La risposta alla crisi sta nella cura. Ne è convinta Amaia Pérez Orozco, economista e attivista femminista spagnola, scrittrice di un libro dal titolo Subversión feminista de la economía: aportes para un debate sobre el conflicto capital-vida (Traficantes de sueños, editore) ed esperta di fama internazionale di ecofemminismo, un sguardo comprensivo sul mondo che unisce il punto di vista femminile a quello ecologico nella critica alla società attuale. E che insegna un modo nuovo per affrontare la decrescita a cui, secondo l’esperta, dovremo arrenderci ad andare incontro.
Che cos’è per lei la decrescita e perché se ne parla?
Una certa dimensione della decrescita è inevitabile, non è qualcosa che possiamo decidere, è qualcosa che succederà sicuramente. Mi riferisco alla decrescita metabolica, legata all’esaurimento dell’energia e delle risorse. Quello che possiamo scegliere, però, è il modo in cui la affronteremo, se la accompagneremo con un lavoro di giustizia e di ridistribuzione sociale. Ci sono però altre dimensioni della decrescita, che riguardano un posizionamento politico, di chi la intende come una rottura con la logica di accumulazione tipica del mercato capitalista. In un sistema dove quello che conta è il profitto a ogni costo, la vita è minacciata; quello che le permette di andare avanti è l'impegno di chi, sempre con maggiori difficoltà, si occupa di cura, fa un lavoro che potremmo definire “riproduttivo” in senso ampio, che permette la riproduzione della vita, che è qualcosa di vulnerabile.
In che senso?
La vita non è qualcosa che accade per magia o per caso. La vita è una possibilità, si perpetua se la curiamo, se la ricostruiamo tutti i giorni. La società della crescita, però, è basata sulla negazione della vulnerabilità e soprattutto sulla negazione del fatto che questa vulnerabilità ci rende interdipendenti, legati gli uni agli altri e alla Terra: siamo esseri vivi in un pianeta vivo. La tendenza individualistica del capitalismo mi sembra particolarmente chiara se guardiamo il sistema delle pensioni: prima era solidale, la ricchezza veniva ripartita; ora, invece, pensiamo di mettere via dei soldi solo per noi stessi.
Il lavoro di cura, per quanto fondamentale, è spesso trascurato e sottovalutato.
Siccome neghiamo che la vita è vulnerabile, l’atto di curare e di ricostruire la vita è quello a cui diamo meno valore. Si tratta di un lavoro svalutato, che quindi svolgono maggiormente donne, spesso di classe bassa e con un background migratorio. E dato che lo svolgono maggiormente donne, spesso di classe bassa e con un background migratorio, viene ancora più svalutato. È un circolo vizioso. Ci sono altre studiose che dicono che si tratta di una doppia svalutazione, da una parte capitalista e dall’altra eteropatriarcale.
Oggi ci sono più donne che non sono costrette a sacrificare la loro vita per i mariti, i figli o i genitori, ma nella maggior parte dei casi possono farlo perché ci sono altre donne che lo fanno al posto loro. In questo momento, quindi, sono aumentate le disuguaglianze all’interno del mondo femminile, mentre quello maschile continua a non prendersi la responsabilità della cura
Amaia Pérez Orozco
Pensa che le attività di cura domestica andrebbero pagate?
No. O meglio, credo che la cura di situazioni di maggiore dipendenza – penso per esempio agli anziani non autosufficienti – sia, naturalmente, una professione. Non tutto però dovrebbe essere pagato: in una società che va nella direzione della decrescita bisognerebbe far uscire le attività dal mercato, non farle entrare. Il denaro deve smettere di essere la via prioritaria per accedere a ciò che è necessario per vivere.
Allora qual è il modo di dare valore al lavoro di cura?
Dovrebbe essere tradotto in una responsabilità collettiva. Il problema principale, infatti, non è che queste attività non sono pagate, ma che sono responsabilità individuale della donna, che spesso è costretta a rimanere a casa per occuparsene. La soluzione non è semplicemente dare un salario a chi, ora, non ce l’ha: si tratta di una situazione più complessa, che va risolta attraverso un cambiamento radicale nella politica, nella cultura e nella mentalità.
E questo, secondo lei, è un buon momento per un cambiamento?
Venti o trenta anni fa nessuno parlava di cura e di lavoro riproduttivo. Oggi se ne discute di più, ci sono anche molti uomini che ne parlano. Quello che resta, però, è il fatto che sono loro ad attribuire il valore alle cose. Il cambiamento, per ora, resta molto nella teoria. Ci sono più donne che non sono costrette a sacrificare la loro vita per i mariti, i figli o i genitori, ma nella maggior parte dei casi possono farlo perché ci sono altre donne che lo fanno al posto loro. In questo momento, quindi, sono aumentate le disuguaglianze all’interno del mondo femminile, mentre quello maschile continua a non prendersi la responsabilità della cura, nonostante i discorsi teorici.
Gli uomini dovrebbero parlare meno e agire di più, quindi?
Assolutamente. Ma dovrebbero agire senza aspettarsi un applauso per quello che fanno, come invece spesso succede.
E le donne, invece, dovrebbero far sentire di più la propria voce?
Ce ne dovrebbero sicuramente essere di più, ma anche in questo caso ci sono delle disuguaglianze. Per esempio, la conciliazione tra lavoro domestico e vita professionale è un problema che le operaie hanno sempre avuto. Si è cominciato a parlarne a livello pubblico, però, nel momento in cui hanno cominciato ad averlo le donne di classe media. Ci sono delle categorie femminili che, ancora, non vengono ascoltate. Ci sarebbe bisogno di una voce collettiva che, però, non è qualcosa di dato; bisogna costruirla, dialogando e cambiando le relazioni di potere che abbiamo tra di noi.
Il modello socioeconomico attuale è in crisi e il cambiamento sembra inevitabile. Pensa che il successo dell’estrema destra, in crescita in larga parte del mondo, possa essere sintomo di questo disagio?
C’è una compagna che dice che in questa società, per com’è costruita, i nostri sogni di prosperità e di crescita infinita sono irrealizzabili. La gente si sta rendendo conto che quello che questo sistema ci prometteva era impossibile; c’è molta disillusione e un grande senso di solitudine. L’ultra destra sta riconoscendo e intercettando il problema e sta proponendo l’idea di un’appartenenza a una comunità, che però è razzista, esclusiva e bianca, basata sull’obbedienza e sull’oppressione.
Cosa si può fare per proporre una soluzione diversa?
Prima di tutto riconoscere il malessere della popolazione e i problemi del modello socioeconomico, cosa che, ancora, molte istituzioni non fanno. Poi dobbiamo costruire un orizzonte concreto di cambiamento, basato non sulla violenza, ma su un’idea di benessere collettivo e condiviso.
La foto in apertura è un frame di una video-intervista di Attac Catalunya.
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