Non ha avuto la minima esitazione. Se mi vuoi fotografare dobbiamo farlo qui, dove c’è la pietra dedicata al pacifista Alexander Langer, al Giardino dei giusti, a Villa Pamphilj a Roma, dove VITA l’ha incontrata. Sguardo fiero, dritto sull’orizzonte, Yolande Mukagasana il premio che porta il nome del pacifista lo ha vinto nel 1998, con un libro: La morte non mi ha voluta. Nata nel 1954 in Ruanda, sopravvissuta al genocidio dei Tutsi del 1994, Yolande durante i terribili “cento giorni” (più di 800mila morti) ha perso il marito e i tre figli adolescenti (15, 14 e 13 anni) ed è riuscita a salvarsi anche attraverso l’aiuto di una donna Hutu, Jacqueline Mukansonera.
Sono passati trent’anni e non dovrei neanche essere qui a testimoniare come sopravvissuta. Hanno ucciso tutta la mia famiglia, compresi i miei fratelli. Sono rimasta sola e senza nessuno. Ero traumatizzata e non avevo più forze. Oggi mi sono resa conto che i figli e i ragazzi di tutto il mondo sono i miei figli
Yolande Mukagasana – scrittrice e sopravvissuta al genocidio del 1994 contro i tutsi
Per i giovani
Dopo il 1994 si è trasferita in Belgio, poi è tornata a casa. Scrittrice e attivista, non perde occasione per testimoniare, raccontare, esortare, ricordare, anche chiedere conto senza paura a chi di quei giorni tragici ha la responsabilità morale. Ha deciso di non dimenticare e di caricarsi sulle spalle il peso di essere una testimone. Sono trascorsi trent’anni dall’estate del 1994.
Fra dolore («c’erano bambini che nascondevano altri bambini, mentre i loro genitori compivano atti atroci») e speranza («sono tornata anche per proteggere i giovani»), trent’anni dopo, cosa ne è di quei fatti, che Paese è diventato il Ruanda, che ruolo ha nello scenario regionale? Al potere c’è Paul Kagame, 66 anni che ha già vinto tre tornate di elezioni presidenziali con oltre il 95% dei voti. Il 15 luglio si vota, di nuovo.
Yolande, che paese oggi è il Ruanda?
È un paese in ricostruzione. Trent’anni fa non esisteva. Anche io non esistevo. il fatto che il Ruanda sia un paese e io sia ancora là, lo considero un miracolo. Si vive come negli altri paesi e lo si fa in sicurezza. Il Ruanda è cambiato in modo positivo. Rispetto al genocidio ha cercato di ricostruire quanto accaduto, con una giustizia moderna.
Ma la giustizia da sola non basta per giudicare un genocidio.
Certo che no. C’erano tantissimi colpevoli.
Era necessario che parlassero i testimoni.
Sì, ce ne sono tanti. In particolare poi il Ruanda in questi anni ha dato ampio spazio ai giusti del paese.
Che ricorda di quei giorni?
La sola resistenza che ci fu al massacro fu quella delle vittime. Chi non si piegava e non voleva uccidere pagava lui stesso con la vita. Un massacro così ben architettato che le vittime si sono quasi abbandonate alla morte. Ad accettarla.
Che ne pensa di Paul Kagame, presidente della Repubblica del Ruanda dal 2000?
È un uomo che riflette molto. È molto amato, contrariamente a quello che si dice di lui. La riconciliazione e il perdono, ha detto, è una medicina amara da mandare giù, ma necessaria.
Parliamo di ombre che riguardano i diritti civili, di attacchi all’opposizione, ai media indipendenti e ai gruppi per la difesa dei diritti umani.
Di che diritti umani parliamo? Quando avevo 5 anni ero in pericolo perché tutsi. Oggi ho 70 anni, siamo stati abbandonati dal mondo intero. Dopo il genocidio hanno perfino cercato di dividere il paese in due: tutsiland e hutiland. Ma noi siamo la stessa famiglia.
Come vede il futuro del Ruanda?
Prima di tutto sono felice che il genocidio sia stato riconosciuto e che si stiano preparando le nuove generazioni perché non ce ne sia un altro. Ho molta fiducia, anche se intorno al Ruanda c’è molto odio.
Lei ha grande fiducia nelle nuove generazioni.
Sono tornata anche per questo. Voglio che i giovani crescano con un’educazione alla buona cittadinanza e alla responsabilità e non in una situazione in cui persistano violenza e odio.
Ci sono le condizioni per un futuro di serenità?
Pensi che le commemorazioni per i trent’anni del genocidio sono tutte organizzate dai giovani. Certo, è un lungo cammino, che richiede pazienza e visione. Nelle carte d’identità del Ruanda c’erano le etnie, ora non ci sono più. Dobbiamo riappropriarci della nostra identità ruandese, che la colonizzazione aveva soffocato.
Dopo il massacro ha vissuto in Belgio, poi è tornata in Ruanda.
Non ho mai abbandonato il mio paese. Solo che ad un certo punto ho deciso di tornare definitivamente. È stata una grande emozione. All’inizio avevo anche paura dei miei vicini, quelli da cui ero fuggita. Poi le cose sono cambiate mano mano che ero presente in televisione e in radio. Piangevo di gioia.
Perché?
La gente ha iniziato a considerarmi una sorta di autorità morale e forse per questo non ho mai subito minacce.
Lei è una testimone. Le pesa questo ruolo?
Spero solo che sia non l’età a fermarmi e che la forza fisica accompagni quella mentale. Vorrei lasciare in eredità ai giovani un giardino dei giusti dove ci sia una educazione permanente contro l’odio.
In apertura e nel testo foto di Alessio Nisi
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