Quando, quattro anni fa, Paolo Pigni varcò per la prima volta la soglia del suo nuovo ufficio da direttore generale della Fondazione Sacra Famiglia, a Cesano Boscone, lui era già lì ad aspettarlo. Piccolo, magrolino, un po’ storto, grandi occhiali da vista un po’ sul naso e un po’ sui pochi capelli bianchi, si era limitato a fissarlo, ma senza alcun timore reverenziale. Era lì, perfettamente a suo agio, seduto al tavolo delle riunioni.
Paolo Pigni, direttore generale della Fondazione Sacra Famiglia
Non avrebbe dovuto esserci, ragionò Pigni tra sé: cosa ci faceva un disabile settantenne nella stanza dei bottoni di un istituto con oltre un secolo di storia, 2000 dipendenti, 1000 volontari e 500 ricoverati? Eppure Giorgio – avrebbe scoperto di lì a poco che quello era il suo nome – non aveva nessuna intenzione di andare via. «Ciao», lo salutò l’anziano intruso con una voce un po’ chioccia e la pronuncia difficoltosa, «cosa facciamo?». Inutile alzare gli occhi verso la segretaria, accorsa precipitosamente sulla soglia: da uno sguardo rassegnato verso il soffitto il nuovo direttore capì che Giorgio faceva parte del pacchetto. «Credo di essere l’unico dirigente al mondo che lavora con un Giorgio in ufficio qualche ora al giorno», sorride oggi Pigni, che piano piano, dopo una attenta fase di audit da parte del suo compagno di stanza, è stato promosso al rango di papà. «Sì, lui è mio figlio, nonché marito della mia segretaria», racconta serissimo. «Si è fatto adottare da me e questa è la mia nuova normalità. Parliamo molto, anche se con lui è meglio non discutere di politica o di calcio, altrimenti si arrabbia; a volte lo faccio uscire se devo rimanere solo, poi rientra. Disegna, fa qualche commissione, ma soprattutto mi aiuta in qualcosa di fondamentale: rimanere ancorato alla concretezza di questo posto, che è fatto di tante persone come lui».
Giorgio mi aiuta in qualcosa di fondamentale: rimanere ancorato alla concretezza di questo posto, che è fatto di tante persone come lui
La Fondazione Sacra Famiglia è infatti la casa, da 120 anni (celebrati quest’anno con diversi eventi, soprattutto in questo mese di giugno), di centinaia e centinaia di “fragili”: disabili, anziani, malati psichici, persone con problemi di comportamento. Un tempo, anche di bambini abbandonati dalla famiglia perché diversi, o solo di troppo. Un percorso lungo decenni in cui è cambiato tutto, dal mondo fuori all’universo dentro, e nel corso del quale anche questa realtà ha saputo evolversi, cambiando spesso pelle ma non mission. «Dopo i primi decenni di attività caritativa pura, animata dai grandi sacerdoti fondatori Pogliani e Moneta, dagli anni Sessanta il nuovo presidente don Piero Rampi, che eredita una cittadella in cui vivono oltre 3000 persone, capisce che il mondo sta cambiando e pone per primo il tema della scientificità e della riabilitazione come approccio primario», racconta Pigni.
Il famoso decreto che ha chiuso gli enti inutili nel 1977 ci ha risparmiato, riconoscendo il nostro lavoro
Le porte si aprono allora a medici, specialisti e professionisti di vari settori che iniziano a pensare a possibili terapie di recupero degli ospiti e a immaginare una sanità nuova, su misura di disabile; apre la casa di cura e più avanti, all’esplodere dell’onda libertaria che demolisce le istituzioni e ribalta la psichiatria, riesce comunque a resistere dimostrando di non essere un carrozzone d’altri tempi: «Il famoso decreto che ha chiuso gli enti inutili nel 1977 ci ha risparmiato, riconoscendo il nostro lavoro», continua il direttore generale, «ma anche chi allora guidava la baracca ha saputo fare autocritica: non si sono arroccati in difesa, anzi hanno cominciato a chiedersi cosa potevano fare per chi stava dentro e aveva le potenzialità per tornare fuori». È l’epoca in cui si aprono servizi lavorativi esterni e si inaugura il reparto “dimittendi”: un’intera ala dell’edificio in cui si trasferiscono tutti coloro che, sostenuti e accompagnati, intraprendono gradualmente la via di casa.
Si arriva così al 1997, quando Sacra Famiglia sceglie di trasformarsi in Fondazione onlus (non Ipab né Azienda di servizi alla persona di tipo sanitario) sganciandosi totalmente dal sistema pubblico: una strada senza rete che prosegue da vent’anni e si incardina nel sistema sociosanitario regionale fatto di tante sigle (Rsa, Rsd, Ccd, Cdi) e altrettante sfide: «Scatolette», le definisce Pigni con una punta di fastidio, «contenitori rigidi in cui spostare le persone a seconda dell’evolvere delle loro problematiche. Secondo noi, un modello da superare». Oggi, secondo il direttore della Fondazione, funziona così: a ogni un problema specifico corrisponde una soluzione predeterminata. Sei anziano? Il tuo posto è in una Residenza sanitaria residenziale; sei disabile, vai in un Centro diurno. «Un problema, una soluzione. Il mondo è statico: se tu cambi, devi adattarti. Invece dovrebbe succedere il contrario».
