Fondazioni bancarie

Roma, la filantropia binaria

di Giampaolo Cerri

A differenza molti enti costituitisi con la riforma Amato, quello nata dalla Cassa di risparmio di Roma ha un carattere molto operativo, tanto da gestire direttamente una struttura dedicata all'alzheimer e un hospice. Lo scorso anno ha però erogato, senza bandi, ben 37 milioni di euro frutto di un patrimonio di 1,85 miliardi. Parla il presidente Franco Parasassi, che l'ha da poco guidata al rientro in Acri

Con un attivo patrimoniale di 1,85 miliardi, l’89% del quale mobiliare (titoli e azioni), ed una partecipazione in Unicredit pari a circa lo 0,13%, Fondazione Roma è una delle più grandi fondazioni di origine bancaria. Franco Parasassi, a marzo scorso, è stato confermato alla presidenza per i prossimi sei anni, fino all’approvazione del bilancio 2029. Era arrivato un po’ alla chetichella, nel 2018, dopo aver a lungo guidato la Fondazione come direttore generale. Nativo dei Castelli romani, temperamento schietto, grande lavoratore – ufficiale al merito della Repubblica – Parasassi ha deciso recentemente di ricondurre l’ente all’interno dell’Acri, dopo  anni di isolamento.

Franco Parasassi, presidente di Fondazione Roma

Presidente cominciamo da come siete percepiti nel vostro territorio. Siete in una grande città europea, nella Capitale, fra Parlamento, Governo, varie magistrature: arrivare ai cittadini può non esser semplice.

A volte è anche un percepire sbagliato. La nostra è una fondazione completamente diversa da tutte le altre: è una fondazione di stampo prettamente operativo, nel senso che noi le iniziative le progettiamo le realizziamo direttamente, le controlliamo e le valutiamo, ma non escludiamo la valutazione ed il sostegno a progetti presentati da terzi qualora ritenuti meritevoli. Questa nostra modalità operativa, in effetti, non sempre è percepita in maniera corretta, e comunque al cittadino ed ai suoi bisogni arriviamo sempre. 

Sì, colpisce che intervenite direttamente in alcune aree come la salute.

La nostra è una modalità di operare molto proattiva, lo dimostrano le varie iniziative in ambito sanitario che danno la possibilità a molti di poter accedere gratuitamente a determinate cure e ad un’assistenza adeguata. Questo non vuol dire che risolviamo tutte le emergenze in cui interveniamo, ma ci teniamo a proporre un modello operativo che altri possono replicare, come le nostre esperienze del Villaggio Alzheimer e dell’Hospice, giusto per citarne due tra le più rappresentative. Pur rappresentando una goccia nel mare del bisogno, molte volte mi chiedo se una di quella famiglie, con un malato grave in casa da assistere, non avesse avuto il nostro aiuto, chissà quali difficoltà avrebbe potuto o dovuto affrontare.

Le capita di avere riscontri diretti?

Molti e profondamente sentiti. Recentemente ci è arrivata la testimonianza di gratitudine molto commovente di una famiglia che noi abbiamo aiutato con un progetto piuttosto complesso di assistenza ai bambini autistici. Fatti che aumentano la nostra responsabilità di fare bene, di farlo al meglio. Peraltro si tratta di un progetto non nostro, ma presentato dall’Associazione Rete per il Sociale, a confermare l’attenzione anche alle iniziative presentate da terzi pur essendo, come detto, una fondazione operativa. 

Una diversità che quasi rivendicate, un elemento interessante. Perché il bando, a volte, può essere una comodità per chi eroga.

L’ultima volta che noi abbiamo fatto un bando era il 2006. Ricordo che per 4 milioni di euro, ci sono arrivate richieste per 40 milioni. Tenga conto che, in una piazza come Roma, non se ne erano mai fatti. Ai tempi, sembrava lo strumento naturale, ovviamente con certe finalizzazioni: c’erano dei requisiti da rispettare. Ebbene, ci è arrivata una enorme quantità di richieste e naturalmente abbiamo dovuto esaminarle tutte.

Un’istruttoria complessa?

Infinita. Sacchi di richieste, molte fatte male. Con telefonate, dopo la chiusura dei termini e associazioni che proponevano, o meglio pretendevano, di sanare le domande sbagliate. C’è stato persino qualche momento di tensione. Questo mi è dispiaciuto perché, in quel momento per noi era come avere un termometro sull’efficienza del sistema del Terzo settore su Roma e ricordo che demmo un contributo a un centinaio di associazioni, per poco più di 1,2 milioni di euro.  Insomma, non fu un’esperienza felice: ci fece capire che la strada era crescere nella nostra capacità di essere fondazione operativa.

