Nel 2018 in Italia, i Neet nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 29 anni sono pari a 2.116.000 e rappresentano il 23,4% del totale dei giovani della stessa età presenti sul territorio. Nel 47% dei casi i ragazzi hanno tra i 25 e i 29 anni, nel38% i ragazzi hanno tra i 20 e i 24anni e il restante 15% è nella forchetta 15-19 anni. L’Italia è la prima tra i Paesi europei per presenza di Neet, dove la media attuale è del 12,9% (sul numero di Vita magazine di distrubuzione l'inchiesta). Alessandro Rosina, professore ordinario di Demografia e Statistica sociale, all’Università Cattolica di Milano, coordinatore del “Rapporto giovani”, Istituto Toniolo e autore del libro Neet Giovani che non studiano e non lavorano (Vita e Pensiero, 2015), prova ad inquadrare il problema.
Dagli ultimi dati ISTAT, nel 2018 in Italia, i NEET nella fascia d’età 15-29 anni sono pari a 2.116.000, rappresentando il 23,4% del totale dei giovani. Come si è arrivati a questa situazione?
L’Italia ha il triste record di Neet in Europa, ovvero di giovani usciti dal percorso scolastico ma non entrati a far parte del mondo del lavoro. I motivi sono vari. Il primo riguarda il fatto che nel nostro paese abbiamo più giovani con formazione debole, quindi meno attrezzati con competenze utili per la vita e il mondo del lavoro nel XXI secolo. Presentiamo infatti un tasso di dispersione scolastica tra i più elevati in Europa e una percentuale di giovani che arrivano a laurearsi tra le più basse. A questo si aggiunge poi la carenza delle politiche attive. E’ persistente basso nel nostro paese l’investimento in strumenti efficaci – all’altezza delle economie più avanzate di questo secolo e delle sfide che pone questo secolo – in grado di orientare e supportare le nuove generazioni nella ricerca di lavoro. In un mondo sempre più complesso e in rapido mutamento, con un mercato sempre più dinamico, i giovani rischiano di trovarsi abbandonati a sé stessi e all’aiuto delle famiglie, con alto rischio di disorientamento e di perdersi nel percorso di transizione scuola-lavoro. La conseguenza è un grande spreco di potenzialità, una dissipazione del capitale umano, un’allocazione non ottimale delle risorse nel mercato del lavoro.
I dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo rivelano come gli under 35 siano consapevoli del basso livello di orientamento avuto nel percorso scolastico, della poca esperienza pratica, della carenza di competenze sia specifiche che trasversali, oltre che di scarsa preparazione su come funziona il mercato del lavoro. Solo un intervistato su tre pensa che la scuola sia utile a capire com’è e come evolve il mondo del lavoro.Secondo la stessa ricerca, gli under 35 italiani esprimono un giudizio generale favorevole sulla scuola, ma, nel confronto con i coetanei europei, la vedono meno utile per affrontare il mondo del lavoro. Alla domanda sulla sua utilità nell’aumentare conoscenze generali, nell’imparare a ragionare, nel formare cittadini consapevoli, le risposte dei giovani del nostro paese non si differenziano molto dai coetanei tedeschi, inglesi, francesi e spagnoli. Sul riconoscimento del beneficio, invece, rispetto a trovare impiego di qualità e a capire come funziona il mercato del lavoro, le percentuali risultano sensibilmente inferiori. Un terzo motivo, infine, è un sistema produttivo che offre basse opportunità e valorizza poco il capitale umano dei giovani. Questo allunga i tempi di ricerca di lavoro dei giovani più qualificati, timorosi di dover rivedere al ribasso le proprie aspettative, con esito spesso di decidere di andare all’estero.
Quando e perché il sistema si è “inceppato”. Dove dobbiamo ricercare le cause di questo dato tragico e così alto anche rispetto alla media europea che si attesta attorno al 12,9%.
Le generazioni che si sono affacciate all’età adulta nel nuovo millennio nel nostro Paese si sono trovate – di fronte alla crescente domanda di strumenti per affrontare le nuove incertezze del mondo del lavoro – a dover sempre più contare sul tradizionale aiuto privato dei genitori, ma con inadeguato investimento pubblico rispetto ai coetanei delle altre economie avanzate. La causa vera è quindi la questione non risolta non tanto del rapporto tra giovani e lavoro, ma ancora prima di quale ruolo assegnare alle nuove generazioni nei processi di sviluppo competitivo del paese. Spostare le nuove generazioni dalla difesa all’attacco, ovvero dalla condizione di soggetti da proteggere a quella di cittadini attivi nel conquistare un futuro di miglior benessere, significa imboccare un sentiero virtuoso di crescita che produce ricadute positive per tutti. Ne derivano infatti minori costi pubblici, minori diseguaglianze sociali, ma anche una demografia più solida, un sistema paese più innovativo e competitivo, un welfare più sostenibile.
