Una cultura, insegnava Jurij Lotman, «sopravvive solo grazie a una mite intransigenza». Non opporsi alla realtà, ma al tempo stesso non cedere alle troppe insidie che quella realtà nasconde: mai come in tempi di crisi, suggeriva il semiologo estone, è necessario togliersi le lenti dei moralisti e guardare il mondo per come ci viene incontro.
Tra le tante insidie di una pandemia che si sta trasformando in fenomeno endemico, spiega Mauro Magatti che ha da poco pubblicato Nella fine è l'inizio. Il mondo in cui vivremo (pagine 180, euro 15, Il mulino, 2020), un lavoro scritto a quattro mani con Chiara Giaccardi, la più rischiosa è «pensare che la nostra società sia una macchina da riparare, non un organismo che ha bisogno di rigenerarsi».
Oltre il pregiudizio del presente
Frasi fatte come «la nuova normalità» (new normal, per gli anglofili) e sintomatici luoghi comuni come «andrà tutto bene» sono indice di un problema. Un problema che Cass R. Sunstein ha definito present bias, il pregiudizio del presente. Incapaci di vivere l'oggi, lo riempiamo di parole sul "dopo". Al solo fine di esorcizzare ogni vera riflessione sul domani. Una di queste parole abusate è resilienza. Nel libro le dedicate ampio spazio, cercando di sottrarla al non senso in cui era stata gettata..
La resilienza non è la semplice capacità di resistere a uno shock, in questo caso alla pandemia. La resilienza è piuttosto un processo trasformativo. Un modo di tradurre la catastrofe vitale: le società resilienti sono quelle che sono capaci di cambiare.
Resilienza – per richiamare a una categoria di Simondon – come traduzione…
Il concetto di resilienza è una traduzione attiva del trauma. Siamo resilienti non solo se siamo capaci di assorbire lo shock ma se, nel momento in cui assorbiamo lo shock, rispondiamo alla provocazione della realtà cambiando alcuni modi di fare, di essere, di ragionare, di operare che erano forse consono alla realtà precedente, ma dopo il cambiamento non lo sono più.
La parola resilienza ha dunque uno spessore più forte, che si lega a quello della cura…
Come ci ha insegnato Bernard Stiegler da tempo assistiamo a processi involutivi, di proletarizzazione delle nostre società, Una proletarizzazione che passa attraverso l’incuria intesa come perdita di capacità da parte dei soggetti di comprendere a fondo ciò che stanno facendo sul lavoro e nella vita. Ma l'incuria è anche l’incapacità di essere ingaggiati rispetto alla realtà.
Questa perdita di ingaggio che si trasforma in perdita di capacità di cura è così forte anche a causa degli strumenti tecnici, organizzativi, istituzionali che ci inducono a disimparare. Il tema della cura va dunque sottratto da un campo privatistico o puramente relazionale. La cura è una categoria fondamentale per riuscire a reimmaginare un altro modello di sviluppo. Se l’incuria è legata alla proletarizzazione, allora il prendersi cura, ben oltre il ridurre le conseguenze socio-sanitarie della pandemia o il fatto di spingerci a trattare diversamente il nostro rapporto con l’ambiente, è qualcosa di più vasto. Un concetto, appunto. Una pratica.
La cura è un concetto molto ampio, operativo: permette di rafforzare le soggettività e affrontare la sfida imminente della digitalizzazione integrale
Mauro Magatti
La cura oltre a contrastare processi di disuguaglianza e disaffiliazione può diventare un elemento propulsivo?
La cura è il modo in cui possiamo rafforzare le soggettività e, al contempo, l’unica strada per sottrarsi alla fortissima spinta della digitalizzazione estrema che sarà tra le sfide cruciali dei prossimi anni. Una spinta che rischia di prendere una deriva tecnocratica.
Il negazionismo di chi crede di dover chiudere una parentesi
Ha citato Stiegler, che ci ha spiegato come la dimensione tecnica e la tecnologia siano ambivalenti. In questa ambivalenza, c'è anche il rapporto forse non così negativo che nei mesi scorsi abbiamo avuto con i mezzi, spesso riorientandoli ai fini. Penso all'uso del digitale nel lavoro, nell'istruzione, nelle relazioni sociali che in qualche modo hanno aiutato e, al tempo stesso, hanno mostrato una polarità positiva proprio durante le fasi della chiusura del Paese…
Tutti ci auguriamo sia così, ma temo di no. Proprio perché accelera i processi, la pandemia, dietro la spinta di un’emergenza che diventa cronica, potrebbe al contrario orientarci in ben altra direzione tanto nella direttrice della sostenibilità, quanto nella direttrice del digitale. Penso che la capacità delle nostre società di non farsi travolgere da questa spinta tecnocratica è alquanto fragile. Soprattutto se ci facciamo sfuggire questa occasione e non dedichiamo abbastanza tempo a riflettere su quello che è accaduto.
