#CentimetriDiComunità

Pistoia, la filantropia ha un cervello sociale

di Giampaolo Cerri

Il presidente di Fondazione Caript, Lorenzo Zogheri, notaio, da giovane scelse di fare il servizio civile con la Caritas al campo Rom della città toscana. Oggi guida una realtà che, nel 2022, ha erogato 13,6 milioni a progetti di pubblica utilità. Inizia da Pistoia il viaggio di VITA per raccontare l'attuale ruolo delle fondazioni di origine bancarie nelle città medio-piccole

È certamente uno dei presidenti più “sociali” del mondo delle fondazioni di origine bancaria, Lorenzo Zogheri. Classe 1967 notaio in Pistoia, come si dice nell’antica professione, presidente dal maggio del 2020 ma con un mandato da consigliere alle spalle, Zogheri ha infatti svolto il servizio civile alla Caritas pistoiese. È l’uomo giusto per cominciare il nostro viaggio nelle piccole fondazioni o dai piccoli territori. Non che Fondazione Caript (un tempo Cassa di risparmio di Pistoia e Pescia) sia una cenerentola del mondo che fa capo all’Associazione Casse Risparmio Italiane – Acri. Anzi, col suo 0,18% del capitale di Intesa Sanpaolo, i suoi 13,6 milioni di erogazioni nel 2022, la realtà toscana si guadagna sul campo un profilo di grande rispettabilità. Del resto basta guardare allo spessore di una manifestazione culturale come i Dialoghi di Pistoia, che ogni anno la Fondazione organizza con il Comune, o il bellissimo museo di arte contemporanea che ospita il pian terreno di Palazzo de’ Rossi, la sede dell’ente stesso, o le mostre che organizza nel dirimpettaio Palazzo Buontalenti, dove questa estate c’era un bellissimo Altan (Cipputi e la Pimpa).

Zogheri, come opera la Fondazione che lei presiede?

Nel nostro territorio la Fondazione ha una rilevanza notevole, anche perché il rapporto fra il nostro patrimonio e il numero degli abitanti è proporzionalmente molto elevato: ogni abitante può contare su erogazioni consistenti. Nei 30 anni abbiamo erogato 280 milioni di euro, tenendo conto che la nostra area vivono 300mila persone.

Un dato lusinghiero…

Sì ma oltre questo dato erogativo, c’è sempre stata un’azione di sostegno. Prima nella parte attinente al patrimonio culturale, artistico cui nel tempo si sono accompagnati interventi in ambito sociale, come quello a sostegno di un’associazione che si occupava di persone svantaggiate.

Lorenzo Zogheri, presidente Fondazione Caript

Quella che in tempo era l’Associazione italiana assistenza spastici – Aias.

Esatto, che oggi è la Fondazione Maic. Poi la Fondazione ha fatto interventi propri, come la realizzazione della Casa di Gello, una struttura restaurata e offerta in comodato a famiglie con figli con sindrome dello spettro autistico. A questo, nel corso del tempo, abbiamo accompagnato molti progetti.

Come, presidente?

Attraverso una società strumentale dedicata alla formazione, Uniser, che si occupa di sviluppare le competenze dei giovani, e un’altra che si occupa di gestire un parco alla periferia della città, di circa 25 ettari, Gea. Un intervento importante quest’ultimo: prima ci siamo impegnati con un intervento di recupero – erano anni che era in stato di abbandono – poi l’abbiamo trasformato in un centro di innovazione che vuol diventare strumento di collegamento fra le imprese del territorio e il mondo universitario.

La presenza della ricerca è spesso un booster di sviluppo…

Un’esigenza che abbiamo presente: a Pistoia non ci sono università né centri di ricerca e di specializzazione, quindi, creare realtà come queste era importante per le aziende e la loro competitività. Abbiamo pensato un luogo che facilitasse l’innovazione dei processi e dei prodotti di questo tessuto produttivo. Questo è quello che vorremmo fare nel parco, oltre che naturalmente avviare, facilitare, iniziative nuove di imprese che possano concentrarsi e valorizzare gli aspetti peculiari del territorio, dal vivaismo alla meccanica. Siamo in un periodo di transizione: verde e mobilità dolce, non impattante, possono essere strumenti di sviluppo importante.

Come operate, anche voi con un piano triennale?

