Tra i molti aspetti che il turismo impatta o ricopre, l’aspetto etico ha, oggi, una rilevanza estrema. Responsabilità, sostenibilità, equità ma anche il problema – non di poco conto, lo si è visto nei recenti dibattiti sui beni culturali – di come conciliare, ammesso siano conciliabili, valorizzazione commerciale e tutela.
Corrado Del Bò insegna Filosofia del diritto all’Università degli Studi di Milano e Etica e filosofia al corso di laurea in Scienze del turismo presso la Fondazione Campus, a Lucca. Da pochi giorni, è in libreria il suo ultimo lavoro, Etica del turismo. Responsabilità, sostenibilità, equità (Carocci, pagine 143, euro 15).
Si parla molto di turismo etico, ma che cosa sia e a quali condizioni sia dia un’etica del turismo è un tema spesso eluso…
Quando si usano l’aggettivo “etico” o l’espressione “turismo etico”, spesso si fa riferimento a un turismo di buoni sentimenti. In realtà, l’etica è anche una materia filosofica: una materia in cui si cerca di fissare i concetti, precisare i contorni dei problemi, offrire delle soluzioni ragionevoli e, soprattutto, giustificate, elaborando quindi argomenti a sostegno o contro certe posizioni. L’operazione che conduco nel mio libro è di quest’ultimo tipo: dare una struttura teorica a questioni legate al turismo che, nel sentire comune, si riducono alla questione dell’essere buoni, magari più nelle prediche che coi fatti.
Discernere e motivare…
Infatti, l’idea dell’etica del turismo è cercare di isolare i problemi che sono pertinenti per l’ambito turistico. e poi rifletterci sopra, sviluppando degli argomenti secondo il gioco “io argomento una tesi, tu obietti, io contro-obietto”.Alcuni problemi, magari, non valgono sono nell’ambito turistico, ma l’ambito turistico li esprime con migliore chiarezza rispetto ad altri ambiti e le conseguenze teoriche risultano per questo ancora più interessanti.
Proporsi di fare la cosa giusta non basta, quindi?
L’intenzione di agire bene può rivelarsi insufficiente, se non controproducente, come del resto recita il noto detto “di buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno”. Nemmeno basta procedere per intuizioni e in maniera estemporanea. L’estemporaneità, beninteso, è comprensibile quando siamo persone che agiscono davanti a situazioni moralmente complesse che sorgono improvvisamente o inaspettatamente.Diventa però meno giustificabile quando su queste cose siamo chiamati a riflettere come studiosi. Allora qui serve un surplus di impegno per cercare di capire che cosa va o non va in certicomportamenti, che possono essere dei singoli turisti ma molto spesso sono delle istituzioni – in senso ampio – che operano nel settore turistico.
Lei ha accennato a una riflessione professionale sull’etica. Non c’è il rischio di delegare anche in questo campo, come già in altri abbiamo fatto?
Io non sono un filosofo morale, mi occupo di filosofia del diritto e, in particolare, di valutazione etica delle scelte pubbliche. Il mio osservatorio ha, quindi, un’ottica un po’ deformata da questa rilevanza delle regole pubbliche. Partendo da questa doverosa premessa, mi sono interrogato molto su questo punto: io sono davvero, o aspiro a essere, un “esperto morale”, come sosteneva Peter Singer in un breve articolo di parecchi anni fa? Io credo che Singer abbiafondamentalmente ragione, perché chi fa questo tipo di mestiere ha, in qualche modo, una prospettiva sul da farsi non dico migliore, ma comunque più solida rispetto al pubblico inteso in senso ampio. Capiamoci: tutti, come persone, siamo chiamati a compiere scelte morali e compiamo scelte morali sulla base delle nostre convinzioni, a volte azzeccandoci e a volte sbagliando. Ma quando dobbiamo pensare a come progettare le regole, allora diventa importante avere persone che su queste cose riflettono professionalmente – in base ai loro studi, ricorrendo a un metodo, utilizzando le proprie competenze argomentative ecc.. Il che non significa invocare la dittatura dei moralisti, che prescrivono agli altri quello che devono o non devono fare. I professionisti dell’etica sonopiuttosto persone in grado di inquadrare i problemi dentro una cornice teorica e, attraverso il metodo che hanno acquisito, di offrire una risposta, se c’è, o anche presentare la pluralità di risposte possibili, evidenziando i costi e i benefici di ciascuna scelta.