La memoria e il futuro sembrano schiacciate da un’immaginazione sociale corrotta dall’ordinario. Potevamo discutere di scuola e ci siamo arroccati sui banchi a rotelle, dovevamo ripensare il trasporto urbano e ci siamo limitati a ignorare il problema. Eravamo chiamati a ripensare il senso di una ripresa e ci siamo limitati a erogare bonus e fondi a pioggia. Anche questa è una forma dell’incuria…
Nel discorso pubblico c’è il negazionismo del virus, ma c’è anche il negazionismo della “ripartenza”. Pensiamo a discorsi come «facciamo ripartire l’economia» o «l’anno prossimo avremo il rimbalzo dopo la caduta». Tutte forme per sfuggire all’essenziale, per sottrarsi a un confronto serio con quello che ci è accaduto e su come, davvero, dovremmo cambiare il nostro modo di essere, agire e pensare.
Il problema di questo negazionismo di secondo grado non è tanto che si muova tra il falso e l’inverosimile, ma che produce un effetto: ci induce a chiudere una parentesi. Se chiudiamo l’esperienza della pandemia in una parentesi, il risveglio sarà duro e non avremo strumenti per affrontare la realtà. Il tema non è, dunque, chiudere una parentesi, ma affrontare questo spazio doloroso per cambiare la rotta.
Una catastrofe vitale
Il terremoto di Lisbona del 1755 fu uno scandalo metafisico. Ci si chiese – lo fecero tutti, atei e religiosi – da dove venisse il male morale. Le catastrofi del secondo Novecento sono state trattate come tragedie umanitarie. La pandemia ha aperto un vuoto di senso e ripresentato domande che, rapidamente, sono state soffocate da risposte ancor più vuote…
Leggerei la catastrofe attuale come trauma collettivo. Non sempre – lo vediamo anche nelle situazioni personali, quotidiane – riusciamo a rialzarci da un trauma. Ma da sul piano collettivo, il trauma è ciò che apre possibilità perché rompe lo schema. Il trauma pandemico ha creato una situazione di anomia, per cui tutta una serie di certezze e di routine che sembravano intoccabili diventano disponibili.
Viene drammaticamente sottovalutato che cosa significa stare fermi un anno, un anno e mezzo in un sistema che ha dei circuiti economici e sociali che non potranno funzionare come li avevamo impostati, ossia secondo il criterio della funzionalità. Questo vale anche per il sociale, che è chiamato a rigenerare, ma soprattutto a rigenerarsi
Mauro Magatti
Disponibili a che cosa?
Ad essere rimesse in discussione, a patto di volerlo fare. Nessuno di noi ha voglia di tornare a fare quello che facevamo prima. Ci siamo resi conto che molte cose si possono gestire diversamente. Questo è un fatto minimo, ma silenziosamente condiviso da migliaia di persone. Ma se questo è vero, significa che non siamo davanti a una banale trasformazione o digitalizzazione del lavoro, delle relazioni e della vita. Al contrario, bisogna lavorare e impegnarsi per ricostruire o costruire, in questo nuovo contesto, tessuti di vita.
O riempiamo di senso quello che stiamo facendo o finiremo per farlo, senza più chiederci il perché, sacrificando così il legame sociale e la relazione. Andiamo dell’espressione “catastrofe vitale”: dobbiamo certo chiederci che cosa ha rotto, questa catastrofe, ma anche quale potenziale di liberazione ha portato con sé. Naturalmente, questo possiamo farlo se lo vogliamo fare.
Il vecchio tema della «maglia rotta» che si apre nella rete, che a scuola studiavamo con le poesie di Montale, ora è qui, nella sua concretezza… Anche i mondi del sociale, però, hanno una grande responsabilità: o lavorare per aprire o favorire un rinserrarsi che, stavolta più presto che tardi, li soffocherà…
Siamo a metà ottobre ed è evidente che questa situazione si trascinerà quanto meno per un anno. Eppure continuiamo a inseguire la notizia del giorno, per indignarci e poi passare a quella successiva. Abbiamo un compito e un dovere: ripensare tutto. Siamo tutti in pericolo, ma lo capiamo davvero? Generiamo davvero quelle comunità di legame e di rischio di cui tanto si parla?
Il vecchio tema della «maglia rotta» che si apre nella rete, che a scuola studiavamo con le poesie di Montale, ora è qui, nella sua concretezza… Anche i mondi del sociale, però, hanno una grande responsabilità: o lavorare per aprire o favorire un rinserrarsi che, stavolta più presto che tardi, li soffocherà…
Siamo a metà ottobre ed è evidente che questa situazione si trascinerà quanto meno per un anno. Eppure continuiamo a inseguire la notizia del giorno, per indignarci e poi passare a quella successiva. Abbiamo un compito e un dovere: ripensare tutto.