Che direzione prendeste? 

Impostammo una modalità che, nel tempo, ci ha dato grande soddisfazione soprattutto in termini di ricadute sul territorio. Da anni, dunque, non facciamo più bandi, ma operiamo prevalentemente con iniziative proprie.

Vale a dire?

Noi scegliamo i progetti, li deliberiamo, li finanziamo, ne chiediamo la rendicontazione e poi valutiamo che questi progetti abbiano raggiunto gli obiettivi e possano sviluppare i loro effetti nel tempo. 

Ho notato interventi davvero importanti a favore di molti ospedali pubblici e privati convenzionati, come il Gemelli, l’Idi e altri.

Sono veramente molti gli ospedali in cui siamo intervenuti. Se oggi a Roma l’offerta di tecnologia avanzata, soprattutto nella diagnostica per immagini, è a livelli che mai prima aveva raggiunto, lo si deve alla Fondazione Roma. Non siamo alla ricerca di primati, ma è un dato di fatto, ed il merito va anche ai tanti dirigenti, medici e tecnici che ci propongono interventi altamente innovativi che noi valutiamo e sosteniamo, e tra i tanti mi piace ricordare quelli a carattere continuativo come il Cemad al Gemelli, dove entro l’anno dovrebbe partire la costruzione dell’Heart Centre, il centro di Ricerca sull’Alzheimer al Campus Biomedico, il Centro di ricerca sulle malattie neurodegenerative, compreso il Parkinson, all’Ospedale San Raffaele di Cassino, ed il Padiglione Fondazione Roma che si sta realizzando all’Idi. Il tutto viene fatto in tempi giusti. Naturalmente, se gli ospedali sono privati, il tempo è veloce, con quelli pubblici ci vuole un po’ di più, ma sono sempre tempi, come dire, ragionevoli. E per tornare al bando…

Torniamoci.

In questo modo abbiamo lavorato meno, ma meglio e abbiamo messo subito a disposizione di questi enti le risorse, mentre con un bando sarebbero trascorsi minimo 12 mesi prima di renderlo operativo. Quindi è una modalità estremamente efficiente che ci ha consentito di dare risposte alle emergenze del territorio. Noi abbiamo invitato tutte le scuole, tutti gli ospedali, non abbiamo lasciato indietro nessuno. Ovviamente, restiamo a disposizione dei territori: se ci sono dei progetti importanti, li valutiamo, li miglioriamo anche dando dei consigli. Quello che non diamo assolutamente sono false aspettative.

Vi piace esser chiari. 

Comunichiamo subito se la progettualità è di interesse o meno. Non siamo abituati alle mezze misure, al “se ne può parlare”. Siamo subito chiari anche per il rispetto dovuto agli interlocutori. Perché le risorse importanti non sono solo il capitale finanziario e quello umano, per quanto importanti intendiamoci, ma è soprattutto la risorsa “tempo” che per noi è prioritaria. 

Voi richiedete sempre una compartecipazione all’investimento, da parte del beneficiario. 

Assolutamente sì per le iniziative di terzi, ma anche per quelle mirate e dirette che proponiamo. Tuttavia, recentemente abbiamo fatto una deroga al Regolamento interno per le erogazioni, prevedendo che, in casi particolari, di situazioni veramente difficili, possiamo anche contribuire al 100%. La flessibilità è fondamentale, perché lavoriamo in settori molto delicati, dove i bisogni cambiano di giorno in giorno e, se siamo eccessivamente rigidi non riusciamo ad intercettare il cambiamento.

Si percepisce che la managerialità qui è prevalente e vi prendete alcuni gradi di libertà.

È vero, ci piace innovare, non abbiamo timori ad affrontare terreni inesplorati anche perché questo è un dovere per chi lavora in una fondazione bancaria e poi dobbiamo uscire da un equivoco, insomma…

Quale?

Che la fondazione non sia un’azienda: lo siamo e non possiamo non esserlo, invece. E il direttore generale, Renato Lattante, su questo è sensibilissimo. Quindi, abbiamo i nostri processi, i nostri regolamenti interni, i nostri protocolli, livelli di responsabilità ben definiti. Diversamente non si potrebbe gestire un patrimonio di un miliardo e mezzo di euro ed erogazioni che, a volte, arrivano a 60-70 milioni di euro all’anno.

Occorre managerialità, lei dice.

E manager molto qualificati, perché altrimenti si rischia di operare in maniera assolutamente inefficace. Non è più la logica di una volta: facciamo filantropia e facciamo beneficenza, è vero, però lo facciamo come un’azienda che eroga un servizio. Con professionalità.

Con quale organico?

