Siamo andati a incontrare Anna Gionfriddo, amministratrice delegata di ManpowerGroup, perché ci interessava capire come, da un gruppo che lavora con le risorse umane, col capitale umano, che maneggia cioè questa cosa delicatissima che sono le persone e le competenze, si arrivi a creare una fondazione di impresa. Human Age Institute, questo il nome della fondazione di ManpowerGroup, è un ente di Terzo settore, regolarmente iscritto al Runts (e che da gennaio fa parte anche del Comitato editoriale di VITA) e di cui è segretaria generale Stefania Grea. Di quella fondazione, Gionfriddo è anche presidente, annullando clamorosamente qualsiasi problema di “riporto”, come si dice in termini aziendalistici, fra l’ente filantropico e la società-madre. Siamo andati a incontrarla nella bella sede aziendale, in uno dei palazzi, elegantemente austeri, della Milano che sta sulla cerchia interna dei viali, fra Porta Venezia e Piazza Cinque Giornate.
Gionfriddo, laureata in Scienze politiche, guida la realtà italiana del Gruppo Manpower dal 2022, dopo un percorso nel commerciale e nelle risorse umane.
Come si arriva a creare una fondazione corporate? C’è, immagino, uno scopo aziendale, un purpose come si dice in gergo, cui poi si sente il bisogno di dare forme operativamente più adeguate.
Il purpose del nostro gruppo a livello mondiale, è quello che oggi abbiamo nella missione stessa nostra azienda, che è stata fondata negli Stati Uniti, 75 anni fa. È il concetto per cui crediamo che il lavoro, significativo e sostenibile, abbia il potere di cambiare il mondo. ManpowerGroup nasce nel secondo Dopoguerra, quando c’era questa necessità di far incontrare domanda e offerta di lavoro, in un momento in cui c’era uno shortage fortissimo, perché gli uomini erano prevalentemente occupati nelle operazioni militari in Europa. Questa finalità, questo corpus, ha aiutato moltissimo. Ha favorito, per esempio, l’occupazione femminile negli Stati Uniti, dando un’impronta indelebile come azienda inclusiva
E in Italia, come arriviamo?
Coerentemente con questo corpus, anche da noi, abbiamo scritto il primo statuto della nostra fondazione, usando un modello dei nostri colleghi spagnoli – anche se in Spagna la nostra fondazione ha una finalità diversa, perché risponde anche ad adempimenti e opportunità di legge.
Come l’avete fatto?
Qui in Italia abbiamo, invece, cercato di tratteggiare, leggendo veramente le specificità del mercato del lavoro, la stessa coerenza di messaggio, di mission, che abbiamo a livello globale. È accaduto 10 fa e, proprio per festeggiare questo decennale, abbiamo l’abbiamo trasformata in un ente di Terzo settore.
Ripartiamo dal corpus.
Allora il corpus è chiaro: il lavoro è il cuore della dignità dell’essere umano. Per noi è questa la mission importante. Quando diciamo che il lavoro ha il potere di cambiare il mondo, è perché pensiamo alla dignità del lavoro che, in qualche modo, ogni essere umano debba trovare nella propria esistenza, nella propria vita.
E che cosa vedete in Italia?
Credo fortissimamente all’eticità, ai valori e al servizio che il nostro gruppo deve fare e può fare, oggi, nel mercato del lavoro nel nostro Paese. Ci credo proprio perché il lavoro è la dignità dell’essere umano, quindi aiutare tutte le persone fragili, a trovare questa dignità nel lavoro, è il vero scopo della nostra fondazione. Partendo da questo aspetto, quindi proprio da che cosa sia per noi la fondazione, abbiamo riscritto lo statuto, aggiornandolo.
Ecco, entriamo nel merito
Parto dai lavoratori svantaggiati: è chiaro che noi ci siamo riferiti, per esempio ancora una volta a quella che è la storia della nostra azienda in Italia. Noi parliamo da 25 anni in Italia – VITA fa i 30 anni, noi 25 – per cui ne abbiamo viste di evoluzioni, di cambiamenti nel mercato del lavoro italiano.
Dalla Legge Treu in avanti, immagino.
Esatto, è arrivata un po’ prima, a fine ’97 ma è stato un cambiamento di secolo. Quando noi pensiamo ai svantaggiati, pensiamo in primis ai giovani, perché comunque il target di riferimento prevalente sono stati i giovani, e l’età media delle persone che lavorano con noi è sui 30 anni. Sono la fascia che mediamente avviamo nel mondo del lavoro. Ma proprio pensando ai giovani, in Italia, oggi, ci sono 2,5 milioni di Neet. E per fortuna stanno diminuendo ma durante il Covid erano più di 3 milioni. Gli svantaggiati, per noi, sono loro. Un fenomeno che accade, oltretutto, in un Paese che ha un enorme problema demografico, e pensare a una fascia così importante di popolazione che potrebbe essere popolazione attiva, ed è completamente al di fuori del mercato del lavoro, ci fa sentire l’urgenza di questa nostra responsabilità.
