“Boxe contro l’assedio” è nato quasi per caso, dall’incontro tra il Ciss – Cooperazione Internazionale Sud-Sud Onlus e la palestra popolare di Palermo. Poco dopo, è stato abbracciato anche da due palestre di Roma, la palestra popolare Valerio Verbano e la palestra popolare Quarticciolo.
Oggi segue a Gaza venticinque ragazze e più di cento ragazzi. «Cinque anni fa ragionammo insieme sulla valenza dello sport sociale nelle periferie come strumento di riscatto. In un mio viaggio in Palestina vidi che la boxe è uno sport molto praticato e famoso, insieme al calcio», dice Valentina Venditti, responsabile programmi Medio Oriente del Ciss. «Nella striscia di Gaza il pugilato, a causa dell’assedio israeliano e delle difficoltà di ingresso e di reperimento dei materiali, era in difficoltà sia per le attrezzature sia per l’accesso alla formazione dei coach. Decidemmo di fare una prima missione, nel 2018, in favore delle palestre della striscia di Gaza, insieme alla Federazione Nazionale di Boxe, con l’ottica di sviluppare il pugilato», continua Venditti. Alla prima missione partecipò Giancarlo Bentivegna: era la prima volta che un pugile professionista di un altro paese entrava nella striscia di Gaza. «Ci fu una grande partecipazione e un riscontro molto positivo. Gli atleti possono uscire molto difficilmente, così come è molto difficile entrare nella striscia di Gaza. Ai ragazzi manca lo scambio con atleti di altri paesi, il confronto è uno degli elementi più importanti degli allenamenti di pugilato».
Voglio diventare come Mike Tyson, gareggiare in competizioni internazionali e innalzare la bandiera palestinese come momento di rivendicazione della libertà della Palestina
— Farah
Il progetto prevede un programma di sviluppo strutturato, con obiettivi da raggiungere e relazioni da mantenere anche a distanza. Le due palestre romane hanno dato vita alla seconda missione a gennaio 2019, con il coinvolgimento di tutte le palestre della striscia di Gaza: «Alcune erano nei sottoscala e avevano i sacchi da boxe fatti con le ruote delle automobili. Abbiamo riscontrato la carenza delle protezioni, la nostra formazione ha riguardato anche l’importanza della sicurezza in questo sport», prosegue Venditti. «Alcune ragazze, nella prima missione, si erano avvicinate a noi dicendoci che avevano la passione della boxe ma non potevano praticarla perché non c’erano corsi strutturati per loro. Nella seconda missione abbiamo iniziato a fare lezioni anche a bambine e ragazze. Ci siamo resi conto che, se volevamo ottenere un risultato più sostenibile, dovevamo lavorare direttamente con i tecnici».
Le atlete hanno dagli 8 ai cinquant’anni, è ancora più rivoluzionario dedicare corsi a donne adulte. «Lo scorso maggio sono andata in Palestina, ho avuto la bella notizia che Farah, 13 anni, una delle ragazze che si allenano con il coach Osama, è stata selezionata per partecipare questo mese ad un campionato di boxe giovanile in Ungheria. Fino all’ultimo minuto non si avrà la certezza della sua partecipazione, bisognerà superare la sfida dell’ottenimento dei permessi», dice Valentina Venditti. È attiva una raccolta fondi per le spese del visto e del viaggio. «Quando l’ho incontrata, Farah mi ha detto: “Voglio diventare come Mike Tyson, gareggiare in competizioni internazionali e innalzare la bandiera palestinese come momento di rivendicazione della libertà della Palestina”. Questo sogno a breve potrebbe realizzarsi: anche se non dovesse vincere, partecipare sarebbe già una vittoria enorme. Boxe contro l’assedio è nato completamente dal basso, è stupendo vedere la forza delle ragazze che fanno questo sport. Ai pugili stranieri dicono sempre che vorrebbero cambiare l’idea che la gente ha di Gaza, se ne parla solo per la guerra: per loro è una città bella, è la vita, è il posto dove vogliono fare tante cose. Tramite lo sport, il loro senso di libertà esce fuori con una forza incredibile. Anche in occasione dell’attacco israeliano dello scorso maggio, durante il quale ero presente, ho visto come queste ragazze non si fanno fermare da niente, neanche da ostacoli terrificanti come le bombe e la limitazione della libertà e delle opportunità».
