A metà dell’Ottocento, qui dentro, si lavoravano i metalli. «Erano un’eccellenza. Il primo ponte che ha collegato l’Europa e l’Asia, a Istanbul, l’hanno costruito loro», dice Paolo Dell’Oro mentre mi accompagna. Le finestre a sesto acuto, che nel 1847 colpirono anche l’occhio di Cesare Cantù, ricordano più una cattedrale che una fabbrica; ma in questa terra lombarda segnata dal fare, forse si voleva proprio questo, costruire una cattedrale laica del lavoro, un santuario del progresso.
Siamo a Lecco, a pochi passi dalla stazione. Officina Badoni 2030 dal settembre 2024 è la sede della Fondazione Comunitaria del Lecchese, nata 25 anni fa, che ha un patrimonio di 20 milioni di euro e che nel 2024 ha erogato poco più di 5 milioni di euro su un territorio che conta circa 340mila abitanti. «Un contesto non così piccolo da soffocare dentro i propri confini e non così grande da disperdersi», commenta Paolo Dell’Oro, il segretario, «la dimensione giusta per vivere concretamente l’aggettivo “comunitaria”, forti anche di una storia della relazione fra pubblico e privato che è oggettivamente una caratteristica peculiare di questo territorio». Maria Grazia Nasazzi ne è la presidente: «Ho sempre lavorato nell’associazionismo, lontano da casa. Questo è anche un modo per restituire».

La Fondazione ha acquistato l’immobile nel 2018, dopo quattro aste andate deserte: da decenni, fallita l’impresa, l’antico simbolo del progresso era diventato un luogo di incuria e degrado. «Ci serviva una sede, certo. Ma fin dall’inizio avevamo chiaro che questo doveva essere uno spazio che la comunità sentisse suo. Uno spazio aperto, dove ciascuno – ma soprattutto i giovani – trovassero non tanto dei servizi o un fitto palinsesto di eventi, ma la possibilità di incontrare altri soggetti con cui fare cose insieme, con la Fondazione che si pone come aggregatore di risorse, non solo economiche», spiega la presidente. Uno spazio, insomma, che prende la stessa forma del modo in cui la Fondazione si concepisce: «Non più e non solo come ente erogatore, ma come collante, capace di far dialogare i soggetti, superando la frammentazione», dice. Cita la celebre frase di Papa Francesco sull’importanza di creare processi anziché occupare spazi. E cita l’urbanista Elena Granata, sulla crisi dello spazio pubblico e sull’urgenza di avere nuovi “place-maker”: «Questo essendo di proprietà della Fondazione è uno spazio privato, ma senza dubbio si configura come uno spazio pubblico, per la città», sottolinea.
Una vera rigenerazione urbana
Al piano terra c’è Offi Coffee, un bar gestito dalla cooperativa sociale Il grigio. Il claim è azzeccatissimo: “Your space, your place”. Ci lavorano anche alcuni giovani con disabilità. Pane e dolci sono opera degli studenti dei corsi di pasticceria e panificazione dell’Enaip locale: hanno appena vinto un premio per la miglior pastiera d’Italia. Il caffè, dice un cartello, viene da una torrefazione autogestita del territorio, La libertaria. Accanto c’è una sala studio prenotabile: ai tavoli tanti studenti universitari ma anche diverse persone in smartworking. Qualche ora dopo il bar è pieno: il popolo della pausa pranzo più quello dell’uscita da scuola. Il pomeriggio, infatti, l’aula studio si riempie di studenti delle superiori. Un educatore professionale è sempre presente. Sono passati solo sei mesi dall’apertura e il wifi conta già 150 accessi al giorno: segno che di un luogo di questo tipo, la città aveva bisogno. Gli uffici della Fondazione sono al secondo piano dell’edificio e proprio accanto ci sono altre sale: oggi per esempio ci sono i ragazzi di una scuola superiore, sono in PCTO e stanno realizzando un cortometraggio con una cooperativa sociale della zona. Al terzo piano, in quella che fu la mensa degli operai della Badoni, un bellissimo auditorium.