Cosa facciamo per questa popolazione?
Li aiutiamo con azioni molto concrete: siamo alla 16ma edizione di un programma dedicato ai Neet. Lo dico sempre, io sono veneta, si sente dal mio accento…
Di dove, Gionfriddo?
Vicentina, insomma, sono molto orientata all’execution, molto concreta. Facciamo, dicevo, cose chiare, semplici e fattive e concrete, che diano effettivamente un contributo, un riscontro.
Quanti ragazzi ci sono in questi programmi?
Sono oltre 230: li stiamo orientando formando, motivando, portando a bordo, aiutandoli a tornare in questo mondo reale. Perché purtroppo questi sono ragazzi che passano la giornata a fare “gran poco”. Allora spieghiamo loro, perché devono fare qualcosa, ma non “per far girare l’economia”, per aumentare i consumi, quanto per loro stessi, per le persone che sono, per la dignità dell’essere umano.
Come lavorate?
La forza nostra è quella di mettere attorno a un tavolo gli stakeholder diversi, in primis le aziende, perché poi di fatto è l’azienda finale che deve, con noi, credere in questi progetti e costruirli. Lo impegno nostro è costruire progetti attuali, reali rispetto a quelle che sono le richieste del mercato del lavoro. La 14ma edizione di questo progetto, che noi chiamiamo NeetOn, si svolge con due partner, che sono il nostro braccio destro, il nostro braccio sinistro: il gruppo Bosch e la Lablaw, uno studio legale giuslavoristico.
Che cosa insegnate loro?
Ogni edizione, ogni anno, ha dei contenuti formativi attuali, specifici del territorio presso il quale decidiamo di realizzarlo. L’anno scorso abbiamo fatto alcune edizioni formative a Napoli, legate a tutto il mondo, dell’e-commerce e del commercio retail, perché stavamo andando verso un picco stagionale in cui probabilmente ci sarebbe stato un incremento di profili, di richieste di profili legati alla vendita.
Altrove che cosa avete fatto?
A Catania siamo andati o nei distretti deve si produce l’ebike, dove c’è un territorio dove questo tipo di professionalità è maggiormente richiesto. Andiamo a spiegare ai ragazzi perché stiamo facendo un corso sulla manutenzione della bici elettrica, che tipo di competenze sono richieste. Insomma, aiutiamoli a ritornare in questo mondo reale e poi aiutiamoli a trovare un’occupazione. Le percentuali di occupati, in questi 14 anni, è stata intorno al 80%.
Perché il modello funziona?
Perché c’è una lettura del territorio e delle sue esigenze. Ci sono partner che, come noi, ci credono e quindi mettono contributi – ore/uomo da destinare all’insegnamento e alla formazione. Ad attività come l’Empowerment lab o Awarness journey, che sono due soluzioni importanti che la nostra fondazione mette in campo, le due tipologie di progettualità. La verità è che questi ragazzi devono essere mo-ti-va-ti.
Spieghiamo le due progettualità.
L’Empowerement Lab è dedicato ai nostri beneficiari che supportiamo sul piano di soft e creative skills e li prepariamo all’incontro con l’azienda simulando colloqui, informandoli sul mondo del lavoro; gli Awareness journey sono progetti dedicati alle aziende che desiderano aprirsi all’inclusione, andiamo loro a spiegare il viaggio dell’inclusione, il linguaggio lavorando su tutti i “gangli” dell’organizzazione.
Tornando ai ragazzi, lei li vede? Li incontra?
Vado sempre alla “prima aula”, faccio tutte le aperture assieme agli altri partner. E se non riesco fisicamente, mi collego in Teams, perché è importante guardare i volti di questi ragazzi: ti fa capire che, prima di tutto, hanno bisogno appunto di una pacca sulla spalla. Nella società, questo contesto magari non ce l’hanno più, non lo trovano più. Magari hanno storie difficili, magari han fatto scelte sbagliate. O sono stati sfortunati, perché può capitare anche questo, no?
Certamente. E che impressione le fanno?
Quando vedo questi ragazzi penso che vadano soprattutto aiutati, incoraggiati, anche ad avere un po’ di fiducia in loro stessi e quindi il nostro contributo, per esempio, è anche di questo tipo: spieghiamo come fare un colloquio, come avere un po’ più di fiducia in se stessi.