LEGGI ANCHE:
È cambiato il sistema di riferimento, ma continuiamo a seguire il modello di riferimento precedente…
La nostra società non è una macchina da riparare, ma un organismo che ha bisogno di rigenerarsi. Per superare le conseguenze sociali, economiche e culturali della pandemia dobbiamo costruire un ponte e incamminarci sull'altra riva. Se non prendiamo questa strada trasformativa la realtà ci travolgerà. Le pandemie ci sono sempre state, ma non c'è mai stato un mondo così fragile e interconnesso. La pandemia attuale è stata dunque tra le più profonde, forse addirittura la più profonda.
Viene drammaticamente sottovalutato che cosa significa stare fermi un anno, un anno e mezzo in un sistema che ha dei circuiti economici e sociali che non potranno funzionare come li avevamo impostati, ossia secondo il criterio della funzionalità. Questo vale anche per il sociale, che è chiamato a rigenerare, ma soprattutto a rigenerarsi.
Società del rischio vs. società della sicurezza
Abbiamo accarezzato l'idea che il virus sarebbe scomparso col caldo e l'estate, poi abbiamo iniziato a parlare di ferie e vacanze, poi di ripresa… Nel frattempo, saltando da un alibi all'altro, siamo sul punto di cadere… A poco a poco emerge l’evidenza: ci aspettano un lunghissimo autunno, un lunghissimo inverno, una lunghissima primavera in cui le cose non saranno più come prima. Se non interveniamo culturalmente, socialmente e politicamente e non avviamo un processo trasformativo le cose precipiteranno sul lato sociale ed economico, ancor prima che su quello sanitario.
Se siamo tutti in pericolo ma pochi percepiscono questa «fraternità del rischio», forse è perché viviamo ancora nella coda lunga dell’individualismo novecentesco…
Il secolo dell’ individualismo è andato sempre più radicalizzandosi e, al tempo stesso, chiudendosi in se stesso. Il problema non è che “dobbiamo” cambiare, è che siamo già cambiati. Questo virus ci ha cambiati e dobbiamo prenderne coscienza, dando risposte resilienti a questo cambiamento. L’alternativa è l’illusione, pericolosissima, che tutto tornerà come prima.
Il processo trasformativo, però, deve essere supportato da nuove alleanze. Al tempo stesso, queste nuove alleanze si confrontano con un altro grande tema eluso: il rischio.
Siamo una società del rischio e abbiamo tradotto la questione (rischio ambientale, finanziario, etc) nei termini di sicurezza/insicurezza. Ma così facendo abbiamo, ancora una volta, eluso la questione del rischio. Sapevamo che la nostra società crea continuamente rischi nuovi, ma abbiamo dato una risposta in termini di sicurezza. Questa risposta è andata in crisi la risposta. Per cui, ancora una volta, dobbiamo rovesciare il paradigma: dobbiamo affrontare collettivamente i rischi.
Le nostre società che hanno avuto una stagione di accesso al benessere e, quindi, espansiva sono entrate da diversi anni – e il COVID-19 ha accelerato il processo – in un’altra spirale dove viene messo in discussione l’accesso al benessere. Fatalmente si sviluppa una fortissima spinta di pura conservazione del benessere residuo. Una spinta meramente regressiva, che può sprigionare forze e tensioni devastanti. L’unica strada che abbiamo è accogliere la fragilità e il rischio, generando quel legame fraterno a cui ci richiama anche l’ultima Enciclica di Francesco.
Questo shock globale conclude la parabola iniziata negli anni Sessanta: benessere, consumismo, individualismo. Tanti risultati importanti e tanti problemi, ma soprattutto: uno schema che non regge più. Per cui o cambiamo prospettiva o rischiamo delle uscite regressive, non ultima un capitalismo integrale della sorveglianza.
Con conseguenze irreversibili per la nostra libertà…
L’unica alternativa è proprio rimettere in gioco la libertà, con una logica solidale da ricostruire integralmente sulla base dell’esperienza dell’interconnessione di cui, paradossalmente, abbiamo fatto esperienza nei mesi del lockdown.
Il sociale è chiamato in prima linea su questo tema… Altrimenti sarà costretto, nel migliore dei casi, a farsi dettare l'agenda da altri. Nel peggiore, a replicare nella pratica un discorso sicuritario che, a parole, vorrebbe smentire. Un bel vicolo cieco, non c'è che dire.
Se non usiamo la spinta che viene da questo momento anomico per aprire nuovi ordini di pensiero e generare nuove pratiche sono convinto che il contraccolpo sarà deflagrante. Non sta nelle cose pensare semplicemente che torneremo a crescere, a lavorare, ad agire come prima. La realtà, ci ha insegnato Papa Francesco, è più forte dell’idea. Proprio per questo un’idea che si confronti costantemente con la realtà, senza eluderla e senza mistificarla, è ciò di cui i nostri mondi hanno bisogno.
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.