Quali sono i problemi etici più rilevanti nel turismo?
Sono tanti e la loro individuazione dipende, in buona parte, dalla sensibilità di chi li affronta, come studioso o come persona comune. Partirei però osservando, prima di tutto, chec’è una precomprensione favorevole al turismo e al turista, perché il “turismo avvicina popoli”, “apre la mente di chi viaggia” e via discorrendo, dimenticando che il turismo è a tutti gli effetti un’industria pesante. Il turismo muove enormi quantità di derrate alimentari e di persone per il mondo, incrementa dunque il traffico aereo, e questo contribuisce a incrementare anche le emissioni di CO2 nell’ambiente. Il turismo ha un impatto e l’impatto può essere dannoso per l’ambiente.
C’è poi il problema dell’impatto del comportamento dei turisti, comportamento che non è percepito come “impattante”: è il problema racchiuso nella vecchia massima “l’etica non va in vacanza”…
L’esempio classico è il pugno di sabbia che il turista si portava a casa dalla spiaggia rosa di Budelli resa celebre da un film di Michelangelo Antonioni del 1964. Di pugno in pugno, la spiaggia stava sparendo e hanno dovuto chiuderla. “Turismo responsabile” – l’etichetta con cui normalmente si segnala l’esigenza di “più etica” – significa essere consapevoli degli effetti del proprio agire ed essere disposti a modificarliquando sono dannosi a livello ambientale.
Già alcuni di questi problemi pongono capo al problema della sostenibilità, altro capitolo della sua Etica del turismo…
Quello di sostenibilità è un concetto che include aspetti non solamente ambientali, ma anche economici, sociali, culturali. E, a ben vedere, uno dei grandi problemi del turismo, il sovraffollamento, intercetta tutti questi aspetti, come dimostra il caso di Torremolinos, una città spagnola sulla Costa del Sol, che ha dato il nome a un effetto perverso più volte citato nella letteratura specialistica sull’argomento.
In sostanza, l’effetto Torremolinos descrive gli effetti perversi della saturazione…
Con questa espressione si descrive il fenomeno per cui, per qualche ragione, una cittadina diventa improvvisamente celebre, poi affollata, infine sovraffollata e alla fine si spopola perché sovraffollamento, inquinamento delle spiagge e congestione degli spazi diventano intollerabili. Ma a quel punto il fenomeno si ripresenta altrove con le stesse caratteristiche e le medesime modalità. Più in generale, quando lo sviluppo edilizio si fa incontrollato, i servizi divengono inadeguati per il livello di affollamento e si innesca una spirale che finisce per trasformare il luogo delle vacanze in un luogo estremamente faticoso dove passare le vacanze. E allora si va altrove, e prima o poi anche lì accadrà lo stesso.
Un altro problema etico è quello della redistribuzione dei proventi del turismo…
Sì, soprattutto quando vediamo che i flussi di denaro riguardano, prevalentemente, la parte ricca del mondo: turisti che acquistano pacchetti turistici “tutto compreso” da tour operator situati nella loro parte del mondo e che peròusufruiscono di quei pacchetti altrove, con pochi beneficieconomici per chi vive in quell’altrove.