Un documento programmatico triennale che delinea le linee di sviluppo: volontariato, territorio, ricerca e innovazione, formazione, ambiente e cultura. In ciascuno di questi ambiti, ogni tre anni, stabiliamo i budget, definendo anche linee di intervento e strumenti. L’applicazione si rivede con cadenza annuale.

Com’è qui il rapporto col Terzo settore? Altrove, soprattutto nella prima fase, le associazioni hanno vissuto il mondo delle fondazioni come una grande opportunità di finanziamento. Mi pare che ora le cose stiano cambiando.

Nel corso di questi 30 anni, c’è stata una prima fase in cui, chiaramente, la modalità con cui ci si rivolgeva alle fondazioni era quella, per così dire, del bancomat. Una fase che, mi lasci dire, non valuto neppure troppo negativamente.

Perché?

Perché ha mantenuto vivo, in una certa fase, tutto un tessuto associativo altrimenti in difficoltà. Da qualche anno però la Fondazione ha cambiato modalità di intervento, passando ai bandi. Inizialmente ci si riproponeva solo l’adozione di criteri di trasparenza e di merito, perché questo ci consentiva di allocare le risorse in un modo più orientato alla qualità dei progetti. Ora siamo passati a bandi tematici, fissando obiettivi da far raggiungere ai partecipanti: coi nostri finanziamenti vogliamo cioè indirizzare la progettualità verso aree e risultati specifici. A questo si accompagna, anche come criterio di preferenza, privilegiare progetti che riuniscono più realtà, sotto forma di rete e partenariato.

Con quale obiettivo?

L’idea è quella di favorire progettualità che possano essere innovative, creando precedenti che, a loro volta, generano, da parte del pubblico, tipicamente lo Stato e gli enti locali, la stabilizzazione delle azioni prodotte, perché si dimostrano particolarmente performanti.

Cosa che è avvenuta?

Non sempre, perché tutti abbiamo dovuto fare i conti con le difficoltà del pubblico, legate alla mancanza di risorse e al fatto che ogni territorio ha bisogni specifici, mentre Stato e Regioni operano più per linee generali. Linee tipiche di un welfare territoriale troppo generalista e soprattutto legato a logiche riparative – perché interviene quando le crisi sono conclamate – che impediscono la stabilizzazione delle buone pratiche uscite “vincenti” dall’esperienza dei bandi.

E allora, che cosa avete fatto?

Abbiamo creato uno strumento come la Fondazione di comunità, che abbiamo costituito insieme ad altre realtà del Terzo settore del territorio, interpretandolo in una maniera precisa.

Vale a dire?

Questa realtà non deve essere né un ente strumentale della Fondazione né una realtà filantropica. Deve essere piuttosto uno strumento con il quale, relativamente a obiettivi ben individuati, che sono i bisogni del nostro territorio – con un processo di analisi e costituendo un comitato scientifico ad hoc – una volta individuati, gli enti collaborano fra loro nel progettare prima e attuare poi gli interventi che vanno a incidere bisogni. Perché con i bandi si verificava spesso la competizione fra gli enti non profit. Tant’è vero…

Tant’è vero?

Tant’è vero che il nostro bando principale per il sociale era dotato di 600mila euro: ora l’abbiamo suddiviso in 200mila euro, con modalità tradizionale, con progetti specifici, mentre gli altri 400mila, li abbiamo affidati alla Fondazione di comunità. Oltre a questo, ci siamo impegnati a mettere a disposizione altre risorse di cofinanziamento che possano servire alla Fondazione di Comunità per concorrere ad altri bandi specifici, come quelli realizzati dall’impresa sociale “Con i bambini”. In questo modo concentriamo risorse e interventi sul territorio.

Il tema della selezione dei progetti è, in Italia, un tema molto dibattuto: c’è un po’ dappertutto una sensibilità al tema ma molte soluzioni operative diverse. Voi come vi regolate?

Ci siamo sempre mossi con commissioni dedicate, realizzate al nostro interno, anche perché il mondo del Terzo Settore è ben rappresentato nella nostra governance: il nostro Consiglio generale, composto da 24 membri, ha al proprio interno figure di notevole esperienza. E poi ci sono due membri eletti direttamente dalle associazioni.

Ora vi muovete verso la valutazione di impatto?

