Le nigeriane? Tutte prostitute. Molti lo pensano e, quando ne muore qualcuna, si butta nella spazzatura, dimenticando che era una persona, una donna. Si cancella anche il suo nome e cognome, al massimo si usa il nome di battaglia. Eppure ognuna di loro ha una storia diversa, ognuna di loro ha un sogno diverso, soprattutto se ci sono anche figli. Com’è successo a Loveth, Favour e Bose, tre nigeriane di appena vent’anni che, tra il 2012 e il 2014, vennero uccise a Palermo a distanza di poco tempo l’una dall’altra. I loro corpi saranno ritrovati tra i cassonetti dell’immondizia. Uno addirittura carbonizzato.
Quando una ragazza nigeriana viene da me per chiedere aiuto, le dico che è grandiosa e che può spezzare le catene che la rendono schiava
Osas Egbon, associazione “Donne di Benin City”
Impossibile accettare questo stigma, il pregiudizio dell’opinione pubblica, ancor più quello di certa stampa non curante dell’effetto che può fare un titolo, così la comunità nigeriana iniziò ad animarsi e decidere che non era più possibile che i femminicidi potessero essere minimizzati, giustificati, ma soprattutto quasi subito digeriti e dimenticati.
È da quel momento che, quando si parla di donne nigeriane, si deve pronunciare il nome di Osas Egbon, 42 anni, da quindici anni a Palermo dove ha dato vita all’associazione “Donne di Benin City”, la prima organizzazione italiana contro lo sfruttamento della prostituzione, sorta all’indomani di quegli omicidi e formata interamente da donne nigeriane ex vittime di tratta. Non una città qualunque Benin City, perché è da lì che provengono tutte loro. È da lì che arrivano giovani nigeriane ingannate da chi promette una vita diversa, una vita con un futuro che fugge dalla povertà.
Una storia che racchiude tante storie, quella di Osas, e che non ha lasciato indifferente Gabriele Gravagna, regista e autore specializzato nel linguaggio della docu-fiction, che non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di raccontare chi fosse questa donna, il cui nome vuole dire “mandata da Dio” e che, così come le aveva predetto la sua profetessa, avrebbe liberato dalla schiavitù della tratta a scopo sessuale tante donne, strappandole alla morte certa causata dal mercato della violenza.
I premi che questo corto riceve riconoscono il valore di Osas e della sua associazione nel ridare libertà alle donne
Gabriele Gravagna, regista
E ha avuto ragione, Gravagna, perché “Osas e le donne di Benin City”, il docu-film che è nato in seguito al loro incontro, ha ricevuto la menzione speciale della giuria del “Festival del cinema di Torino” per la sezione Spazio Italia/cortometraggi italiani in concorso.
Poche ore ed ecco un secondo riconoscimento, il premio di Rai Cinema Channel al miglior film in concorso tra i cortometraggi italiani, con una motivazione importante: «Una storia che ci obbliga a guardarci dentro per provare a capire cosa succede sia per le strade del nostro Paese che in Africa. Una storia che attraversa la violenza, i soprusi, l’indifferenza per arrivare, grazie al grande coraggio della protagonista, alla libertà!».
«La cosa incredibile – spiega il regista – è che ho conosciuto Osas esattamente cinque anni fa in un liceo di Palermo, il Galileo Galilei, dove io stavo presentando il mio lavoro Io sono qui, un corto sui minori stranieri non accompagnati, mentre lei parlava della sua associazione. Da allora è stato un viaggio pazzesco che ci ha fatto ritrovare insieme a Torino grazie alla sua storia. Essendomi sempre interessato alle dinamiche sociali, in particolar modo quelle che riguardano i migranti, ho subito colto l’eccezionalità della sua storia. Grazie a Marta Bellingreri, coautrice del corto, sono riuscito ad avvicinarla e a farle capire che tipo di lavoro volevo fare con lei. Poi è arrivata anche “Differenza donna”, una Ong che si occupa di violenza contro le donne a livello nazionale, con cui ero entrato in contatto grazie al mio precedente lavoro. Ha patrocinato il corto insieme a “Mujeres nel Cinema“, associazione di donne impegnate nel cinema e nell’industria dell’audiovisivo. Devo dire grazie anche a chi ha dato ritmo a tutto il corto, consentendo allo spettatore di sottolineare i tanti colori dell’anima di Osas e delle donne che, grazie a lei, si sono salvate. Parlo di Chris Goddey, giovane artista dal raro talento, anche lui di origine nigeriana».
Un rapporto, quello con Osas, che si è cementato nel tempo prendendo la forma del corto, ma che ha grandi ambizioni.
«Continuo a credere che la sua storia potrebbe crescere. Ho un progetto per lo sviluppo di un film sulla vita delle donne di Benin City. In questo caso abbiamo utilizzato un bando del ministero della Cultura dedicato alla violenza contro le donne, ma è stato faticosissimo sintetizzare in 15 minuti una vita attraverso la quale si racconta il fenomeno della tratta. Spero, però, che essendo anche in lingua inglese, sottotitolato per l’Italia, possa uscire e portare il suo messaggio oltre i nostri confini», prosegue il regista.
Un auspicio, quello di raggiungere il pubblico di altri Paesi, per far comprendere che le storie delle donne di cui si cura Osas con la sua associazione sono l’una diversa dall’altra e non possono essere liquidate genericamente come appartenenti a donne nigeriane dedite alla prostituzione. Il corto lo evidenzia con forza attraverso il contesto in cui si anima la loro quotidianità e cioè Ballarò, il suo mercato, i suoi vicoli, le strade in cui si svolge una vita che non hanno mai scelto e che, nella migliore delle ipotesi, porta a una schiavitù senza fine. Per le tre giovani nigeriane che hanno ispirato la nascita dell’associazione, invece, non c’è stato scampo.