Qui a Palazzo Sciarra, siamo in una quarantina ma, a livello di gruppo, siamo molti di più: solo al Villaggio Alzheimer, alla Bufalotta, abbiamo 135 persone, anche se adesso abbiamo costituito una fondazione strumentale alla quale conferiremo la gestione. Poi un’altra fondazione strumentale, Fondazione Sanità e Ricerca, gestisce il nostro hospice e l’assistenza domiciliare integrata ai malati fragili e ha in organico 180 persone. A livello complessivo siamo oltre 350 persone.

Guardando i bilanci – ho presente le erogazioni deliberate nel 2023 – vedo una forbice importante rispetto alle vostre aree di intervento (salute, ricerca scientifica, arte, educazione, volontariato). Al volontariato: vanno solo 1,6 milioni su 29. Risponde a una volontà precisa? 

La forbice è fisiologica, perché il deliberato dipende da noi, chiaramente, ma l’erogato dipende dal beneficiario. Se lei prendesse l’erogato, magari in più anni, vedrà che quella forbice è più contenuta. 

Quali progetti che sostenete rappresentano meglio il vostro modo di concepire l’intervento filantropico? 

Le ho già citato il Villaggio Alzheimer e l’Hospice. Operiamo in cinque settori rilevanti, quelli che lei ha ricordato. Però il nostro valore aggiunto è che non sono settori, come dire, chiusi. Anzi, a me piace molto la trasversalità tra queste aree, altrimenti faremmo sempre degli interventi importanti, ma un po’ limitati. Le spiego: il Villaggio è un’iniziativa socioassistenziale, alla quale si aggiunge il Centro di ricerca sull’Alzheimer che stiamo realizzando con il Campus Biomedico. In sostanza, stiamo costruendo una sorta di distretto tra l’assistenza e la ricerca scientifica. Che poi, se si guarda bene, questo distretto ha anche un valore di sviluppo economico, in armonia con quanto recita il nostro statuto. 

Per il settore del volontariato come operate?

Per quanto riguarda il sostegno al volontariato, siamo attenti alle emergenze: sono talmente numerose che non si può fare diversamente. Insomma, se c’è il terremoto, le persone da sotto le macerie le devi estrarre.

Per esempio?

Durante il Covid abbiamo acquistato 2 milioni di euro in buoni spesa dalla Edenred e li abbiamo donati alla Caritas, che li ha distribuiti a migliaia di persone in difficoltà, ad esempio perché avevano perso il lavoro. Idem con l’emergenza Ucraina: abbiamo assegnato 1 milione di euro alla Comunità di S. Egidio che ha acquistato beni di prima necessità, portandoli in quel Paese e e distribuendoli alla popolazione. Qualsiasi cosa si faccia, sull’area emergenziale, non si sbaglia.

Cosa avete in programma per le nuove povertà?

Buoni spesa sanitari per aiutare chi non ha possibilità di accedere alle cure per mancanza di denaro e per il problema delle liste di attesa. Una volta avevamo la migliore sanità del mondo, ora non ce l’abbiamo più, nel senso che è sempre gratuita, d’accordo, ma se per fare una Tac o una risonanza o un intervento di cataratta ci vogliono 18 mesi, allora la gratuità serve a poco. Stiamo cercando di mettere a punto un intervento per le persone bisognose, attraverso voucher da spendere in strutture private in diagnostica per immagini o per piccoli interventi.

In serbo, cos’altro c’è, Parasassi?

Sono convinto che ci sia ancora bisogno di intervenire nel campo dell’istruzione. Dopo il supporto offerto per le dotazioni tecnologiche, ora è il momento di sviluppare cose nuove, sempre per la didattica. Proporremo un programma di interventi di educazione finanziaria, alimentare, sessuale, legalità, prevenzione della violenza di genere, sicurezza sui luoghi di lavoro. 

Siete fortemente patrimonializzati ma, dando un’occhiata alla parte mobiliare e alla sua allocazione, non mi pare di vedere fondi Esg o di taglio particolarmente sociale, se si eccettua alcune cose interessanti sul real estate negli Stati Uniti: fondi che investono in ospedali, scuole altre edifici pubblici. State valutando di percorrere anche la via della finanza sostenibile, per il patrimonio?

Nella mia esperienza, anche quella pregressa di direttore generale, ho visto che una fondazione ha due aree fondamentali: quella che deve guadagnare e quella che deve spendere sotto forma di interventi di utilità sociale. Sulla gestione degli investimenti non ho specifiche competenze tecniche, ed il mio lavoro si è rivolto alla ricerca del modello amministrativo di gestione che fosse più consono alle nostre esigenze, soprattutto per contemperare al meglio i profili contabili e quelli finanziari. Però sugli Esg mi sono fatto un mio convincimento: temo si tratti ancora di una leva di marketing, perché in un convegno sono venuto addirittura a sapere che l’attestazione Esg è un’autodichiarazione del gestore. Fermo restando…

Fermo restando?