Sì abbiamo fatto due cose: abbiamo incontrato a Padova, Sinloc Spa, una realtà specificatamente dedicata a questi temi, come consulente del documento programmatico per le linee del Terzo settore. Abbiamo fatto con loro, una ricerca del nostro tessuto provinciale, da cui è emersa la necessità di contrastare la dispersione scolastica e poi, dal punto di vista delle realtà del Terzo Settore, di insistere sui cosiddetti processi di capacitazione, cioè dare strumenti per accrescere competenze, da un punto di vista organizzativo, per intercettare altri bandi, per stimolare a confrontarsi con linee di finanziamento europee o comunque esterne al territorio. Da questo sono derivati molti interventi, come il bando Socialmente giovani, che ha avvicinato tanti giovani al mondo del sociale, stimolando partecipazione, attività, elaborando e realizzando progettualità col supporto di enti del Terzo Settore, con i quali abbiamo favorito il collegamento. Abbiamo anche svolto un corso per una sessantina di associazioni, su vari temi. In ultimo, in occasione del trentennale, abbiamo svolto un’indagine sul nostro impatto di Fondazione sul territorio. Oggi lo facciamo regolarmente, bando per bando.

Il nostro ruolo è promuovere lo sviluppo. Non vogliamo certo invadere le sfere di competenza della politica, del pubblico, di quanti sono stati eletti dai cittadini

Lorenzo Zogheri

Nei 30 anni avete erogato una cifra importante. Siete una grande realtà economica.

Qualche anno fa, nel pre-Covid, svolgemmo un’indagine, affidata a Demopolis, dalla quale emerse che la percezione del nostro ente era molto positiva. Al tempo stesso, veniva caricata la Fondazione di un ruolo di sviluppo del territorio. Ruolo che non sarebbe proprio delle fondazioni, che restano enti privati che non possono essere titolari di indicazioni di politiche mentre la legge ci richiama alla promozione dello sviluppo: dobbiamo cioè crearne i presupposti. Questo è il nostro ruolo e non vogliamo certo invadere le sfere di competenza della politica, del pubblico, di quanti sono stati eletti dai cittadini. I presupposti devono concentrarsi sull’infrastrutturazione materiale e immateriale: i legami comunitari, le competenze dei giovani, la formazione – tutto quanto è presupposto per parlare di sviluppo.

È un mestiere difficile collaborare e confrontarsi con gli altri attori del territorio?

L’essere Pistoia non una città enorme aiuta: le relazioni personali concorrono a rendere meno difficile questo confronto. Devo dire che l’autorevolezza della Fondazione ha contribuito, grazie ovviamente a chi mi ha preceduto. Aiuta nei rapporti ma anche laddove può diventare lo strumento per elaborare politiche di sistema e di territorio, come un’iniziativa che abbiamo, legata al Pnrr, vale a dire il Piano strategico di sviluppo del territorio provinciale di Pistoia, dove siamo intervenuti per sostenere la creazione di un tavolo che, avvalendosi della consulenza di Sinloc, è chiamato a sviluppare progettualità di ambito territorialee a intercettare finanziamenti per realizzarle. In questo ambito ci stiamo concentrando sui progetti di comunità energetiche.

Un tema molto caro ai nostri lettori. Ce ne parla?

È importante perché è uno strumento che può servire a contrastare la povertà energetica e, nel contempo, a rinsaldare una visione comunitaria. Abbiamo sostenuto i costi per quattro progetti, tre dei quali sono arrivati già alla fattibilità preventiva, mentre a breve toccherà anche al quarto. Sono molto promettenti e ciò che possono generare, anche da un punto di vista finanziario, sarà reinvestito in tante iniziative di carattere sociale. Anche la comunità energetica si inserisce in un disegno di infrastrutturazione cui accennavo prima.

Spieghiamolo bene.

Sì perché c’è da incontrarsi, da decidere di produrre energia, come farlo, cosa fare degli incentivi prodotti: tutto ciò presuppone il rafforzamento di relazioni importanti fra le varie realtà.

Presidente, come vede la filantropia in Italia? Ciclicamente in questo Paese, si pensa di “sbarazzarsi” delle fondazioni di origine bancaria: nel 2001, Giulio Tremonti, ministro del Berlusconi 2, lo mise in agenda. Ricordo che Riccardo Bonacina, direttore di allora, mi spedì a Treviso, a intervistare l’avvocato Dino De Poli, buonanima, che teorizzava la resistenza… Non temete che quella storia si possa ripetere.