Troppo spesso consideriamo i neet solo come dei numeri. In realtà sono giovani appunto. Come vive un giovane senza prospettive?
Più si rimane nella condizione di Neet e più si sprofonda, come molti studi confermano, in una spirale di deterioramento di competenze e demotivazione particolarmente corrosivo. I dati dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, evidenziano inoltre come le difficoltà incontrate nella fase di passaggio dalla scuola al lavoro abbiano ricadute rilevanti sul complesso della transizione allo stato adulto, rendendo persistentemente più deboli non solo i percorsi professionali delle nuove generazioni ma più in generale i progetti di autonomia e la realizzazione di pieni e soddisfacenti obiettivi di vita. Non a caso i Neet sono anche quelli che si trovano maggiormente con percorso bloccato nelle scelte di transizione alla vita adulta, rischiando di invecchiare senza fare passi rilevanti nella realizzazione dei propri progetti, non solo occupazionali ma anche di vita. Al “non” studio e lavoro tendono quindi ad associarsi anche altri “no” sul versante delle scelte di autonomia, di formazione di una famiglia, di partecipazione civica, di piena cittadinanza. Una conferma di come questa condizione sia connessa, in modo interdipendente, ad un processo di deterioramento non solo della condizione economica ma anche di quella sociale, i dati che indicano come, più frequentemente rispetto agli altri coetanei, i Neet considerino la maggioranza delle persone non degne di fiducia e vedano il proprio futuro pieno di incognite. Bassa è inoltre la credibilità assegnata alle istituzioni. Questo vale in particolare per chi proviene da classi sociali basse e non è in grado di compensare con il welfare familiare le carenze delle politiche attive del mercato del lavoro. Questi ultimi sono un gruppo a rischio di esclusione sociale, in quanto oltre ad essere esclusi dal mercato del lavoro e da quello scolastico, sono anche maggiormente fuori da altre esperienze di partecipazione. Le conseguenze possibili sono non solo quindi scadimento delle competenze tecniche e demotivazione, ma anche frustrazione e risentimento sociale, che possono portare da un lato a chiusura e depressione, dall’altro a stili di vita a rischio e pratiche antisociali. Il fatto che la quota di Neet si sia potuta accrescere in modo così abnorme è legato anche a due specificità italiane, senza le quali non si spiegherebbe come tale condizione non sia esplosa come dramma sociale, la prima è un modello culturale che rende accettabile una lunga dipendenza dei figli adulti dai genitori, la seconda è l’ampia quota di economia sommersa all’interno della quale prolifera il lavoro in nero. Tra chi dice di non essere interessato ad un posto di lavoro, se c’è chi sta aspettando di aprire una attività o sta valutando possibili opzioni o svolge attività di aiuto in famiglia, ma c’è anche chi svolge un lavoro irregolare continuativo (soprattutto nelle regioni del Sud). Inoltre, anche nel gruppo di chi dice di non cercare lavoro perché scoraggiato, pur essendo disposto ad accettarne uno se gli venisse offerto, è presente una parte di giovani che si arrangia facendo saltuariamente lavoro in nero o scivolando nella sfera della microcriminalità. Molti alternano la condizione di Neet con lavoretti saltuari: sono coloro che annaspano nell’area grigia tra lavoro precario e non lavoro.
Come usciamo da questa fase? Quali forze bisogna mettere in campo? Quali sono gli strumenti concreti da utilizzare.
Le politiche di maggior successo nei confronti dell’attivazione dei giovani – anche quelli più disorientati e con competenze carenti – non solo quelle che li identificano come categoria svantaggiata o emergenza sociale. Sono invece quelle in grado di far leva su loro interessi, sensibilità e desideri. Anche per questo vanno evitate etichette. Lo stesso “termine” NEET va usato per identificare una condizione oggettiva, non deve diventare un giudizio soggettivo incollato al giovane che li rinchiude nello spazio della difesa e della diffidenza. Oltre al riaccendere la spinta interna, cruciale è anche non farli sentire come destinatari di aiuto ma come soggetti attivi in grado di dar valore riconosciuto verso l’esterno. Ovvero incoraggiare, soprattutto i più vulnerabili e scoraggiati, a considerarsi come persone con potenziale e talenti, da far emergere superando limiti e fragilità. Hanno insomma gran bisogno di esperienze positive che rafforzino l’idea di essere soggetti attivi nella costruzione del proprio futuro in un contesto sociale che essi stessi contribuiscono a migliorare (con le proprie idee, la propria creatività, il proprio impegno). Per riuscirci serve un patto tra essi e le istituzioni locali, con queste ultime che offrono occasioni e strumenti e con i primi che mettono il loro impegno ad utilizzare al meglio l’opportunità offerta per rafforzarsi come cittadini responsabili e attivi nella comunità in cui vivono.
Quale deve essere il ruolo delle istituzioni, della scuola e della famiglia?
Per ridurre il rischio di scivolare nella condizione di NEET è importante (…)
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