Che cosa lascia il turista al territorio, che cosa prende al territorio e come trasforma il territorio. Qui entriamo nell’ambito del comportamento…
Quando facciamo turismo in Paesi in via di sviluppo, ci troviamo a confronto con realtà che soffrono uno squilibrio economico a nostro vantaggio. Partiamo da una posizione asimmetrica, imbarazzantemente asimmetrica. Come ricorda l’antropologo Marco Aime, che lo vogliamo o no, siamo ambasciatori della nostra cultura: abbiamo macchine fotografiche, siamo vestiti in un certo modo, in un certo senso trasudiamo ricchezza (anche se secondo gli standard del nostro Paese non siamo persone ricche). Da questo punto di vista, noi siamo intrinsecamente problematici per quelle realtà e non deve stupire che siamo considerati, per così dire, anche delle “mucche da mungere”.
Non può diventare, sotto certi aspetti, anche una forma di giustizia ridistributiva?
Sotto certi aspetti lo diventa, ma il punto è se questo basta oppure è il classico piatto di lenticchie a fronte, per esempio,della privatizzazione e colonizzazione di interi pezzi di territorio (pensiamo ai villaggi-vacanze nel Sud del mondo) odel tipo di impiego che viene offerto alle popolazioni locali che lavorano nel turismo, in termini di condizioni di lavoro odi paga. Qui si innesta il grande tema filosofico dello sfruttamento: è chiaro che quando accusiamo qualcuno di sfruttare qualcun altro, ci troviamo davanti al paradosso per cui quella persona, sfruttando, sta comunque rendendo migliore la condizione economica della persona che sfrutta rispetto alla situazione in cui tra le due parti non c’è transazione economica. A me sembra allora che, ancora una volta, bisognerebbe pensare seriamente agli scambi economici in ambito turistico e al potere contrattuale che ci sta dietro non in termini di buoni sentimenti, ma in termini di un’argomentazione filosofica che sostenga certe conclusioni. C’è un caso molto interessante, da questo punto di vista: il caso degli sherpa. Gli sherpa si arricchiscono molto, dal punto di vista economico per gli standard locali, ma subiscono una serie di effetti collaterali del loro lavoro – compreso il rischio di morire di morte prematura – che ci spinge a interrogarci sulla moralità delle ascensioni sull’Everest, specialmente quando tali ascensioni sono compiute da persone che non sono preparate quanto lo richiederebbe l’impresa.
Conservazione o valorizzazione, è il grande dilemma che si apre ogni volta che vengono toccati i beni culturali e artistici…
Chiaramente il turista va dove ci sono cose particolari e diverse da quelle cui è abituato. Questo costituisce un potente incentivo per le comunità a mettere a valore il proprio patrimonio culturale e a volte consente di sopravvivere a tradizioni che diversamente sarebbero scompars. Altre volteperò stimola a costruire immaginari fasulli, come testimonia ilcaso limite dell’isola di Roatan, in Honduras, che è stata inserita in un circuito maya anche se la presenza maya sull’isola è stata risibile. Siccome i maya vanno di gran moda, Rotàn è divenuta una meta turistica, ma a prezzo di vedersi attribuita una identità che non è quella reale.
C’è poi una questione che lei affronta nell’ultima parte del libro, quella del voyeurismo turistico e del turismo del macabro o dark tourism…
Quando accadde il delitto di Avetrana, il sindaco del paese dichiarò alla stampa di essere stato costretto a chiudere alcune strade per scongiurare l’arrivo di turisti del macabro. Anche a Cogne, dove si era consumato un altro efferato delitto, si era verificato qualcosa di simile, con persone che si recavano in buon numero sul luogo a farvi fotografie. Possibile che si possa giungere a voler fare, in forma organizzata o meno, questo tipo di turismo? Allora qui nasce una domanda più ampia: che tipo di umanità siamo? Pensare di andare a vedere questi luoghi, solo perché hanno avuto notorietà mediatica,lascia perplessi. Si badi: attività turistiche a contatto con la morte sono molte, pensiamo soltanto al turismo scolastico e non nei campi di concentramento e sterminio, ma non sono moralmente biasimate, tutt’altro. Allora la questione non è il contatto con la morte in sé, ma qualcosa di diverso che trasforma il turismo della memoria appounto in un turismo del macabro.
