Il dato è eclatante: anno 2016, più di una persona immigrata in Italia su cinque vive in Lombardia. Il 22%, ovvero 1,1 su 5 milioni. Tanti, sì. Milano e provincia, inoltre, fanno la parte del leone. Ma c’è anche un altro aspetto: la stessa Milano, negli ultimi anni, è stata portata come esempio positivo in ogni indagine – anche a livello internazionale – riguardante la qualità della vita nelle grandi città. Nelle ora in cui fa clamore l’insediamento di 300 persone richiedenti asilo in una caserma cittadina riadattata allo scopo, con conseguente opposizione della Lega Nord ma anche con un movimento di accoglienza cittadino che è sceso in piazza con ottimi numeri, la domanda è ben chiara: c’è da preoccuparsi per l’elevato numero di stranieri? La risposta l’abbiamo chiesta a un lombardo noto in tutto il mondo: Giacomo Poretti, che raggiungiamo tra una parte di doppiaggio e l’altra (“manca veramente poco per finire, siamo al rush finale”) del nuovo film del celeberrimo trio di cui fa parte – Aldo, Giovanni e Giacomo – in uscita questo Natale 2016.
Giacomo Poretti, a livello nazionale gli stranieri sono l’8,3%, il Lombardia ben il 22%, ma la notizia non suscita troppo clamore fra la gente. Come mai?
D’istinto ti direi che a Milano e dintorni si vive meglio rispetto a gran parte del resto d’Italia, a livello di tenore di vita, e quindi chi emigra subisce il fascino di questo richiamo. Ma so che tale motivazione non basta, è un tema complesso, dove gli aspetti sociologici sono tanti. Una cosa è certa: nonostante si ritrovino voci favorevoli e contrarie a chi viene da fuori, i milanesi non scendono in piazza per protestare contro questi numeri così alti.
Perché, secondo te?
È fondamentale il supporto di chi lavora per tamponare le situazioni di disagio. Penso al volontariato, alla Caritas, a tutti gli altri enti che si occupano di marginalità e cittadinanza attiva: a Milano sono tanti, il risultato è una rete molto estesa che raggiunge la maggior parte delle comunità straniere presenti. So che in provincia è più difficile, mia madre abita in un paesino di 5mila abitanti, anche solo l’arrivo di 20 persone migranti in un colpo solo fa scalpore e per qualcuno è motivo di preoccupazione. Ma questa stessa preoccupazione si supera attraverso una sola cosa: la conoscenza diretta del “diverso”. Più si entra in contatto, più ci si capisce a vicenda e chi è inizialmente spaventato può trovare invece soprese in positivo incontrando nuove persone arrivate da lontano. Non è sempre facile questo percorso di conoscenza, ma è fondamentale e soprattutto basato su un aspetto che a volte non è così chiaro anche per chi accoglie: la reciprocità.
In che senso serve reciprocità?
Ti faccio l’esempio di quello che vedo ogni giorno sotto casa mia qui a Milano: di fronte a un supermercato stazionano da tempo due persone immigrate, molto probabilmente senza documenti in regola. Il primo, che vende alcune cose in un banchetto di fortuna, spesso porta i sacchetti della spesa alle persone anziane, le aiuta ad attraversare la strada, cerca molto il contatto con le persone del quartiere ed è conosciuto da tutti. Il secondo, taciturno, chiede la carità con un capello e scambia pochissime parole, non avendo quindi stabilito alcuna relazione con la gente. Ecco, capisci il senso di quello che sto per dire: provo un po’ di rabbia per il secondo, perché quella distanza che si è crea con gli altri porta diffidenza e paura, nonostante molte delle preoccupazioni, ribadisco, siano pura fantasia dato che chiunque arrivi oggi in Italia attraverso le frontiere viene identificato e controllato a livello medico più volte sia allo sbarco che nella prima accoglienza a Milano, per esempio. Ho fatto questo esempio, perché mi verrebbe da andare a dire al secondo: “porca miseria, datti da fare, così le cose migliorano”. Anzi, un giorno di questo lo faccio. È chiaro, comunque, che a fronte di singole situazioni, il ragionamento da fare è molto più ampio e riguarda il nostro concetto di accoglienza.
Come stiamo accogliendo?