(Ride) Noi siamo usciti dalle banche, abbiamo solo un investimento in Intesa Sanpaolo, dello 0,18%, che ovviamente difendiamo ma non credo che ci rimetteremo mai – intendo le fondazioni in genere – a fare le azioniste attive. Le vedo su un altro terreno.

E cioè?

Il mio concetto di filantropia è lontano dalla beneficenza vecchio stile, quella che facevano le vecchie Casse. Oggi vedo le fondazioni come agenti ben piantati sui territori di appartenenza, dove favoriscono la formazione di comunità coese, in cui nessuno si senta escluso. Penso a realtà che favoriscono lo sviluppo di questi legami, di queste relazioni. Enti che lavorano per lo sviluppo sociale e culturale del proprio territorio, perché da questo non si può prescindere anche quando si punta allo sviluppo economico. Un territorio non si sviluppa economicamente, se non a partire dalla propria identità, cosciente dei propri riferimenti.

E lei dice che un modello così può tenere anche attraverso i marosi della politica.

Beh certamente. E comunque il nostro futuro lo vedo così. Poi, per carità, ci può essere spazio agli interventi di missione sui territori, i cosiddetti mission related: li portiamo avanti anche noi, nel social housing per esempio, investendoci patrimonio, in attesa anche di ritorni finanziari, ovviamente minori di quelli borsistici eventuali.

Veniamo un po’ di biografia, presidente. Lei ha fatto il servizio civile alla Parrocchia di Vicofaro, quella resa famosa da don Massimo Biancalani, il sacerdote che ha realizzato forme ampie di accoglienza che gli hanno attirato spesso strali politici nazionali.

La parrocchia è quella ma ovviamente don Biancalani non c’era ancora, perché parliamo di 30 anni fa, anche in questo caso (sorride). L’esperienza di servizio civile in Caritas fu importantissima. Nasceva da una predisposizione personale per quel tipo di approccio ai problemi.

Il viaggio nelle fondazione di origine
bancarie diventerà un podocast

Che faceva?

Io mi occupavo di un progetto di scolarizzazione dei bambini Rom di Pistoia. Un vero e proprio doposcuola. Ero già laureato in giurisprudenza e, al mattino, lavoravo in ufficio alla Caritas mentre, da mezzogiorno in poi, seguivo con altri un gruppo di bambini che frequentavano le scuole elementari: li andavamo a prendere in pulmino, si pranzava insieme in parrocchia, si rimetteva tutto a posto e, nel pomeriggio, si facevano i compiti con loro e si giocava. Si riportavano a sera al campo nomadi.

Che cosa ricorda?

Una bellissima esperienza, le famiglie ci furono molto grate. Alla fine dell’anno scolastico, ci offrirono un bellissimo pranzo Rom e Sinti. Alcuni di questi bambini si sono concretamente inseriti nella società, grazie a quell’esperienza. Proprio l’altro giorno mi è capitato di preparare un atto – io faccio il notaio – in cui ho letto un nome che mi diceva qualcosa.

Non mi dica che era un ex-bambino di quegli anni…

Esatto! Me l’ha ricordato lui stesso, quando ci siamo visti per la firma: «Noi ci siamo conosciuti, dottore». Una persona che ha fatto la sua strada: lavora come piazzaiolo. Mi piace pensare d’aver contributo in qualche modo, coi miei compagni di servizio civile. Poi la famiglia, la professione mi hanno preso tempo, il contatto col sociale l’avevo mantenuto facendo il notaio, occupandomi degli statuti di tante organizzazioni di Terzo settore.

Che cosa le piace leggere?

Leggo saggi in prevalenza, che abbiano un focus sul presente.

L’ultimo letto?

Sinistra di Aldo Schiavone (editore).

Si è laureato con lui?

No ma ci ho fatto il primo esame: Diritto romano. E poi, un altro libro letto di recente è Mitezza di Eugenio Borgna (Einaudi): parla delle virtù cosiddette deboli, come le chiamava Norberto Bobbio. Che poi deboli non sono.


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Che fa nel tempo libero, presidente?

Mi occupo di radunare i figli che ora studiano fuori Pistoia. Sì, la famiglia mi prende molto.

L’angolo della sua città che ama di più?

Piazza del Duomo, una piazza vissuta: Comune, chiesa, tribunale, un luogo che davvero incarna la città.

Puntata n. 1

In apertura, nella foto di Lorenzo Marianeschi, una delle attività ludico-didattiche collegate alla mostra di Altan. Infografica di Matteo Riva/Gaia Pege

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