Mascherine che fanno leggere il labiale, ma anche vedere un bel sorriso! In questi mesi di emergenza sanitaria per il Covid-19, l'impegno di Sara è stato quello di diffondere l'uso delle mascherine trasparenti per permettere alle persone sorde, come lei, di comprendere meglio il proprio interlocutore, sensibilizzando tutti ad utilizzarle e cercando aziende in tutta Italia che fossero disposte a produrle. Un gesto solidale, di nessun fastidio e utile a tutti.
«Ho dato voce alla mia battaglia in ogni modo possibile. Questa è una fase molto delicata, non solo per me che sono sorda, ma per tutti, e se ti parlano con una mascherina davanti alla bocca il rischio è, per ognuno di noi, quello di capire poco o niente. Le scene sono le solite e tanto frequenti: mi sento come fossi una semplice spettatrice di una scena da film muto, con un capannello di curiosi attorno, in un mix di pietismo e menefreghismo, che non capiscono come basti poco per cambiare atteggiamento. Ho incontrato chi ha continuato indisponente a far finta che fosse solo un mio problema e chi invece finalmente si è abbassato un poco la mascherina, tenendo le distanze ma ripetendo così ciò che non potevo comprendere prima. Basterebbe semplicemente una mascherina con una finestrella trasparente davanti alla bocca per risolvere tutto senza disagi a nessuno. Così le ho portate a tutti durante il lockdown, dalle cassiere al supermercato alle farmacie, dall'edicola al tabaccaio, e ho collaborato con l'Università di Palermo e il medico otorino Aldo Messina al progetto “Regalami un sorriso” affinché fossero sempre più diffuse. Ora le mascherine trasparenti sono state pian piano conosciute e sono molto richieste anche per i bambini. Mi stanno arrivando moltissime richieste per le mascherine trasparenti, le vogliono tutte le scuole, bellissimo! Le chiamano appunto “le mascherine del sorriso”: mostrano meglio le espressioni del volto, non solo il movimento labiale».
Sara non sente dalla nascita, ma – grazie ad apparecchi acustici e logopedia, e soprattutto al tanto impegno – non è affatto muta. È sorda, ma parla. Tanto e bene. E, giustamente, ci tiene a sottolineare come uno degli stereotipi più resistenti a infastidirla, sia proprio quello che lega l'handicap auditivo all'impossibilità di parlare. Nient'affatto. E non a caso le sue campagne di sensibilizzazione rispondono all'hashtag di #FacciamociSentire.
«Alcuni riescono a chiamarmi sordomuta, anche dopo mezz'ora che discutiamo! – commenta con disappunto – Ma sordità e mutismo sono due cose slegate. Ovvio che se mi parli alle spalle per me è un rebus in cui devo ricollegare la metà di ciò che ascolto, e indosso un apparecchio acustico per sentire, ma per il resto la mia vita è normale. Ho compreso una cosa fondamentale: se vuoi, puoi! Se pensiamo la sordità come un limite, quel limite ce lo creiamo. Siamo noi il nostro limite! Mentre da sempre il mio motto è: la sordità è parte di te, attrezzati e convivi con lei. Per questo dico: giocate, rischiate, sbagliate, imparate dai vostri errori. Trovate soluzioni per voi stessi e per gli altri.»
Sara Giada Gerini ha poco più di 40 anni ed è una giovane donna molto determinata e autoironica: «Da piccola non mi piaceva ascoltare, così la provvidenza ha pensato bene di tapparmi le orecchie. Cresciuta, ho capito che sentire era necessario per vivere.» È nata in Sardegna nel 1979 nel Sulcis Iglesiente, a Carbonia. Una famiglia numerosa, tre fratelli e una sorella, e racconta che è grazie a loro se ha potuto scordare la sua sordità, stando sempre alla pari con gli altri. I suoi genitori si sono accorti che non poteva sentire più o meno quando aveva 3 anni, perché non riusciva ad esprimersi, e a 5 anni Sara ha messo il suo primo apparecchio acustico. «Ai tempi – ricorda – erano due mattoni enormi e pesanti che mi facevano le orecchie a sventola e mi spaventavo tanto di quei suoni così forti. Oggi, con il progresso tecnologico, è tutto diverso e la prima volta che ho sentito il suono ovattato dei miei passi nella neve, solo pochi anni fa, mi ha lasciato un segno nel cuore. Ero a meno 17 gradi, ospite di amici in America. Avevo visto un cervo dalla finestra ed ero scesa in cortile per seguirlo. Ad ogni mio passo, mi giravo per capire da dove potesse provenire quel fruscio leggero. Quando l'ho compreso, è stata gioia pura! I suoni della vita mi piacciono, mi sono necessari come respirare. Scoperte come queste mi riempiono di gioia, come le piccole conquiste inaspettate dei bambini. Così quando vivo dei momenti di frustrazione (perché è uno stress ripetere mille volte “Non ho capito, non sento bene”!) mi calma ripensare a momenti come questo.»
