Antonella Sbuelz

Per gli adolescenti, l’empatia è una «super arma»

di Veronica Rossi

La scrittrice e poetessa friulana ha pubblicato, tra gli altri, due libri per ragazzi con Feltrinelli, «Questa notte non torno» e «Il mio nome è A(n)sia», in cui esplora emozioni, sensazioni, malessere, amori e speranze degli adolescenti. Il segreto, sia per dialogare coi più giovani sia per permettere a questi ultimi di imparare a superare le priprie sofferenze, è mettersi nei panni degli altri

La parola chiave, per la scrittrice friulana Antonella Sbuelz, è «empatia». È proprio l’incontro con l’altro e la crescita che ne deriva il leitmotiv degli ultimi due romanzi, rivolti a un pubblico di ragazzi, «Questa notte non torno» e «Il mio nome è A(n)sia», entrambi editi da Feltrinelli. I due testi raccontano storie diverse, ma collegate. Il primo si concentra su due adolescenti, Mattia, un quindicenne che scappa di casa dopo l’annuncio della separazione dei genitori, e Aziz, arrivato in Italia dopo una lunga fuga da una situazione terribile. Il secondo, uscito nelle librerie da pochi giorni, è ambientato a un anno di distanza e segue le vicende di Asia, una compagna di scuola di Mattia, che vive sotto la costante minaccia degli attacchi d’ansia; la ragazza, con l’aiuto di Tommaso, quello che sembrava il bulletto della classe e che invece nasconde una grande sofferenza, intraprende un viaggio che la porta a crescere e scoprire nuove cose, su se stessa e sulla sua famiglia. L’autrice conosce bene il mondo dei teenager: è un’insegnante di scuola secondaria di secondo grado e, dopo l’uscita dei suoi romanzi, gira gli istituti di tutta Italia per parlare con gli adolescenti dei loro sentimenti, sogni, emozioni, speranze.

Lei coi ragazzi di oggi ha un rapporto molto stretto. Come li vede?

La mia sensazione è che si sia fortemente allargata la forbice tra i ragazzi che sono usciti da questi due anni di pandemia più empatici, persino rinforzati, e quelli che invece sono più fragili. I primi sono maggiormente strutturati, perché hanno un background più protetto o perché hanno passioni forti, spesso fanno volontariato. I secondi, invece, più vulnerabili, hanno subito un aumento di tutte quelle problematiche che purtroppo conosciamo bene, come i disturbi alimentari e le dipendenze di vario tipo.

La protagonista dell’ultimo libro soffre di frequenti attacchi d’ansia. Quanto è frequente questo disturbo negli adolescenti?

Molto. L’altro ieri mattina ero in un istituto a Rimini, a parlare con 300 ragazzi. Uno di loro spontaneamente è intervenuto per dire «Senza ansia ormai non c’è più vita sociale». Sicuramente era ironico, ma c’era anche della verità nella sua affermazione, poi ne abbiamo parlato e molti si sono espressi su questo punto. Abbiamo chiesto quanti di loro si sentano coinvolti in questo senso e ad alzare la mano sono stati tantissimi. Ovviamente, l’ansia ha un’ampia gamma di sfumature, da forme più gestibili agli attacchi di panico, che possono essere davvero invalidanti.

E come mai i ragazzi sentono così tanta ansia?

La prima risposta onesta che posso dare è che non lo so, perché ci vorrebbero studi lunghi e approfonditi per chiarirlo. Posso dare la mia opinione, rispetto a quello che vedo: il problema, mi pare, sono le generazioni intermedie. A me sembra che questi ragazzi abbiano due categorie di famiglie. Una parte di genitori sono obiettivamente distratti e molto presi dai loro problemi, perché sono anche loro ormai quasi dei quarantenni o cinquantenni adolescenti: quando vengono ai colloqui si lamentano perché i loro figli non leggono ma, mentre aspettano, stanno magari 45 minuti col telefono in mano. Mi sembrano a loro volta confusi, persi, disorientati e, forse, anche loro hanno sviluppato se non una dipendenza almeno una forte correlazione coi social network. C’è poi un’altra parte di genitori che è molto presente, ma anche molto esigente e giudicante; i ragazzini, quindi, si sentono schiacciati da un surplus di richieste, da madri, padri, professori e coach se fanno sport. Sentono il peso delle aspettative, alte e multiple.

E, con una madre troppo presa dal lavoro, il rifugio di Asia è la nonna, di cui finisce anche per prendersi cura.

Ho voluto portare alle estreme conseguenze il rapporto con la madre, che in realtà è amata e non anaffettiva, solo presa da altro – tra l’assente e il distratto – e con la nonna. Gli adolescenti, oggi, hanno un rapporto di complicità fortissimo coi nonni, nei casi in cui sono fortunati e li hanno vicini. Spesso, infatti, questi ultimi devono supplire i genitori, così si crea una relazione strettissima, di grande affetto e vicinanza.

Nei due libri c’è un’insegnante di Lettere molto amata dai ragazzi, la professoressa Franceschi. Quanto c’è di lei in questo personaggio?