«Bose era mamma di due bambini nati a Palermo» – racconta Osas – «e ha dovuto scegliere la vita di strada per guadagnare qualcosa che le consentisse di mantenerli. È stata strangolata sino a morire. Flavour era anche lei una brava ragazza che viveva con un uomo bianco che voleva sposare. È stata morta tra le fiamme, ma la cosa che fa ancora più rabbia è che, quando il suo assassino è stato arrestato e gli è stato chiesto perché l’avesse uccisa, perché avesse tolto la vita a un altro essere umano, ha risposto: “Non ho ucciso una persona, ho ucciso una prostituta”. Loveth la conoscevo molto bene, frequentava la chiesa ogni domenica. L’ho notata subito, cantava benissimo, aveva una voce dolcissima. È stata uccisa e gettata tra i rifiuti. Anche lei non ha avuto giustizia, quindi abbiamo capito che dovevamo fare qualcosa noi per dire “basta al femminicidio causato dalla tratta di esseri umani”. Così è nata l’associazione “Donne di Benin City”».
Le ragazze che partono dalla Nigeria arrivano tutte a Palermo.
«Palermo è una città africana, nella quale ritroviamo i colori, i sapori, gli umori di casa nostra. Noi desideriamo essere come gli europei, pensiamo di raggiungere un paradiso dove non ci saranno sofferenze, credi di partire per trovare una vita migliore, seguendo chi ha il potere di farci arrivare qui. Chi, però, ti aiuta ti dice che poi lo dovrai ripagare con il denaro. L’accordo si svolge come un rituale mistico, il juju, che ci fa paura, e una volta fatto ci impegniamo con una promessa. Arrivate in Italia le ragazze capiscono subito quel che sarà il loro destino e vorrebbero fuggire, ma non conoscono nessuno. In più viene detto loro che, se scappano, uccideranno i loro familiari. L’accordo, però, non parlava di prostituzione, diceva solamente che avrebbero dovuto lavorare per ripagare il debito. Le ragazze, così, si ritrovano per strada, senza scampo, senza diritti, alla mercé di chiunque, Ma dico io, come fai a ottant’anni ad andare con una ragazza di 15 o 16 anni? Potrebbe essere tua nipote. Credi che sia una prostituta, invece non lo è mai stata, è una vittima della tratta di esseri umani».
L’unica cosa che accomuna le storie di queste ragazze è il paesse di provienienza.
«Io sono nata in Nigeria, a Lagos. I mei genitori erano di Benin City, mia madre faceva la commerciante, mentre mio padre il poliziotto. Lui mi ha insegnato a essere sempre onesta: “Qualsiasi cosa accada dì sempre la verità, ti renderà libera”. Ho avuto la prima bambina fuori dal matrimonio e, quando la mia famiglia lo ha saputo, mi ha cacciata di casa perché lo riteneva inaccettabile. Cosa che è accaduta a tante ragazze come me in Nigeria, infatti tantissime finivano a dormire in strada, per terra, senza che nessuno si prendesse cura di loro. Ho lasciato la mia bambina con mia madre e sono fuggita dal paese, con il sogno di fare di tutto quello che era nelle mie possibilità per consentirle di studiare e avere un vita indipendente. Ho viaggiato nel peggiore dei modi, da clandestina, dentro un’imbarcazione al buio, senza vedere la luce del sole, e sono arrivata in Italia dove chi mi aveva promesso di aiutarmi, dopo due giorni, mi ha mandato per strada. È stato doloroso, sono caduta in depressione non accettando di dovere vendere il mio corpo. Mi chiedevo come si potessero fare soldi in questo modo».
Ma ne sei uscita. Chi ti ha aiutato?
«L’ho deciso io, ma ho anchde incontrato tanta gente che mi ha teso una mano. Per esempio la Croce Rossa, che la sera veniva a trovarci per strada chiedendoci di cosa avessimo bisogno. È stato importante non sentirmi sola. Poi, più in là mio marito, che mi ha sempre supportato e spronato quando mi sentivo sfiduciata».
Il corto è dedicato al coraggio di tutte le donne. Ma anche al tuo che hai avuto la forza di rompere le catene.
«La mia profetessa lo aveva predetto: “Parlerai con le persone e sarai in grado di liberarle”. Io non capivo cosa volesse dirmi con quelle parole. Dopo i femminicidi di Loveth, Favour e Bose sono tornata da lei per dirle che volevo creare un’associazione perché mai nessuna dovesse avere più paura. Oggi siamo la prima organizzazione formata da ex vittime di tratta. Per le ragazze è più facile parlare con noi perché sanno che diremo loro la verità. Si stupiscono, però, quando scoprono che le aiutiamo senza alcun ritorno economico: “Nessuno ti paga? Puoi veramente salvarmi?”».
«Oggi sono io ad aiutarti – rispondo io – domani toccherà a te». Dico sempre loro di non avere paura e di denunciare perché solo quando hai coraggio hai potere e con il potere ti puoi prendere tutto quello che ti appartiene. Ecco perché questo corto è dedicato al coraggio di tutte le donne del mondo.
Nella foto di apertura la protagonista del docu-film, Osa Egbon (foto gentilmente concessa dalla produzione).
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