Nel suo ultimo lavoro, Austerlitz, il regista polacco Sergei Loznitsa racconta di questo turismo di massa nel campo di concentramento di Sachsenhausen, in Germania…
La camera del regista inquadra persone che entrano in quel campo di concentramento con una certa disposizione d’animo e un certo contegno e, poi, dopo un po’, fanno le cose che tipicamente fanno i turisti: mangiano panini, si annoiano, fanno selfie. Questo ci deve, quantomeno, far riflettere. Ma gli esempi sono molti. Mi ha molto colpito e mi ha provocato un certo disturbo vedere turisti che, nei cimiteri americani, in Normandia, si facevano fotografare facendo il segno di vittoria, così banalizzando quel che era accaduto e quasi nascondendo il fatto che lì, sotto quelle croci bianche, sono sepolti i resti mortali di persone che sono state vive.
Un altro caso è il turismo nostalgico, prendiamo il caso di Predappio…
La domanda di fondo qui a me pare essere: come possiamo tollerare che vi siano forme di commemorazione di una realtà politico-ideologica che, nell’Italia repubblicana, non dovrebbe essere commemorata? Possiamo accettare questo tipo di turismo solamente perché porta denaro in quei luoghi?
Recentemente, c’è stata anche la polemica sul cosiddetto Faro di Mussolini…
A Meldola, in provincia di Forlì, a quattro chilometri da Predappio, c’è un castello che ha, in cima alla torre, un faro che emette un fascio di luce tricolore visibille fino a sessanta chilometri di distanza. In questo castello si tenne il primo consiglio dei ministri di quella che sarebbe stata la Repubblica Sociale Italiana. Nelle segrete del castello ci furono anche torture e uccisioni di antifascisti. A qualcuno in questi mesi è venuto in mente di proporre la riaccensione di quel faro.
Un faro che, a suo tempo, veniva acceso per indicare la presenza di Mussolini…
Per questo dobbiamo chiederci se e perché riaccenderlo oggi. Sinceramente non credo che chi propone di riaccenderlo lo faccia per un sentimento nostalgico, ma inevitabilmente la sua riaccensione finisce per omaggiare chi non dovrebbe essere omaggiato. Capisco le ragioni di chi vuole attrarre turismo, ma la vera domanda è un’altra ed è una domanda tipica quando si riflette di etica: quanto vale la nostra integrità morale? Ci sono delle cose che non valgono i soldi che potremmo guadagnare da questa operazione. Riflettere eticamente sulle cose significa stabilire anche ciò che non ha prezzo e non può essere venduto.
Il libro
Che cosa c’è di sbagliato nel farsi un selfie ad Auschwitz? O nell’andare a vedere le donne “dal collo lungo” in Thailandia? O nel farsi scortare dagli sherpasull’Everest? O, ancora, nel fare le vacanze in un villaggio turistico situato nel Sud del mondo? Sono alcuni degli interrogativi cui risponde questo volume,inquadrandoli in un’indagine teorica più ampia, che parte dalla definizione di turista e dalla distinzione fra turista e viaggiatore per arrivare alle nozioni chiave della riflessione morale sul turismo: responsabilità, sostenibilità, equità e rispetto delle differenze culturali. Il libro non offre soltanto una panoramica delle questioni etiche con cui i turisti e l’industria turistica si misurano o dovrebbero misurarsi, ma esplicita e discute anche i loro presupposti e le loro implicazioni, consentendo al lettore di acquisire maggiore consapevolezza degli effetti del turismo sulle persone e sull’ambiente, e favorendo così una riflessione più approfondita sul tipo di turismo che sarebbe moralmente auspicabile realizzare e sui limiti che possiamo giustificatamente invocare per quello attuale.
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