Silvia Priori, direttrice dell’Ambulatorio di cardiologia molecolare degli Istituti clinici scientifici Maugeri di Pavia e del programma di genetica vascuolare al Centro National de Investigaciones Cardiovasculares Carlos III di Madrid, è risultata tra le prime 100 scienziate al mondo, 84esima scienziata in assoluto e quarta nazionale, secondo la classifica 2023 stilata dalla piattaforma accademica Research.com sulla base del numero di pubblicazioni e citazioni ricevute. Tuttavia, con un h-index di 151, e ricordiamo che l’h-index è un valore calcolato per stimare quanto un autore è prolifico e l’impatto scientifico del suo lavoro, e 620 pubblicazioni su importanti riviste scientifiche, per la cardiologa non è il primo riconoscimento di questo tipo.
Lei si occupa di malattie genetiche rare del cuore che provocano arresto cardiaco, che colpiscono anche i giovani e sono responsabili di migliaia di morti improvvise. Di cosa si tratta?
Malattie importanti perché associate a una mortalità prematura, causa di eventi molto gravi e anche letali, spesso in bambini sin dai primi mesi di vita. All’origine ci possono essere problemi di due tipi, di natura elettrica o muscolare, che causano rispettivamente aritmie (le canalopatie) o l’incapacità del cuore di contrarsi e, quindi, una insufficiente perfusione degli organi vitali (le cardiomiopatie).
Come ha individuato i geni responsabili?
Il mio gruppo e anche altri team hanno identificato alcuni geni responsabili grazie agli studi di genetica molecolare e portando avanti in parallelo attività clinica e attività di ricerca. A Pavia, abbiamo aperto un servizio di attività clinica che ormai da 25 anni raccoglie e guida nella gestione della loro malattia pazienti che vengono da tutti Italia.
L’anno scorso, ha ricevuto la prestigiosa Gold Medal dall’Esc European society of cardiology per il suo contributo significativo alla comprensione di queste malattie e alla loro risoluzione. A che punto siamo coi trattamenti?
Il cambio di rotta c’è stato a partire dal 2010: invece di concentrarsi sui farmaci classici che puntano a ridurre il problema clinico, puntiamo alla terapia molecolare, cioè alla creazione di molecole che compensino le conseguenze del difetto genico e, in alcuni casi, lo correggano agendo proprio sul Dna del paziente. È la direzione della medicina del futuro, che sta andando verso terapie geniche non solo per le malattie ereditarie ma anche per quelle acquisite.
Lei guida team di clinici e di ricercatori, in Italia e all’estero. Qual è la peculiarità del lavoro di un clinico-ricercatore?
È un approccio fondamentale. L’occhio del medico in clinica è quello che permette di non perdere i dettagli della malattia, dai quali si ragiona per sviluppare modelli e per individuare cause. D’altra parte, per il ricercatore, vedere gli elettrocardiogrammi e le ecocardiografie dei pazienti è molto utile e motivante perché capisce che sta cercando di aiutare qualcuno con una patologia molto grave. Ricerca e clinica sono le due anime, inscindibili, della mia formazione: dopo la laurea in Medicina e la specialità in cardiologia sono andata negli Stati Uniti per un dottorato di ricerca e lì la mattina c’erano i pazienti e il pomeriggio la ricerca. Nel mio laboratorio, tutti hanno questa doppia cultura.
In Italia, c’è la tendenza a considerare ogni svolta un fallimento e ogni fallimento un segnale di inadeguatezza invece che un’opportunità. Lei ha raccontato di aver cambiato percorso strada facendo: attratta dalla neurologia, quasi per caso è passata alla cardiologia. Cosa insegna questo?
Quando ci si pone degli obiettivi ambiziosi bisogna mettere in conto che i fallimenti saranno più dei successi. Dopo 35 anni di lavoro tra bancone e clinica, ritengo sia parte della vita del ricercatore sbagliare nel formulare delle ipotesi, che spesso non risultano essere così promettenti come sembrava. Questo va spiegato chiaramente ai più giovani. Al contempo, proprio qui sta l’entusiasmo della ricerca che risolve problemi e arriva a soluzioni. Inoltre, in questo lavoro, c’è anche una grossa componente di sfida con sé stessi. Infine, non si è mossi dai riconoscimenti esterni, ma dalla gratificazione di riuscire a portare qualcosa di concreto al letto del paziente. Anche per questo, non ci fermiamo alle pubblicazioni, ma puntiamo ai brevetti di metodiche e di farmaci che trasformeranno la scoperta in terapia.
Parliamo alle studentesse e alle giovani ricercatrici, quali aspetti del carattere possono essere di aiuto?
Sono una persona molto razionale nell’approccio ai problemi e, quindi, riesco a rimanere calma anche davanti alle difficoltà. È, poi, importante comprendere l’importanza di incassare bene le sconfitte, senza mollare o sentirsi inadeguate al primo insuccesso, e di saper utilizzare i successi come una ricarica motivazionale. Quindi, c’è da lavorare su sé stessi. È un lavoro competitivo. Quanto competitivo dipende anche dal responsabile del laboratorio. Ho visto contesti in cui ricercatori staccavano le macchine che gli altri stavano usando per i propri esperimenti per rallentarli. Io cerco di creare un ambiente di cooperazione.