I segnali che arrivano tra l’altro, anche sulle fasce più piccole, dopo il Covid, sono importanti. Si parla di un disagio crescente. A questo proposito, Gionfriddo, vista la bontà del metodo, vista l’expertise che voi e i vostri partner riuscite a mettere, questa esperienza non dovrebbe insegnare qualcosa alle politiche attive del lavoro? Se c’è un modello buono, animato da esperti di realtà profit e non profit che si mettono in gioco, non sarebbe il caso di dargli sussidiariamente spazio?
Quello che a me piace di questi progetti è quello che sto vedendo ancora una volta nel mercato del lavoro è che stiamo facendo sistema: da due anni, avendo questa responsabilità, sto trovando linguaggio comune, una voglia di fare in tante realtà, in tante altre fondazioni. Il motivo per cui abbiamo scelto di investire e quindi di trasformarci in enti di Terzo settore è perché siamo in alcuni tavoli, su alcuni progetti con partenariati con tante altre fondazioni. Proprio perché c’è questa voglia di provare a dare un contributo diverso, allora ci sono anche tanti bandi, tante opportunità di finanziamento. I sistemi di politiche attive possono essere una modalità. Le politiche attive, in Italia, sono purtroppo molto regionalizzate, hanno una specifica molto regionale su progetti del genere è più semplice. Lavorare su bandi nazionali è più semplice.
Perché?
Perché noi ci rivolgiamo già a categorie fragili, quindi c’è già una complessità di partenza. Se andiamo anche ad aggiungere una complessità normativa o di specificità regionali, stiamo comunque aggiungendo complessità. E non avendo noi, oggi, una dimensione di fondazione così grossa, preferisco lavorare su pochi bandi di dimensione nazionale, con dei bei partenariati.
Crede nella collaborazione, insomma.
Credo che insieme si possa veramente fare molto, molto meglio e e appunto ed essere più incisivi. Ci rivolgiamo agli svantaggiati: Neet, donne, donne vittime di violenza, donne over 50, donne e magari che sono all’interno di percorsi di all’interno delle carceri.
Ecco, parliamo di donne. Vedo che la invitano spesso a parlare de “l’altra metà del cielo” del lavoro.
Sono usciti i dati Ocse ormai un paio di mesi fa: stanno migliorando quelli dell’occupazione femminile. Benissimo, ne siamo contenti, migliorano ormai già da un paio d’anni ma il tasso di occupazione femminile in Italia rimane veramente disastroso: siamo tornati indietro, siamo tra gli ultimi Paesi a livello europeo.
E lei, come donna e come manager? Immagino che avverta una responsabilità?
Sento proprio di dover restituire qualcosa. Sono una persona fortunata, e proprio perché sono arrivata a questa responsabilità sento di dover ridare indietro qualcosa. Quindi il tema dell’occupazione femminile lo sento moltissimo: sì, partecipo a dibattiti, lavoro in rete… E poi…
E poi?
Ho una figlia femmina, quindi dobbiamo dare alle nuove generazioni un po’ di futuro (sorride).
Ma da che parte si aggredisce un problema come questo che, sappiamo, ha purtroppo un portato antico, anche senza voler scomodare il patriarcato tanto di moda?
Si aggredisce innanzitutto togliendo certi bias, certi preconcetti sulle donne che, davvero, non sono proprio più attuali. Credo fortissimamente in un concetto di merito, indipendentemente dal genere, ma sono anche molto convinta che, oggi, la leadership femminile sia quella di cui c’è più bisogno nel sistema del lavoro italiano e penso anche a livello globale.
La leadership femminile è molto empatica, è molto collaborativa, inclusiva e, secondo me, ce n’è proprio bisogno, oggi, nel mondo del lavoro, a tutti i livelli.
Anna Gionfriddo, amministratrice delegata ManpowerGroup
Per quale motivo?
Perché la leadership femminile è molto empatica, è molto collaborativa, inclusiva e secondo me ce n’è proprio bisogno, oggi, nel mondo del lavoro, a tutti i livelli, e quindi è un buon momento, che potrebbe aiutare ad accelerare in questa direzione. Dico sempre che se c’è il merito, la disponibilità, un po’ di coraggio. Diamo un’opportunità oggi a questa leadership femminile di emergere. Incontro tantissime donne che hanno voglia di avere tanta responsabilità. Leggevo una bellissima ricerca sul fatto che le donne over 50, magari con figli grandi, abbiano oggi anche più voglia di investire sul mercato del lavoro rispetto alla stessa fascia di età degli uomini.
Lei ci crede?
Ci credo perché, per esempio, anche nel mio caso è così. Arrivi a una certa età in qualche modo hai figli grandi, hai anche più tempo. C’è questa voglia delle donne di emergere. Diamogliela, questa possibilità.
