«Il singolo ha una legge dentro di sé che lo costringe a sopravvivere. Quello che fanno i terroristi islamici è una porcheria non solo perché uccide. Ma soprattutto perché è qualcosa che non si può fare se non andando contro di sé, uscendo dalla propria natura umana. È prima di tutto un attentato contro sé stessi. L'ho imparato in montagna: quando ti trovi in una situazione senza via d'uscita, solo quando ti rendi conto che è finita definitivamente ti lasci cadere nell'infinito. È una sensazione interessante. L'ho vissuto nel 1970 sul Nanga Parbat, quando ho perso mio fratello Günther». Questa è la montagna di Reinhold Messner. Più di un semplice alpinista, non solo una star dell'estremo. Lui è Mr. Quattordici. Il primo, nel mondo, a scalare tutte e 14 le vette oltre gli 8000. Il primo a scalare un 8mila senza ossigeno.
I piedi di Reinhold Messner dopo i congelamenti tiportati sul Nanga Parbat
Era il 27 giugno quando i due fratelli raggiungono la vetta realizzando la terza salita assoluta al Nanga Parbat.
Günther era molto provato, e soffriva di allucinazioni a causa del freddo e della stanchezza, inoltre, i due avevano esaurito le scorte di acqua e cibo. Decisero così di scendere per il versante opposto a quello di provenienza (Diamir), considerando questa via più facile rispetto alla parete da cui erano saliti (Rupal).
Durante la discesa però, Günther viene travolto da una valanga, e scompare. Reinhold Messner cercò invano il fratello per tre giorni, riportando numerosi congelamenti che gli impedivano di camminare, poi a fatica scese a valle, dove venne salvato dagli abitanti del luogo. Le spoglie di Günther saranno ritrovate dalla popolazione locale solo nel 2005.
Ma per tutti quegli anni Reinhold verrà accusato di aver abbandonato suo fratello, ormai allo stremo delle forze e in condizioni di salute precarie, sulla parete Rupal, per poter raggiungere comunque la vetta. Di averlo sacrificato per la propria ambizione. Il ritrovamento spazzerà via queste maldicenze.
Questa era la montagna per Messner. Estrema, feroce, mortale. Era perché oggi Messner invece vive e guarda la montagna con un altro sguardo. E soprattutto la racconta. È così che nasce il Messner Mountain Museum, una rete di sei musei (Corones, Firmian, Dolomites, Juval, Ripa, Ortles). «Noi dobbiamo iniziare a capire la montagna distinguendo tra la terra montana lavorata da migliaia di anni, che arriva fino a 2200 metri, fino alle ultime malghe. Oltre questo limite l'uomo non andava. Non c'era motivo di andare oltre il terreno usabile. Solo ad un certo punto si è andati oltre. Quello che io ho fatto non è necessario, non è intelligente. È un'attività decadente che nasce con l'illuminismo e l'industrializzazione che ci ha dato i mezzi per fare questi giochetti. Io distinguo nettamente tra la montagna selvaggia e la terra coltivata che serve per sopravvivere sulle montagne. Io conosco bene entrambe. Ieri ero concentrato sull'alpinismo, oggi invece mi interessa la cultura della montagna. il mio museo non è altro che storytelling».
Quello che ho fatto non è necessario, non è intelligente. È un'attività decadente
Storytelling che però non basta, per conoscerla infatti bisogna incontrarla. «Un bambino impara la montagna prendendo la misura con le proprie gambette», ride Messner, «Bisogna portarli, non farli mai affaticarli troppo e farli esplorare. I bimbi si chiedono quanto sono grandi queste montagne, vogliono esplorare il mondo». E una volta incontrata la montagna non c'è alcun rischio che si rimanga indifferenti: «se mettiamo una qualsiasi persona che non è mai stata in montagna su una via, anche facile, e la lasci lì una notte, stai sicuro che l'incontro avviene. Magari non ci torna più, ma la incontra. Però sia chiaro: non siamo in asilo in montagna, la cosa più importante è l'esposizione, essere molto lontani da ogni possibilità di essere coccolato».
Un bambino impara la montagna prendendo la misura con le proprie gambette
Un incontro, quello con la montagna, che non solo non può lasciare indifferenti, ma che quasi sempre lascia dei segni. «Da quando esiste l'uomo tra noi e la montagna nasce una relazione. Ma dobbiamo ricordarci sempre che siamo noi a dare il fascino alla montagna, non il contrario. Avendo chiaro questo si imparano tante cose in altezza. La più importante è che siamo responsabili di tutto quello facciamo. La legge della natura, che è divina, sta anche dentro di noi. E a certe altitudini si è in un mondo senza leggi né giudici. Se si fa un errore è sentenza di morte».
Messner non è, e non è mai stato credente, ma con le montagne è diverso: «È chiaro che se ti trovi di fronte al K2 ti dici che da solo non cresce. Tutte le religioni sono inventate dall'uomo, tutti gli dei sono immaginazione. Ma questo non significa che dio non esiste. Quando i greci salirono sull'Olimpo scoprirono che Zeus non c'era. Ma l'Olimpo c'è però», ride.
In montagna non c'è nulla da conquistare, c'è solo da lasciarsi conquistare
Più ne parla più gli insegnamenti della montagna tornano a galla. «C'è una parola che non mi è mai piaciuta. Una parola tedesca, marziale, che i tedeschi usano quando arrivano in vetta. È una parola che usarono anche in seguito, durante il Terzo Reicht. Berg heil, che significa più o meno “conquistato”, “preso”. Io mi sono sempre rifiutato di usarla, e fino ad un certo punto semplicemente non dicevo nulla», spiega l'alpinista. Questo finché non ha incontrato il popolo tibetano. «In Tibet si usa un'espressione, soprattutto quando qualcuno lascia un campo per andare in altitudine. Si dice Kalipé. Il significato è “sempre con il passo lento”. Perché in montagna bisogna regredire, non c'è spazio per la fretta. Bisogna tornare alla stasi e poi muoversi. In qualche modo è l'esatto opposto di Berg heil. In montagna non c'è nulla da conquistare, c'è solo da lasciarsi conquistare».
Reinhold Messner. La montagna raccontata a mia figlia
Illustrazioni a cura di Chiara Dattola
Immagini a cura di Anna Spena
Testi e video a cura di Lorenzo Maria Alvaro
Montaggio video a cura di Annalina Sertori
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