Sara è venuta al mondo sorda, per via di una rosolia materna. Ma questo per lei è un handicap superAbile e da tempo si impegna affinché sia così per tutti. Sulla sua vita, ha scritto un libro #FacciamociSentire (Ocho Tocho, 2018), che è anche il nome dell'associazione che ha fondato all'incirca tre anni fa, per richiedere l'utilizzo di sottotitoli in tutti i contesti sociali: dalla televisione pubblica alle sale cinematografiche, passando per le lezioni universitarie. Sul tema, ha portato la sua testimonianza, dai convegni alle scuole, ed è persino stata sentita in audizione al Parlamento, dove ha domandato sportelli ospedalieri di supporto ai genitori di figli sordi. «Ma giusto per parlare!» riassume ironica, in merito agli esiti delle richieste, cadute nel vuoto
Quanto alla lingua dei segni, Sara l'ha imparata solamente a vent'anni, per comunicare con i nuovi amici della pallavolo e partecipare ai campionati della comunità sorda, dall'argento agli europei in Turchia ai mondiali, lei che è una vera amante di tutti gli sport e soprattutto di quelli di gruppo. «Non sono contraria alla LIS – chiarisce – ma sono contenta che i miei genitori mi abbiano insegnato a parlare, come tutti. La lingua dei segni la conoscono in pochi e ogni nazione ha la sua. Per questo, la ritengo escludente.»
Sara è sarda, come la sua frizzante ostinazione. Ma da un paio di anni vive a Palermo con il suo fidanzato Francesco, un architetto cinquantenne, con cui condivide il giusto modo di affrontare la vita e le avversità di cui a volte ci presenta il conto. Anche qui, la ricetta? Tenacia ed ironia. «Mi si è avvicinato durante un buffet, scherzando sul mio appetito: “C'è anche il mio piatto, se hai fame. Tu sì che sei una buona forchetta!”. E inizialmente non s'era nemmeno accorto che fossi sorda: aveva percepito solo una pronuncia diversa e gli sembravo straniera. Ora siamo una famiglia. Ci saremmo dovuti sposare in autunno, ma sarà per l'anno prossimo. Lui capisce subito se sono felice o arrabbiata e sa farmi ridere. In una vignetta ha disegnato noi due: “Lo senti il mio amore?” “No, sono sorda”. Mi prende in giro perché sono piuttosto autonoma (a parer suo, menefreghista). È vero, a volte, faccio la finta sorda: sembra che ascolto, ma vivo nel mio mondo. Anche perché le frustrazioni quotidiane sono tante e non c'è una ricetta, ma io mi sento come tutti: né un fenomeno, né una sfigata. La perfezione non esiste, in nessuno, e poi è statica; mentre l’imperfezione ti costringe a cercare la tua unica perfezione.»
La sua, Sara l'ha trovata (anche) nel suo spirito di caparbia autonomia. Vivendo sola per una decina d'anni, ad esempio. Oppure lavorando in un negozio di telefonia («Un paradosso, come un cieco in un negozio di occhiali!» ironizza). Senza nascondere le continue difficoltà nel trovare un impiego, una volta che si presenta ai colloqui come non udente («Si fa un gran parlare di categorie protette, ma spesso è solo di facciata.» critica). E, ogni giorno, ribadendo di non aver bisogno di un interprete, quando gli altri sembrano ignorarla e si rivolgono ai suoi accompagnatori, triangolando puntualmente il rapporto con lei. Perché Sara vive la sordità nel suo mondo, ma il mondo di Sara è capace di ascoltare anche più in là.
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