Da un lato, la ricerca è un’attività che per sua natura non conosce fine settimana o feste comandate. Dall’altro, c’è il perdurare delle pratiche da old boys’ club, come dicono gli americani, per cui le scelte importanti di un progetto o un avanzamento di carriera si decidono non in ateneo o in corsia ma in altri contesti, come il pub, quando le donne spesso sono assenti per evidenti motivi di carico di lavoro domestico. Che fare?
Bisogna creare un’atmosfera favorevole alle ragazze. E non è difficile. Io ho tante ragazze nel mio gruppo, sono valide, sono perseveranti, c’è un’integrazione tranquilla, non c’è nessuna esclusione, il loro coinvolgimento non viene mai meno neppure durante la gravidanza o i primi mesi di accudimento del bambino, tutti momenti che ho vissuto anch’io, che ritengo fondamentali e che sono gioiosi momenti per tutti in laboratorio.
Spesso dai dati emerge non solo che le donne vengono selezionate meno ma che si aiuto-boicottano non partecipando neppure, come se fossero poco agguerrite, così immerse fin dalla nascita nella dicotomia femminuccia/maschiaccio.
A volte le ragazze si scoraggiano prima dei ragazzi, per quanto non si possa mai generalizzare. L’occhio del capo laboratorio deve essere attento e di supporto alle persone valide che hanno magari dei momenti di difficoltà o di scoraggiamento. Non mi stancherò mai di ripeterlo. La ricerca è un affare di perseveranza, lavorare nel terreno dell’ignoto per arrivare al nuovo è molto difficile. Ma il punto secondo me è un altro. In questo paese manca un sistema di welfare che consenta ai ricercatori, soprattutto le ricercartici, di avere dei figli senza dover limitare la propria carriera. Non ci sono asili nido sufficienti e anche i fondi del PNRR, che avrebbero dovuto avere proprio un capitolo che era stato deciso sull’aumento degli asili nido e di facility della seconda infanzia, è stato un nulla di fatto e anzi ci sono stati dei tagli. Questa è una enorme barriera per le donne. Poi, ovviamente, come sempre nella vita contano gli esempi e i modelli. Quindi è chiaro che conoscere donne ricercatrici che hanno avuto figli e che hanno avuto una vita normale, spinge altre donne a fare lo stesso. Nella mia esperienza, quando ho incoraggiato delle brave ricercatrici a non mollare, semplicemente facendo loro presente che certe decisioni si presentano una volta sola e, imboccata una certa strada, è difficile tornare sui propri passi, devo dire che sono tutte molto contente e soddisfatte.
Nessuno è disposto più a dichiarare, come fece il dean di Harvard William Kirby perdendo il posto, che le donne sono meno portate dei maschi per certe discipline. Allora perché quando si tratta di puntare su un cavallo vincente, per un abstract, un talk o una posizione, esso è sempre maschio?
Purtroppo spesso è così, perché le commissioni spesso sono costituite da uomini e quindi c’è una specie di assonanza che scatta. Dovrebbe accadere lo stesso tra donne, che dovrebbero essere pronte a sostenersi. Come disse la già Segretaria di Stato Madeleine Albright: «There’s a special place in hell for women who don’t help each other» (ovvero c’è un posto speciale all’inferno per le donne che non aiutano le altre donne). C’è ancora chi trova gratificante poter dire Sono l’unica donna in quel board, sono l’unica in quella commissione e non sente la necessità, che invece è urgente, di reclutare altre donne nella stessa posizione.
In Italia, ci sono gruppi di ricercatrici che si sono organizzate per raccontare le proprie attività anche ai non addetti ai lavori, per fornire modelli in cui identificarsi alle giovani ragazze. Perché ai vertici delle società scientifiche ci sono sempre maschi, che si presentano in conferenza stampa e che finiscono in tv e sui giornali?
Sicuramente la carriera parte e si sviluppa perché c’è qualcuno che nota il tuo nome e le tue competenze e, quindi, iniziative come quelle in cui si è impegnata a Bracco negli ultimi anni di creare queste liste di donne esperte da distribuire ai giornalisti sono cruciali perché elimina l’usata scusa di dire Non saprei chi intervistare (o invitare) in quel settore.
Un consiglio finale per le ragazze.
È lo stesso che ho sempre dato ai miei due figli, Gabriele e Andrea, medico e ingegnere aerospaziale, che ormai hanno superato i 30 anni e hanno quindi già fatto molte scelte importanti: nella vita si deve sempre avere un sogno e, quando lo si realizza, bisogna averne un altro, perché la possibilità di lavorare alla sua realizzazione, spinti dalla gioia immensa che se ne otterrà, regala un’impagabile forza e leggerezza d’animo.
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Nessuno ti regala niente, noi sì
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