Tanto. Due delle attività che racconto, la scrittura libera e l’insegnamento a partire dalla microstoria, le faccio da una vita, non ricordo nemmeno da quanto. Mi sono accorta che per gli adolescenti la storia è un’astrazione, se non gli fai capire che «La storia siamo noi». È una frase che sembra retorica ma a cui credo veramente. Anche la lettura del diario di guerra che metto in bocca a Tommaso è qualcosa che abbiamo fatto in classe l’anno scorso, con un ragazzino con grandissimi problemi scolastici, di disgrafia e di dislessia, che però si è appassionato della storia grazie a questo incredibile diario che ha scritto il bisnonno sul Carso. Quando ne leggevamo gli estratti c’era un silenzio sacrale. Particolarmente in Friuli, regione attraversata in maniera terribile dagli eventi del Novecento, basta grattare con l’unghia sotto la superficie di ogni famiglia per riscoprire come tutte sono state toccate dalla grande storia.

In «Il mio nome è A(n)sia», Asia e Matteo sono accomunati da un lutto terribile, la perdita del padre. Come si è delineata l’idea di questo tratto in comune tra loro?

Non l’ho stabilita a tavolino, io scopro le storie mentre le scrivo. A un certo punto mi è venuto spontaneo pensare che li avrebbe accomunati una ferita profonda e simile; da qui è nato questo lutto, questo vuoto emotivo, affettivo, esistenziale che si portano dietro e che in qualche modo giustifica la violenza delle crisi d’ansia della protagonista; il suo percorso la porta a scoprire che da questo dolore si può uscire assieme a qualcun altro, che ti può star vicino e capire. Quello che mi sta molto a cuore, in tutti i miei libri, è la scoperta di quella super arma che è l’empatia, che ci rende davvero umani e che ci fa rendere conto che possiamo metterci nei panni degli altri e capire cosa stanno provando nel profondo. Dobbiamo imparare che è la chiave anche per una convivenza pacifica: o diventiamo una comunità multietnica, multiculturale, multilinguistica o non saremo affatto.

Asia e Tommaso, però, hanno reazioni molto diverse a una sofferenza simile.

Credo che la differenza stia nel loro genere. Per le femmine la tendenza più forte è quella dell’autolesionismo; implodono, incapsulano il male, che tende a ricadere su di loro. Per i maschi, invece, c’è più un’esplosione, che significa colpire gli altri, attorno. Bisogna leggere in questi comportamenti il disagio; è chiaro che è una situazione più difficile da gestire per chi è vicino, però molte volte è proprio la manifestazione di una ferita o di un dolore che a quell’età non hanno la capacità di controllare e digerire.

In «Questa notte non torno», Mattia decide di scappare di casa a causa della separazione dei genitori; possiamo dire che quello che lo riavvicina a loro è, anche in questo caso, l’empatia, verso Aziz e la sua storia drammatica?

Io non volevo sminuire il dolore di Mattia, perché la crisi che ne deriva è autentica. Tuttavia è proprio l’empatia – che non scatta subito, perché è normale e umano nell’incontro con la diversità avere una prima reazione di diffidenza o addirittura di rifiuto – che lo porta a prendersi cura di un altro dolore, che non è il suo e che ovviamente è più terribile devastante; a quel punto riconosce che la sofferenza di Aziz non è una crisi emotiva e psicologica, ma la crisi di un intero mondo in guerra, un lutto tremendo. È nel confronto con l’altro che riesci a crescere, altrimenti resti convinto, come dice Mattia, di avere il «monopolio e l’esclusiva del grande dolore universale».

Cosa può fare la scuola per prendersi cura del malessere degli adolescenti?

È un discorso molto ampio. Per prima cosa direi vederli e ascoltarli. Ci sono scuole, realtà, insegnanti che ritengono ancora che l’elemento più importante sia la valutazione, ma non è così. I ragazzi sono naturalmente programmati per il piacere dell’imparare, ma li devi motivare. E non motivi nessuno se non trasmetti prima passione; ci deve essere una relazione empatica, che passa anche attraverso l’affetto. Entrando in classe, mi viene spontaneo chiedere «Come state ragazzi?». Un giorno una studentessa mi ha risposto «Come sta lei prof? Perché è l’unica che ce lo chiede». È importante domandare come stanno prima di informarsi su quanto hanno appreso, su quanto hanno introiettato di quanto hai spiegato; poi loro se ne accorgono se lo fai solo come pro forma o se ti interessa per davvero, se lo chiedi guardandoli, osservandoli per capire se c’è qualche novità o qualche disagio. Per la motivazione, è anche fondamentale il momento della scrittura libera, che funziona un po’ come il cestino dello psicanalista, in cui si getta tutto ciò che non va. La scuola, negli ultimi anni, è diventata «scuola delle competenze»; oltre alle competenze, però, c’è molto altro, l’affettività, l’incontro con l’altro, l’empatia.

Nei libri c’è anche la scoperta dell’innamoramento da parte dei ragazzi. Che ruolo ha l’amore nella vita degli adolescenti?

Quello che ha sempre avuto, i grandi sentimenti universali mantengono il loro ruolo in tutte le epoche. Capisci che sono imbranati, inteneriti, che vanno l’uno incontro all’altro durante l’interrogazione per lanciarsi un salvagente. Probabilmente alcune modalità di comunicare e di trasmettere le emozioni è cambiata in parte, ma la sostanza diventa la stessa. L’amore li fa sentire fragili, fa battere loro il cuore, fa venir voglia di urlarlo al mondo. Spesso i ragazzi non capiscono come fare, come non lo capivamo noi e come, probabilmente, non lo capivano al tempo di Dante.

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