Sacra Famiglia oggi è un laboratorio di innovazione in cui leggere i nuovi bisogni e ragionare insieme alle nuove soluzioni con in testa una parola chiave: flessibilità
Perché sotto gli occhi degli operatori della Sacra Famiglia passa ogni giorno una realtà molto più fluida: disabili che diventano vecchi, mentre un tempo non arrivavano a cinquant’anni; genitori di disabili che li accudiscono fino a ottanta o novant’anni, quando a loro volta hanno bisogno di essere assistiti; intere famiglie che avrebbero bisogno di essere prese in carico nel loro insieme, invece di essere sezionate e inviate ad altrettanti sportelli. «Sacra Famiglia oggi è un laboratorio di innovazione in cui leggere i nuovi bisogni e ragionare insieme alle nuove soluzioni», continua Paolo Pigni. «Con in testa una parola chiave: flessibilità». Una strada su cui la Fondazione tenta già di muoversi: il metodo è creare delle équipe cui affidare la presa in carico di situazioni complesse, valorizzandone le potenzialità, parlando con la famiglia e con la rete informale di amici e sostegno, in una logica di “filiera” e programmazione che prevenga le emergenze e rilanci ogni possibile spiraglio di autonomia. «Qualcuno mi dirà che scopriamo l’acqua calda, ma c’è tanta ideologia in giro e i cambiamenti non sono sempre facili».
Prendiamo per esempio l’autismo, la nuova frontiera sulla quale famiglie, medici, psicologi, insegnanti e servizi sociali sono messi alla prova. «Esistono leggi nazionali recenti e importanti, stiamo aspettando una bella legge regionale; nel frattempo però la stragrande maggioranza dei soggetti con autismo, soprattutto adulti e gravi, sta a casa: fino a 18 anni c’è la diagnosi, la riabilitazione, la logopedia. Poi, buona fortuna». È urgente inventarsi altro, come ha fatto la Sacra Famiglia con il recente servizio Counseling per l’autismo: partito da pochi mesi, ha attirato in un colpo oltre 150 persone solo a Milano. «Costruiamo per ciascuno un percorso su misura, per recuperare le abilità e poi estenderle ai normali contesti di vita. Niente di eccezionale, in fondo, però bisogna farlo. E non solo: che ne sarà di questi 150 tra dieci anni? Qualcuno ci ha pensato?». Non è solo un problema di risorse, sostiene Pigni. Ma di mentalità da cambiare, di porte da aprire. Perché per esempio – si chiede ancora – una persona con problemi di comportamento non può stare in una Residenza Sanitaria per Disabili alcune ore al giorno, insieme agli ospiti che vivono lì? O quali soluzioni si prevedono per gli anziani con demenza, che magari con l’Alzheimer dovranno convivere per vent’anni?
Sfide complesse, problemi aperti. Ma quando ci si concentra più sulle soluzioni che sulle difficoltà, le vie d’uscita di trovano. È il caso del reparto San Riccardo Pampuri di Cesano Boscone, una casetta a due piani circondata dal verde, in cui vivono una sessantina di malati psichiatrici gravi, quelli che la medicina poco democratica di un tempo avrebbe definito «agitati». Elena Andenna, la responsabile, ha il sorriso stampato in faccia quando racconta di un passato che non può più tornare, fatto di tentativi di contenzione alternati a medicine che piallavano la mente. «La nostra sfida metodologica è stata diversa», racconta. «All’inizio poteva sembrare una follia nella follia, ma noi l’abbiamo presa come una missione speciale: fare in modo che i pazienti non spaccassero più il reparto, la cui manutenzione ci costava 70mila euro l’anno, senza ricorrere ai farmaci brasa-cervello». E se convincere a parole e per piacere gli «agitati» a non prendere a pugni le porte e a non svellere gli interruttori era oggettivamente complicato, alla Sacra Famiglia hanno deciso di agire su un altro fronte: rendendo porte e interruttori (e altri arredi) “invisibili”. Perché quello che non vedi non puoi romperlo. «Abbiamo messo attorno a un tavolo architetti e operatori con un compito ben preciso: azzerare l’attrattiva di tutto ciò che è facile prendere in mano e distruggere». Via dunque i colori accesi, le maniglie, gli spigoli e gli angoli; le linee si sono fatte morbide, luci e armadi integrati nei muri; spariti i comodini, le sedie e i tavoli sono diventati di plastica leggerissima. A rimanere al suo posto in corridoio, per motivi di sicurezza, è rimasto solo l’estintore, oggetto un tempo potenzialmente letale che oggi però viene ignorato: «I pazienti si sono calmati», continua la dottoressa Andenna, «il tasso di aggressività è quasi a zero. È bastato poco, in fondo, sia a livello economico che progettuale. E poi le spese sono state abbondantemente ripagate dal risparmio sui costi di manutenzione». «È vero, è bastato poco, ma abbiamo dovuto farlo», chiosa ancora Pigni. «Uscendo dai percorsi consueti, dalla logica del “si è sempre fatto così”. Qui in Sacra Famiglia vogliamo continuare a ribellarci a questo schema: in 120 anni siamo cambiati così tante volte, che farlo ogni giorno non ci spaventa». Inutile dire che in cantiere ci sono tanti progetti, da un housing sociale interno (appartamenti ricavati da un edificio oggi dismesso che ospiteranno famiglie fragili del territorio) al nuovo contratto per i dipendenti, che sono tanti e hanno bisogno di costante motivazione per poter andare avanti.
La stessa motivazione che riporta il direttore al suo ufficio, dove Giorgio lo sta aspettando per dirgli che ha fame: «Ciao papà, vado a mangiare», gli comunica risoluto. «Vai, vai, buon appetito», gli risponde il padre, che per le strane leggi di questo posto unico è un bel po’ più giovane di lui. «Cosa vuole, mi sono affezionato. Quando non sta bene mi preoccupo, e se sono via telefono per informarmi su come sta… però quando mi chiamano direttore, correggo: macché direttore, io sono il papà. Allora, come sta Giorgio?».
Sacra Famiglia, dove si reinventa la carità
Testi a cura di Gabriella Meroni
Immagini a cura di Stefano Pedrelli
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