Stiamo salvando migliaia di persone dalla morte in mare, questo è indubbio. Ma c’è un ragionamento da portare avanti fino in fondo, e lo dico, da cattolico, riferendomi proprio ai credenti in particolare: a volte la nostra attitudine è quella che dice “va bene, che trovino accoglienza, però poi basta che non mi diano fastidio, non mi abitino vicino”. Questo atteggiamento può essere pericoloso, perché lasciando queste persone a sé stesse, senza aiutarle a inserirsi in un tessuto sociale, le avvicina alle tentazioni di chi sfrutta i margini della società, ovvero a delinquenti che poi sfruttano l’immigrazione irregolare tramite il lavoro e non solo. Per questo penso che oggi la sfida dell’accoglienza deve avere un protagonista ben chiaro: la società civile, che ingaggiando una relazione con la persona immigrata la “attiva”, la stimola a fare qualcosa per la società in cui è inserita, una sorta di scambio per il bene reciproco.
Hai in mente un esempio?
Sì. Poco tempo fa passavo con i miei soci Aldo e Giovanni sulla Vigevanese, la strada che collega Vigevano a Milano, e sono rimasto a bocca aperta e amara dal vedere cumuli di plastica buttati al bordo della carreggiata e sui prati. Perché non chiedere di aiutare nella pulizia delle strade a persone immigrate di recente che oggi sono senza lavoro o, nel caso dei richiedenti asilo, in attesa di sapere se la propria domanda verrà accettata o meno? Aiuti la collettività, impari la lingua, entri in relazione con altre persone: può essere questa la chiave di svolta. So che da alcune parti sta già succedendo, il Terzo settore e anche alcuni Comuni si sono attivati in tal senso, questa pratica dovrebbe essere estesa ovunque. È utile e positivo per tutti.
Non pensi che qualcuno potrebbe vederlo come uno sfruttamento di manodopera a costo zero?
No, perché non c’è nessun obbligo e si basa su un patto vicendevole, riguardo a lavori che non creano disagio o rivalità con italiani disoccupati se è questo il punto. E, da un altro punto di vista, non sto assolutamente discriminando: mi baso sull’esperienza personale che ho avuto nel vivere 3 mesi in Svezia qualche anno fa. Anche solo per rimanere lì a lavorare dovevo dimostrare di seguire un corso di inglese almeno una volta alla settimana: non la reputo un’imposizione, ma un modo in cui uno Stato si prende cura di chi arriva nel proprio paese, nell’ottica di un’integrazione positiva che annulla la possibilità di un futuro disagio sociale. Se non fai questo, passo, e qui mi rivolgo al Governo italiano, “regali” molte persone alla malavita e al degrado, perdendo già in partenza lo scontro ideologico con chi, come per esempio Matteo Salvini, punta la propria azione proprio su questi temi.
Il problema della percezione distorta della popolazione riguardo al fenomeno dell’immigrazione, comunque, è drammatico: la media italiana pensa che in Italia gli immigrati siano il 30% del totale, quando invece sono meno del 9% considerando regolari (8,3%) e la stima degli irregolari. I richiedenti asilo sono addirittura lo 0,14%, ma succedono fatto come quelli di Gorino ferrarese. Come uscirne?
Innanzitutto non puntando il dito contro chi è diffidente contro l’accoglienza, perché non si va da nessuna parte: tolto chi lo fa per propaganda e consenso elettorale, molte persone hanno bisogno di comprendere la complessità del fenomeno, ma se vengono additate come stupide e razziste si chiuderanno sempre più in sé stesse e nelle loro percezioni sbagliate. Invece, per quanto riguarda una possibile soluzione concreta, torno a quanto detto prima: serve un patto sociale con queste persone che non arrivano in Italia per rubare il lavoro o altre invenzioni di fantasia, ma piuttosto per cercare situazioni di vita migliori. Un patto dove essi stesi si mettono in gioco, lasciando da parte vittimismi o atteggiamenti aggressivi che alcune volte emergono, ma dove la cittadinanza è pronta a fare di tutto per non marginalizzare queste persone, ovvero a non avere nulla a che fare con loro se non al momento di comprare ombrellini nei giorni di pioggia, per esempio. Dietro casa mia c’è un parchetto dove vado a correre al mattino presto, e lì trovo due dipendenti dell’Amsa che con scopa e biroccino – il carrettino – puliscono da foglie e sporcizia. Se uno di loro si ammala, l’altro non esce e il parco rimane sporco. Ebbene, lì vicino c’è una delle più grandi mense popolari di Milano, su cui ruotano 2500 persone: non si può trovare un modo per fare lavorare loro in caso di necessità, nell’ottica della reciprocità di cui sopra?
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