosa – essere "ribellI" complottisti. Dobbiamo tentare, a piccoli passi, di ricucire il nostro legame attraverso i corpi. Nel pratico, dobbiamo avere il massimo dei contatti possibili, ma non per parlare a vuoto, bensì per riflettere.

In questo senso, il sociologo Aldo Bonomi ha parlato più volte della necessità di una communitas di riflessione e pensiero nel segno di una comunità a venire…
Condivido quello che dice Bonomi ed è ciò che Spinoza chiamava «idee adeguate». Dobbiamo cercare di capire veramente cosa sta accadendo, mettendo un limite alla paura. Dobbiamo capire non solo che cosa sta accadendo, ma cosa si svilupperà nel medio periodo. Servono pratiche di riflessione profonda.

Una facile obiezione: possiamo pensare senza agire?
In questa situazione il pensare è un atto. Il pensare è un atto perché l'angoscia, la disciplina, la paura e la minaccia sono rotture di legami materiali, ma anche di pensiero. Se riattiviamo pratiche di pensiero comune, possiamo sperare di riattivare legami comuni. Dobbiamo cercare di produrre queste «idee adeguate».

Viviamo un tempo straordinario e fragile. Un tempo che ci permette di pensare a come trasgredire una disciplina, tecnologica e sociale, oramai insopportabile. Dobbiamo cercare il possibile, anche dentro la tecnologia, ma capendo che i corpi non sono rimpiazzabili.

Come ha detto prima, stiamo parlando a distanza, con una piattaforma che non è fuori dal sistema disciplinare…
Dobbiamo da un lato studiare queste forme – che sono forme "formattanti" la psiche – e, dall'altro, capire come usarle in maniera sovversiva rispetto al metodo corrente di comunicazione interpersonale. Il brusio di fondo della comunicazione occupa il presente e ottunte il futuro. Dobbiamo chiudere la porta a questo brusio, che è parte del dispositivo di potere panottico (uno controlla tanti) e ci fa costantemente uscire da noi sottraendo tempo al tempo. Dobbiamo riprenderci il tempo, creando altri spazi e un nuovo senso del luogo.

Dobbiamo infine capire che cosa c'è di inedito in ciò che sta accadendo, mettendo tra parentesi le idee di "new normal" che hanno sedotto i media e i loro ciceroni. Mettiamo tra parentesi il rumore del mondo e il gioco delle opinioni e cerchiamo tutti di lavorare in un grande esperimento di co-pensiero. Studiare insieme, pensare assieme, agire insieme e tra il funzionare e l'esistere innestare il tertium: il resistere.

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