In Spagna lo chiamano “altramuz”. In Colombia “chocho”. Nella zona centro-sud del Purù “tarhui”; nella zona settentrionale, invece, Tarwi. Tutti sostantivi che stanno ad indicare il “Lupinus mutabilis”; una di quelle coltivazioni alimentari che sono state utilizzate nella ecoregione andina per migliaia di anni.
Sono stati trovati resti di semi nelle tombe della civiltà Nazca (dal 100 al 500 a.C.) e nella costa desertica del Perù (Antunez de Mayolo, 1982). Nel sud del Perù, le pitture che raffigurano il tarwi in vasi cerimoniali della cultura Tiahuanaco (500-1000 d.C.) ne attestano un’ampia diffusione.
Dallo scorso 24 febbraio un gruppo di contadini e contadine peruviani, della provincia di Hualyas, si è impegnato a far “rivivere” questo “lupino andino”. Lo sviluppo locale nella Provincia di Huaylas è legato a un’agricoltura di sussistenza per l’85% della popolazione. I piccoli produttori residenti in caserios appoggiati sui pendii delle montagne, lavorano in pendenza la terra che assicura loro pochi prodotti.
Le filiere che si possono valorizzare sono scarse a causa della frontiera agricola e dell’impossibilità di meccanizzare le secolari pratiche agricole. In forte discontinuità, il tarwi o lupino andino si presta a una coltivazione a tutta quota dai 2500 ai 5000 metri essendo resiliente e facilmente coltivabile. Così, Fondazione Albero della Vita, ha realizzato uno studio di mercato e pensato ad un progetto, con il Tarwi protagonista, e poi ne è diventata capofila.
I derivati del tarwi e il tarwi organico sono potenzialmente e altamente competitivi sul mercato. Ma in quella regione così povera tutto diventa più complesso e mancano sia le strutture che l’organizzazione.
«Ma solo un ’unità di trasformazione del prodotto permetterebbe di eliminare gli alcaloidi dal grano, processo indispensabile per il suo consumo che ne aumenterebbe conseguentemente l’offerta e la vendita sul mercato. Un’ulteriore debolezza della filiera», spiega a Vita.it Idoia Ortiz – Desk officer America Latina e Caraibi della Fondazione, «è legata alla scarso associativismo dei produttori che implica l’impossibilità di ragionare su un modello di produzione e di business che includa la sostenibilità e l’inclusività. La donna non si emancipa perché manca una visione più ampia di mercato che generi ricchezza, consolidi la sua posizione e ribalti le dinamiche di potere. Essa è continuamente esclusa dai processi decisionali comunitari».
La Fondazione ha così selezionato i 500 contadini locali (tra cui 330 uomini e 170 donne tra i 14 e i 50 anni) ed ognuno di loro ha messo a disposizione mezzo ettaro del suo terreno. «Il criterio principale della selezione sono stati i bambini – focus di tutte le nostre missioni», dice Idoia. «Abbiamo scelto famiglie di contadini; ci siamo soffermate soprattutto su quelle che avevano bambini malnutriti a causa della povertà». Considerate che il tasso di malnutrizione in quella Provincia è oltre il 40%. «Tutto il progetto», continua Idoia, «durerà 30 mesi; la speranza è che alla fine diventi del tutto autosostenibile».
Ma come funziona?
Gli enti promotori mettono a disposizione i semi del Tarwin e li danno agli agricoltori coinvolti, che a loro volta, appunto, si impegnano a piantarli.
«Da subito è già partita», spiega Idoia, «la costruzione di una fabbrica dove il lupino sarà lavorato. La progettazione tecnica prevede l’installazione di fonti energetiche rinnovabili. Un segnale di attenzione verso il tema ambientale, a corollario di un impegno a tutela dell’ambiente e delle biodiversità. La scelta organica si riflette nell’uso di fertilizzanti biologici, nella rotazione delle culture e pratiche agricole sostenibili».
Ad un certo punto del progetto, si busserà alla porta di ogni agricoltore; lui consegnerà il suo raccolto che sarà trasportato e lavorato in fabbrica. Dopo commercializzato nelle diverse fiere locali e nazionali. Il ricavato sarà ridistribuito ai contadini che hanno preso pate al progetto.
Qual è l’obiettivo del progetto?
«La riduzione della povertà e dell’esclusione sociale di gruppi contadini marginalizzati del Perù», dice Idoia. «Ed ancora», aggiunge, «la creazione di un’unita di trasformazione del tarwi nella Provincia di Huaylas per il rafforzamento della filiera in modo inclusivo e sostenibile».
Inoltre «La sostenibilità complessiva dell’iniziativa è garantita dalle attività di promozione in Perù e in Italia e dagli accordi commerciali che permettono al progetto di concentrarsi positivamente sul lato della domanda di tarwi e dei suoi derivati. La strategia di vendita assicura che durante il progetto sarà possibile lavorare per l’adozione di un modello economico di business economicamente sostenibile, concertato e condiviso tra MPH, FADV e i piccoli produttori di tarwi organico»
Partner del progetto
Fondazione L’Albero della Vita Onlus – FADV. Red de Acción en Agricoltura Alternativa-RAAA; SLOW FOOD; Ministero de Agricoltura y Riego-MINAG; Fondo Italo Peruano- FIP; Sociedad Peruana de Gatronomia-APEGA; Sierra Espertadora-SIEX, Camera di Commercio Italiana – Lima; Escuela Mayor de Gestión Municipal-EMGM; Organic Sierra y Selva; Promos – Camera di Commercio di Milano Verso l’impresa sociale: rafforzamento della filiera del tarwi organico nella Provincia di Huaylas – Perù.
Perù, il "lupino" che rimette in moto l'economia
Testi di Anna Spena
Foto di Fondazione l'Albero della Vita
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