Come si vive insieme? Ci vuole esercizio per cogliere ciò che rende ciascuno di noi parte generativa di quell’”insieme”, la cui sostanza sta nelle connessioni tra persone, risorse, spazi, ruoli, funzioni. È il cosiddetto allenamento civico che ci prepara a diventare costruttori di relazioni, stimolando attenzione verso gli altri. In questo periodo storico “straordinario”, le pratiche partecipative – habitat naturale dell’allenamento civico – sono state riconsiderate, a volte ridotte, altre volte rinviate e si è reso necessario cambiare “il livello” dell’allenamento: non più la cura del presente, ma l’invenzione del futuro. Di prospettive diverse, orizzonti inediti, prossimità alternative per fare allenamento civico oggi, ne parliamo con Monia Guarino, presidente dell’Associazione professionale Principi Attivi dedicata alle pratiche partecipative, all’allenamento civico e all’innovazione sociale. «Non è il fornire risposte a far la differenza, ma il porsi nuove domande: questo è l’allenamento civico del momento – sostiene Guarino – Nel domandare impariamo a riflettere. Nel riflettere impariamo ad immaginare. Nell’immaginare impariamo a connetterci. E nel connetterci, finalmente, ci ri-vediamo. Dopotutto, “domandare significa far vedere”, diceva qualcuno».
A questo proposito, tra i progetti che ha seguito per Principi Attivi, c’è “La comunità in/attesa: per riflettere insieme su una comunità che attende di essere (pre)vista” della Fondazione Casa del Volontariato di Carpi, un appello rivolto ad “esperti di quotidianità”…
È evidente l'impellenza, soprattutto dell’istituzioni, di dare risposte concrete. Ed è altrettanto evidente come queste risposte creino spesso frattura più che sodalizio. In questo periodo, è importante cogliere l’occasione di farci buone domande – inconsuete, irriverenti, visionarie – contando su quel “surplus cognitivo” di cui tutti siamo autori con la nostra dote di pensiero. Propongo un paio di domande che il progetto sollecita per immaginare, insieme, la comunità che (pre)vediamo: Siamo sia discendenti che antenati di una comunità che è cambiata, temporaneamente o definitivamente, in continuità o in discontinuità con quella precedente: che cosa della comunità che conosciamo ha resistito e rappresenta un’eredità condivisa? Abbiamo attraversato, e lo stiamo in parte ancora attraversando, un periodo di sospensione della presenza prossima, materica, collettiva, oltre che di incertezza nel presente e per il futuro: quali competenze sociali sono scomparse o indebolite, quali, invece, si sono consolidate o affermate?.
L’attenzione generale, oggi, è sulla città pubblica intesa come diritto e al contempo patrimonio del vivere comune. È lo spazio pubblico l’oggetto del contendere: il suo uso o consumo, la rigenerazione o la privatizzazione, il protagonismo sociale o quello individuale, il decoro o il degrado, la riappropriazione o la autorganizzazione. Una bilancia che oscilla tra esperienze positive e negative, sinceramente interessanti e incredibilmente numerose. Soprattutto in Italia…
La partecipazione pubblica, l’Amministrazione condivisa, i beni comuni sono alcuni dei grandi palchi tematici su cui i riflettori sono spesso puntati, a sottolineare come la città pubblica sia stata qualificata o intaccata. Poco noto il resto, fatto di spazi privati (per lo più commerciali) che diventano un po’ più pubblici. Si tratta di attenzioni messe in campo spontaneamente, senza il pretesto di un progetto o lo stimolo di una istanza, ma per gentil visione e infinita cura di chi vuol fare la sua parte, essendo esso stesso parte di un luogo, di una collettività. Queste attenzioni fanno scoccare scintille – dice Monia Guarino che laureata in Architettura e specializzata in pianificazione interattiva del territorio, narrazioni collettive, fundraising, si occupa di processi decisionali inclusivi dedicati alla cura dei luoghi e della comunità promuovendo la partecipazione come approccio e strumento per lo sviluppo comune, nell’ambito di contesti spesso caratterizzati da disagio, crisi, conflitti – Queste scintille illuminano il potenziale di una comunità. Questo potenziale ispira progetti condivisi. Questi progetti realizzano aspirazioni. Il tutto verso un futuro migliore.
Qualche esempio?
Esistono bar e caffetterie in cui genitori, insegnanti e giovani possono ritrovarsi e discutere senza obbligo di consumo, esperienza ispiratrice di quelli che sono diventati i “caffe pedagogici”. Negozi che espongono la scritta “Facciamo del nostro meglio per onorare le diversità” hanno poi generato l’adesione di tanti esercenti a “L’ora del garbo”, un’iniziativa nella quale in alcune fasce orarie, più che in altri momenti, operatori e clienti sono a disposizione di chiunque abbia bisogno di attenzione per compiere, ad esempio, il semplice gesto di fare la spesa in autonomia. La farmacia che ha l’angolo di bookcrossing con testi “che curano l’anima” posti sulla soglia dell’ingresso. Il ristorante che un giorno alla settimana propone lentezza, silenzio e ritualità (con meno coperti) per creare un ambiente più adatto a bambini che hanno disturbi cognitivi, cosicché le famiglie possano avere un’occasione di svago. Scampoli di giardini privati senza cancelli, che accolgono orti di prossimità, in cui chiunque può coltivare e chiunque può raccogliere. Così lo “spazio privato” di entrare a far parte della dimensione di “spazio sociale”. Anche questo contribuisce alla costruzione della città pubblica. Almeno in parte. Non ci sono risorse pubbliche in ballo. Non ci sono metriche vanitose dai numeri altisonanti. Non ci sono portatori di interesse selezionati. Ma c’è “grinta sociale”. Tanta. E merita più attenzione.
Quali sono gli "ingredienti" essenziali per parlare di sviluppo di comunità e innovazione sociale? Quali presupposti devono esserci e quali attori le rendono possibili?
L’espressione ingredienti è nella sua etimologia suggestiva: di origine latina, ingrediens 'che entra', participio presente di ingredior 'entrare', derivato di gradior 'camminare'. Sviluppo di comunità e innovazione sociale sono “processi” nei quali bisogna senz’altro “entrare” ad inizio del cammino anziché attendere di “ri-uscire” alla fine. E c’è un’incertezza che va accolta. Mi sono fatta un mio personale pensiero su come farlo: con responsabilità e audacia, per giungere al cuore etico delle scelte e coltivare speranze affidabili; con inventiva e meraviglia, per fare più domande fuori copione e ricercare occasioni di stupore; con contestualità e molteplicità, per tessere prospettive inedite; con esperienza e viandanza, per sperimentare il contatto trasformativo e scoprire differenze positive; con collaborazione e dialogicità. In quest’ottica tutte le persone sono potenziali attori, particelle di sapere che possono essere stimolate a contaminarsi attraverso progetti e attività organizzate per sfide. Occorre sollecitare il riconoscimento e l’adesione a visioni, valorizzando interessi e passioni comuni, piuttosto che competenze. Xhaet ha approfondito questo approccio-condizione chiamandolo con acume “network inclusion”, e che mi permetto qui di rinominare amichevolmente: unire i puntini all’interno di esperienze di apprendimento collettivo».
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