Che noi quando affidiamo il patrimonio ai gestori, naturalmente ci garantiamo che non lo allochino ai produttori di armi, per esempio. Insomma, facciamo una istruttoria coi nostri advisor. Però, onestamente, vedo ancora molto marketing. Ciò detto, guardiamo tutto quel mondo con attenzione. Dopodiché ambiente, sostenibilità e governance non devono essere applicati alla sola gestione del patrimonio, ma a tutte le attività.

Parliamo di valutazione dei progetti. Voi la fate direttamente, ricorrendo ai vostri esperti quando necessario. Pensate un giorno di richiederlo alle associazioni? 

È un tema che sinceramente non sento prioritario. Perché per il tipo di intervento che facciamo, talvolta la misurazione potrebbe anche essere inutile. Per esempio, quando dotiamo le scuole di strutture informatiche al servizio della didattica, che necessità c’è di misurare? Quando mettiamo a disposizione in un ospedale la migliore tecnologia diagnostica ed il primario mi chiama e dice: «Abbiamo lavorato fino alle 20, è un successo», cosa dobbiamo misurare ancora? Poi, ripeto, ci sono dei progetti che vanno assolutamente misurati, ma questo perché sta nella sua natura specifica.

Spieghiamolo bene.

Calciosociale, l’iniziativa del quartiere periferico Corviale, sostenuta da Fondaizone Roma

Già dal 2010 avevo in animo di fare un progetto di sviluppo sociale a Tor Bella Monaca, che è un quartiere in difficoltà. Non potevamo farlo da soli, perché è impossibile. L’abbiamo ripreso recentemente, trovando l’interesse della Fondazione Cassa Depositi e Prestiti e della Fondazione Paolo Bulgari. Bene, quando partiremo, valuteremo inizialmente gli indici di scolarizzazione, di disoccupazione, di dispersione scolastica, di occupazione ed altro. In itinere rispetto all’intervento, che durerà cinque anni, e in cui faremo varie iniziative di sviluppo socio-culturale, andremo a misurare la variazione di questi indici, che saranno fondamentali per capire se stiamo andando nella direzione giusta ed al termine del progetto saremo sicuri di aver migliorato gli indici iniziali. Qui la misurazione è un elemento indispensabile.

Recentemente siete tornati, dopo diversi anni, nell’Associazione delle Casse di Risparmio e Fondazioni italiane – Acri. Perché lo avete fatto?

Guardi, io sentivo un forte isolamento. A me piace condividere, piace mettere a sistema prassi. Facendo molte cose, mi veniva spesso in mente che magari i miei colleghi di Torino, di Firenze, di Milano stessero facendo lo stesso e forse in maniera migliore. E allora, perché rinunciare a questo confronto, a questa possibilità di essere in rete? Per far crescere la nostra struttura, per crescere noi, ma anche per realizzare iniziative nella maniera migliore possibile. In Acri, inoltre, si decidono molte azioni comuni sulle fondazioni, sia con riguardo all’attività istituzionale che alla normativa di riferimento: non partecipare l’ho sentito sempre penalizzante per la nostra fondazione.

C’è sintonia col presidente Azzone?

Assoluta ed ho avuto l’onore di essere invitato al consiglio di amministrazione dell’Acri.

Il mondo delle fondazioni, che mette a disposizione della collettività oltre 1 miliardo di euro all’anno, è al riparo dagli appetiti della politica come invece avvenne a cavallo del secolo? 

Credo che la politica sia pienamente consapevole dell’importanza e del ruolo centrale delle fondazioni come investitori e come operatori di utilità sociale. Mi auguro che su questo tema non si ritorni più.  Quello che io invece auspicherei è invece un confronto sereno e aperto nell’ambito fiscale. Questo sì.

Perché?

Perché è assurdo che le fondazioni siano assoggettate ad un regime fiscale così pesante.  Se potessimo avere maggiori esenzioni, avremmo più disponibilità da destinare al perseguimento delle finalità sociali. Ma per tornare al punto, secondo me oggi le fondazioni devono difendersi soprattutto da sé stesse. 

In che senso?

Mi piacerebbe che le fondazioni fossero sui giornali soprattutto per le attività di utilità sociale che svolgono, non per gli investimenti che fanno. 

Le foto sono dell’Ufficio stamap di Fondazione Roma. In apertura, un momento di attivià al Villaggio Alzheimer.

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