Gli ambienti di lavoro sono diventati molto complicati. Sarà stato il Covid ma ora abbiamo questi grandi fenomeni problematici: le grandi dimissioni, il quite quitting, la tossicità delle relazioni. Forse, in questo momento storico del lavoro, innestare più leader femminili potrebbe aiutare a creare climi diversi e, negli anni, a diventare più inclusivi?
Quando io penso alla leadership femminile, penso proprio a un modo di guidare più inclusivo, più collaborativo, meno gerarchico, più legato al merito. E le nostre generazioni lo stanno chiedendo. Ed emerge anche dalla Gen Alpha, che sta per arrivare. E allora se noi manager…
…se voi manager?
Se noi manager non leggiamo questo dato e non lo comprendiamo, per carità, avremo delle aziende che vanno avanti, ma non le renderemo consistenti per il futuro. Così non stiamo tratteggiando un futuro per le nostre aziende. Allora se queste generazioni chiedono leadership femminile, può essere un buon momento, una congiuntura che può favorire.
Che cosa ci vuole?
Ci vuole un po’ di coraggio, ci vogliono volontà, razionalità, oggettività. Mi trovo in tavoli con un sacco di donne che hanno responsabilità: bravissime, competenti, preparate. Stanno facendo bene, tanto quanto il predecessore maschio o il collega maschio. Bisogna superare, ripeto, certi preconcetti che sono abbastanza insiti, anche in noi donne.
Invece della “sorellanza” spesso invocata. Lei ci crede, cioè, che ci possa essere un’alleanza operativa fra donne?
In ManpowerGroup ho un leadership team composto al 50% di donne e 50 di uomini. L’ho voluto fortissimamente sì, ma in maniera molto razionale, molto lucida. Nessuna delle persone che lavorano con me è stata scelta perché uomo o perché donna ma perché preparata e capace, perché lo meritava. E poi ho posto un’attenzione ad avere il giusto gender balance. Gestendo un’azienda con più di 2mila dipendenti, credo che ci sia un leadership team equilibrato. Un bel modo di collaborare, un bel modo di dirsi le cose, un bel modo di ragionare insieme. Molto diverso rispetto alla leadership che c’era in questa azienda quando io sono entrata, quasi 10 anni fa, ma è una normale evoluzione. Non sono strappi. È una normale evoluzione di un’organizzazione che sicuramente ha questa impostazione a livello di casa madre, perché essendo noi americani su questi temi siamo molto attenti.
Ecco, gender balance sta dentro anche ai criteri Esg, fa parte della cosiddetta “s” interna. Voi siete un’azienda americana e quindi avete una sensibilità marcata su questo?
La “s” di Esg per noi è legata al concetto di sostenibilità e di sociale. Sono le tematiche della fondazione. Ancora di più mentre vediamo che il mercato del lavoro italiano produce ancora situazioni tragiche come quelle di Latina, delle settimane scorse. La fondazione è l’incubatore con il quale magari noi entriamo su certi tavoli e poi li scaliamo più a livello di gruppo. Piace pensare a Human Age Institute come un laboratorio con cui leggiamo trend, guardiamo andamenti e facciamo anche quei piccoli pilot su cui capiamo se possiamo spingere di più, investire di più, scalare di più oppure se è meglio fermarsi.
Che cosa ci insegna la vicenda, tragica, di Satnam Singh, il bracciante indiano lasciato morire dopo un infortunio a Latina?
Che c’è ancora tanta poca conoscenza, oggi, e tanta poca voglia di affrontare e risolvere queste situazioni. Perché il modo di risolvere c’è: il nostro è uno dei paesi che regolamenta meglio tutto il lavoro flessibile in Europa e siamo un paese in cui tutta la legislazione del lavoro è molto, è molto definita, è molto ben regolamentata. Usiamola, questa legislazione, perché c’è e deve tutelare le persone che lavorano.
Senta, chiudiamo col suo privato: che tipo di persona è Anna Gionfriddo?
Normalissima: una donna, una madre. Il mio hobby? È il mio lavoro. Nel tempo libero leggo molto, al femminile. Ora so rileggendo Virginia Wolf.
Ho saputo che da giovane è stata scout. Quel concetto di restituzione, di cui parlava prima, viene da qui?
Sicuramente dai miei anni scout, perché questa è la cultura scout. Mia madre faceva parte dell’Agesci. E così anche io. Ho lasciato quando sono entrata nel mondo dell’università ma quella è una cultura che resta.
Nelle foto, dell’ufficio stampa di ManpowerGroup, le attività formative rivolte ai Neet e ai soggetti svantaggiati realizzate dalla Fondazione Human Age Institute.
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