«Era il 4 dicembre 1990. Piena notte. Io avevo cinque anni, mia sorella Valentina sette. I nostri genitori non ci avevano detto nulla. Le valigie furono preparate al volo e caricate sul pullman. Seduti in silenzio, insieme a molti concittadini che scappavano dalla cittadina kosovara Titova Mitrovica, allora facente parte della Jugoslavia. Destinazione, la Svizzera. Del viaggio ricordo solo che durò tre giorni».
Inizia così il racconto di Valon Behrami, 38 anni compiuti ad aprile, una lunga carriera da calciatore di alto livello, conclusa la scorsa stagione con la maglia del Brescia tra i cadetti. I tifosi italiani lo conoscono bene, perché per anni ha giocato in Serie A con Genoa, Verona, Lazio, Fiorentina, Napoli e Udinese. Ha avuto esperienze anche in Germania e Inghilterra, oltre ad avere partecipato a ben 4 mondiali con la nazionale elvetica di cui è stato un leader. Adesso è uno dei “Talent” di Dazn, commentatore mai banale delle cose del pallone nostrano e non. Vive a Udine e con il sorriso intelligente dell’autoironia si definisce «l’unico coglione svizzero che risiede in Italia». Ne ha viste tante da piccolo (c'è pure un servizio d'archivio della Rsi, ndr). Ha maturato un forte senso della giustizia, della legalità e della famiglia. Ascoltiamolo.
Valon ripartiamo da quella notte di fine 1990.
La partenza fu improvvisa, ma ormai da tempo l’aria in Kosovo si era fatta pesante, soprattutto nei confronti dei kosovari di etnia albanese, come noi.
Avete subito violenze?
Mio padre Ragip una volta fu picchiato dalla polizia serba di Milosevic, ma tutto sommato noi siamo stati fortunati, anche se fummo costretti alla fuga perché i serbi si stavano facendo sempre più minacciosi. Quelli sono stati i primi passi verso il conflitto vero e proprio che scoppiò alcuni anni dopo e nel quale morirono due miei familiari: uno zio e un cugino.
Che ricordi ha dei suoi anni in Kosovo?
Ricordi positivi. I miei avevano un buon lavoro. Facevamo parte di una più grande famiglia di parenti molto numerosa. Eravamo uniti, legati, sempre insieme. Noi ragazzini eravamo una quindicina, si giocava per strada, in mezzo alla natura. Si stava bene.
Dei primi tempi in Svizzera, invece, che immagini conserva?
Arrivati a Stabio, Canton Ticino ci ospitarono in albergo. Poi ci assegnarono la casa. Fummo accolti benissimo, ci dettero sussidi e aiuti. Ma sentivamo comunque la nostalgia, ci mancavano i parenti, gli amici. Era tutto diverso, anche il cibo. Poi mio padre trovò un lavoro in una ditta che produceva salumi, mentre mia mamma Halime entrò in fabbrica. Una grande cosa, anche se per loro a livello professionale fu un passo indietro. Ma i nostri genitori non hanno mai fatto trasparire nessuna emozione negativa, sono stati bravissimi a mascherare ogni sentimento anche quando la situazione in Kosovo si è fatta molto più difficile e drammatica. Questa cosa l’ho capita dopo, quando sono cresciuto e l’ho apprezzata moltissimo. Ancora di più da quando sono diventato padre anch’io.
Il progetto era quello di restare in Svizzera o c’era la speranza di tornare un giorno in Kosovo?
Superata la normale salita, l’unico desiderio era quello di integrarsi nel più breve tempo possibile. Andammo subito tutti a lezione di italiano. Per noi iniziò la scuola. Poi un giorno io e mia sorella ci presentammo all’oratorio di Ligornetto, un piccolo centro a due chilometri da Stabio. Chiedemmo di poter giocare con loro. Ci accolsero benissimo.
E per lei ci fu il colpo di fulmine con l’atletica.
Mi piaceva correre, mi divertivo, mi faceva star bene. Iniziai a partecipare alle gare del Ticino. E spesso vincevo. Al calcio non ci pensavo, anche se mio padre giocava in una squadra amatoriale ed io talvolta lo andavo a vedere. Ma non sognavo di diventare calciatore.
La scintilla verso il pallone quando scocca?
Un giorno durante l’intervallo a scuola, un mio compagno mi invitò a fare una partita con una squadra allenata dal padre. Gli dissi di sì, ma non avevo nemmeno le scarpette con i tacchetti. Fui l’unico a giocare con le scarpe da ginnastica. Morale della favola, segnai due gol, ma soprattutto provai un’emozione fortissima, diversa e più intensa di quella assaporata con l’atletica.
Quindi, la scelta è fatta.
Non ancora. Mia madre avrebbe voluto che non continuassi con il calcio. Il primo giorno di allenamento pioveva, tornai a casa con la tuta sporca e bagnata. Non avevamo una lavatrice tutta per noi; era in comune con altre famiglie, si dovevano fare i turni. Io invece continuai, anche grazie a Roberto Vignati, uno dei miei primi allenatori. Alle spalle c’era una società, al lavaggio e al resto avrebbero pensato loro. Ma non lasciai l’atletica. Per diverso tempo ho portato avanti tutte e due le attività. E questo mi è servito molto per la mia formazione sportiva.