Queste ragazze hanno voglia di determinare la loro vita grazie al pugilato, ho un’ammirazione nei loro confronti che non ha eguali: hanno coraggio, voglia di non abbattersi mai, tante energie mentali.
— Fabrizio Troya
La terza missione è stata dedicata tutta alla formazione dei tecnici di pugilato, di quasi tutte le palestre della striscia di Gaza, che si è conclusa con la creazione di piani di lavoro. Con il Covid-19 c’è stata una lunga battuta d’arresto: «abbiamo fatto lezioni on line, con grandi difficoltà, a causa dell’assedio ci sono poche ore di elettricità al giorno. Durante la pandemia, Osama, il coach di una delle palestre di Gaza, ha iniziato ad allenare le ragazze, in spiaggia e per strada: la consideriamo una piccola vittoria anche per noi». Il coach ha fatto un grande lavoro comunitario, ha parlato con le famiglie specificando i benefici della boxe. «Non è scontato né semplice per le ragazze praticare pugilato nella striscia di Gaza: hanno iniziato a difendere la loro scelta di praticare questo sport e ci sono riuscite». Si è creata la prima palestra di boxe femminile, con allenamenti tre volte a settimana. L’ultima missione di Boxe contro l’assedio di ottobre 2022 è stata dedicata soprattutto all’allenamento di queste ragazze, che stanno raggiungendo dei risultati incredibili.
«A settembre 2022 sono stato in missione con Boxe contro l’assedio, nella striscia di Gaza. È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita», dice Fabrizio Troya, 26 anni, tecnico della Giovanile di boxe nella Palestra popolare del Quarticciolo. «Dopo aver vissuto in un contesto del genere, non riesco a tornare alla quotidianità di prima. Avevo sempre sentito parlare di Palestina solo come luogo di distruzione. Invece, a Gaza ho fatto passeggiate a cavallo, ho il ricordo della cena più bella della mia vita, sono andato nei pub con i ragazzi», racconta Troya. «Il pugilato femminile è un po’ bistrattato ovunque, non avrei mai pensato di ritrovarmi a fare il tecnico di boxe nella striscia di Gaza, ad una classe femminile: è stato molto emozionante. Queste ragazze hanno voglia di determinare la loro vita grazie al pugilato, ho un’ammirazione nei loro confronti che non ha eguali: hanno coraggio, voglia di non abbattersi mai, tante energie mentali. Spero con tutto il cuore di tornare presto a Gaza».
«Sono andato già dieci volte in Palestina, dal 2015 ad oggi. La boxe è un motivo per parlare di Gaza in modo diverso da come ce la raccontano i media», dice Daniele Napolitano, 32 anni, fotoreporter e videomaker del progetto. «Quello che mi sconvolge ogni volta e che mi fa capire l’importanza di raccontare quei luoghi è l’aspetto che riguarda la normalità, nonostante la tensione che un po’ si sente sempre e il fatto che tutto sia condizionato dalla non libertà di uscire dal paese. Da fotografo, sento la necessità di raccontare le cose della vita quotidiana: ci sono sette università e fragole buonissime a Gaza, i pescatori che escono con le loro barche tutte le notti nonostante le bombe. Poi, ci sono anche la guerra e la morte. Ho conosciuto anni fa Yaser Murtaja, ci saremmo dovuti rivedere due anni dopo. Invece Yaser, fotoreporter palestinese, a 30 anni è stato ucciso dai cecchini israeliani, viveva a Gaza e non aveva mai viaggiato».
Tutte le foto sono di Daniele Napolitano.
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