Tutto scorre bene fino al dicembre 1995 quando per voi arriva il provvedimento di espulsione.
Una botta tremenda. Eravamo tutti seduti sull’unico divano di casa. Per la prima volta vedemmo la tristezza negli occhi dei nostri genitori. Fecero fatica a dirci che era arrivata la lettera dell’espulsione. Entro tre mesi avremmo dovuto lasciare la nostra nuova casa, la scuola, gli amici. Tutto. Dopo cinque anni. Così era stato deciso dalle autorità svizzere. Io piansi. Anzi, piangemmo tutti.
Cosa è che le faceva più male?
Tra tutti i motivi di dispiacere (e ce n’erano tanti), sentivo forte l’ingiustizia alla base di quel cartellino rosso. Perché? mi chiedevo. Siamo arrivati qui da profughi, abbiamo sposato le abitudini, lo stile di vita, la lingua del paese che ci ha accolto. Abbiamo sempre rispettato le leggi. Ci siamo intergrati perfettamente. Perché allora l’espulsione? Certo, anche se avevo solo dieci anni, percepivo il clima di pregiudizio che si iniziava a diffondere per i kosovari e gli albanesi. Ma continuavo a chiedermi il perché di quella decisione così assurda, che non teneva di conto della realtà della nostra famiglia.
Sapeva che alcuni vostri connazionali erano già stati rimpatriati?
Sì, ma erano casi di persone che avevano tenuto condotte non adeguate dal punto di viste legale. È chiaro ed è anche giusto che se fai danni, ne subisci le conseguenze. Stop. Noi ci siamo impegnati da subito per adeguarci al nuovo contesto. Vado in un paese nuovo e faccio di tutto per inserirmi. Capita, invece, che gli immigrati talvolta facciano fatica ad integrarsi, magari costituendo delle piccole comunità nel paese che li accoglie. Non si aprono, stanno per conto loro.
Per voi è stato l’esatto contrario
Proprio così. Ci siamo adattati con consapevolezza e rispetto alla nuova realtà, alla cultura, alle abitudini degli altri. Per me è stata una lezione fondamentale che mi è tornata utile durante tutta la mia carriera, specie quando ho giocato con i tedeschi dell’Amburgo e con gli inglesi del West Ham. Una grande ricchezza, che mi ha portato tra l’altro, a conoscere e parlare cinque lingue: italiano, francese, inglese, tedesco e albanese.
Poi, per fortuna, arriva il Var e il cartellino rosso viene cancellato. Che successe?
Per prima cosa intervenne il gruppo sportivo di Ligornetto attraverso una raccolta firme che servì per ottenere una permesso temporaneo di ulteriori tre mesi. La svolta decisiva ci fu grazie al calcio. Ricordo che fui convocato per la selezione del Ticino. Con me c’era anche Simone Pedrazzini, figlio di Alex, consigliere di Stato e Granconsigliere ticinese. Fu lui che prese a cuore la mia situazione. Si attivò e finalmente alla mia famiglia fu riconosciuto il permesso B, quello permanente.
Un gran bel gol
Soprattutto perché riconosceva l’importanza dell’effettiva integrazione, rispetto ai criteri di altra natura, rendendo giustizia alla buona condotta dell’immigrato. Per noi ovviamente fu una festa ed un sollievo. I miei non hanno mai mancato di ringraziare il signor Pedrazzini che purtroppo è mancato nel 2021.
E lei poi ha indossato la maglia della Svizzera
Un gesto di riconoscenza verso il paese che mi ha adottato. Ho fatto un po’ fatica all’inizio, anche perché il clima attorno alla Nazionale era ancora quello della Old School, prima di aprirsi alla visione multietnica. Ho giocato più di ottanta partite con la divisa rossa della Svizzera. E tutto questo mi ha fatto sentire appagato.
Rimaniamo in tema calcistico: che bilancio fa della sua lunga carriera?
Molto positivo. Accanto alle prestazioni sportive e ai risultati, ho sempre avuto un obbiettivo superiore: la famiglia. Appena è stato possibile ho fatto in modo che i miei genitori smettessero di lavorare. Ho pensato a Valentina. Ma anche agli altri miei parenti. Sono stato il motore della rinascita e della ricostruzione.
Anche per questo ha continuato a giocare dopo il grave infortunio al ginocchio del marzo 2009?
A uno che è scappato dalla guerra, cosa può fare un ginocchio rotto? Ho stretto i denti. In tanti mi dicevano di smettere, ma io non ho mai mollato. Dal punto di vista sportivo, con il Napoli ho raggiunto il top, ma ho proseguito ancora perché, come detto, c’erano motivazioni più grandi a spingermi: la famiglia e gli affetti.
Hai citato il Napoli, l’ultima domanda la lasciamo per un suo pensiero sul terzo scudetto dei partenopei
Una cosa straordinaria, nel senso che il Napoli dopo il mercato d’estate per me non era il favorito. Mister Spalletti ha fatto un gran lavoro. E oggi il mio pensiero va a quei padri che fino allo scorso anno hanno narrato ai figli la storia dei successi passati e che adesso, prendendoli per mano, gli dicono: «Guarda: questo che vedi e che senti è tutto ciò che ti ho sempre raccontato».
La foto di apertura è di Ernesto Goglia per Agenzia Sintesi.
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