Una fondazione più permeabile
La ristrutturazione ad opera della Fondazione Comunitaria del Lecchese ha restituito alla collettività ed in particolare ai giovani un edificio di 900 mq, affidati nella gestione ad un’associazione temporanea di scopo composta da sette realtà del territorio, più altri cinque enti che fanno parte della “rete allargata”: uno spazio centrale, bello, attrezzato, facilmente accessibile, aperto, in cui l’aggancio è più semplice, il confronto più diretto, la contaminazione più feconda. «C’è un regolamento, c’è un ordine nelle cose, ogni lunedì ci incontriamo con i responsabili dell’Ats per pianificare. Ma il punto è che con Officina Badoni la Fondazione si è “completamente spalancata”. Avere la sede qui dentro genera una grande permeabilità: le persone vengono al bar e si sentono libere di salire al piano di sopra, salutare, portare un’idea», afferma la presidente Nasazzi.
Avere la sede della Fondazione qui dentro genera una grande permeabilità: le persone vengono al bar e si sentono libere di salire al piano di sopra, salutare, portare un’idea
Maria Grazia Nasazzi, presidente della Fondazione Comunitaria del Lecchese
«Già da qualche anno lavoriamo per essere una piattaforma territortiale che aggrega risorse, un connettore di risorse, idee e relazioni. Officina Badoni ha reso plasticamente evidente questo processo, che però si coglie anche in tanti altri aspetti», ribadisce Dell’Oro. Anche a livello di numeri: «Quando sono arrivato in Fondazione, nel 2017, su dieci colloqui che facevo almeno otto se non nove erano di enti che, legittimamente, venivano a chiedere un contributo per un progetto. Oggi le proporzioni sono ribaltate: otto su dieci non cercano soldi, cercano un partner, un circuito di relazioni. È un cambio di paradigma».
Dell’Oro parla con entusiasmo di questa cambio di passo. Più volte usa parole come “dirompente” e “distintivo”. Si vede che ci crede. I frammenti che porta, colpiscono. Racconta con orgoglio che sui 5 milioni di euro erogati nel 2024, ben 3,8 derivano da partnership, donazioni e relazioni. Per esempio da qualche anno le tre principali società pubbliche della zona, partecipate al 100% dai Comuni, grazie alla lungimiranza dei sindaci hanno scelto di destinare una parte degli utili ad un fondo presso la Fondazione per realizzare progetti culturali in ambito sovracomunale. Poi c’è la famiglia che ha finanziato un fondo i memoria di un proprio caro, per sostenere l’avvicinamento dei giovani all’agricoltura. E la Comunità energetica rinnovabile solidale cittadina: gli aderenti – Comuni e aziende – stanno scegliendo di rinunciare singolarmente all’incentivo statale per metterlo in fondo presso la Fondazione comunitaria, per progetti sociali e ambientali a beneficio del territorio. «È un meccanismo che tante Cer hanno, ma solitamente la quota di incentivo che va per destinazioni a fini sociali arriva al massimo al 25%: qui credo che arriveremo all’80%, che significa mettere a disposizione del territorio circa 200mila euro l’anno solo con questo meccanismo», spiega Dell’Oro.
Bisogna fare lo sforzo di pensare al bene del territorio: se il territorio è forte, la tua organizzazione si rafforza di conseguenza. Ma se pensi che il territorio si rafforza perché la tua organizzazione è forte, entri in un crinale pericoloso. Non dico negativo, dico pericoloso: perché quando uno è forte poi pensa solo dentro i propri confini
Paolo Dell’Oro, segretario della Fondazione Comunitaria del Lecchese
La Fondazione, così, «diventa un luogo di “neutralità attiva”, che riesce a far dialogare soggetti diversi, con molta libertà. Non è “il club” di qualcuno, ma uno spazio comunitario: crea luoghi di incontro, occasioni di lavoro insieme, superando il discorso della frammentazione e la logica dell’ognuno pensa a sé e fa il suo pezzetto. Bisogna fare lo sforzo di pensare al bene del territorio: se il territorio è forte, la tua organizzazione si rafforza di conseguenza. Ma se pensi che il territorio si rafforza perché la tua organizzazione singola è forte, entri in un crinale pericoloso. Non dico negativo, dico pericoloso: perché quando uno è forte poi pensa solo dentro i propri confini».
Scelta di metodo
Nel 2021, con la ristrutturazione ancora in corso, la Fondazione Comunitaria del Lecchese lancia un concorso di idee per decidere l’utilizzo dell’edificio. Ha due paletti chiari: la volontà di “dare spazio” ai giovani e l’attenzione all’ambiente. Ma anche, ricorda Nasazzi, «un ribaltamento del modus operandi, non ci interessava trovare dei soggetti a cui fare occupare gli spazi ma volevamo avviare un processo civico, democratico, di presenza sul territorio, di capacità di lavorare insieme. Condividere percorsi e processi».
La Fondazione ha un pezzo importante del proprio patrimonio che non genera ritorno economico. È stata una scelta. Ci attendiamo però un ritorno sociale
Paolo Dell’Oro, segretario della Fondazione Comunitaria del Lecchese
Dell’Oro rievoca la scelta inusuale fatta dalla Fondazione di aver investito in Officina Badoni un pezzo importante del proprio patrimonio, scegliendo poi di non metterlo a reddito: «È stata una scelta precisa ma non scontata quella di non affittare gli spazi ad altri soggetti, nemmeno di Terzo settore. Così come abbiamo scelto che all’interno dell’edificio non ci fosse nessun servizio, per quanto utile e necessario, né la sede di altre realtà del Terzo settore. Non abbiamo voluto nulla di permanente proprio perché ci piaceva l’idea che fosse la comunità del lecchese a usare e condividere gli spazi. Tutto viene concesso in uso gratuito. È una scelta dirompente, perché significa non mettere a reddito l’investimento fatto. Qui viene il secondo passaggio: ci sta bene che l’investimento generi zero come rendimento economico, ma quale rendimento sociale ci attendiamo?».






Al concorso di idee parteciparono 23 soggetti, di cui 15 non profit, con dieci progetti. A quel punto la cosa più ovvia sarebbe stato scegliere l’idea migliore. Ma non qui, non a Lecco, non dove la coprogettazione è nata e dove – ricorda ancora Dell’Oro – la cooperazione sociale è tanto matura da aver scelto, quando qualche anno fa ci fu un significativo adeguamento Istat nei contratti con gli enti pubblici, di mettere un terzo di quell’aumento in un fondo destinato allo sviluppo non delle cooperative ma dell’intera comunità, creato presso la Fondazione stessa. «Diciamo sempre che non vogliamo sviluppare competizione, ma cooperazione. Così la scommessa, a valle del concorso di idee, è stata quella di aprire un tavolo di coprogettazione con tutti gli enti che avevano partecipato, dove ciascuno ha condiviso e messo in gioco la propria idea progettuale costruendo insieme un nuovo progetto. Officina Badoni 2030 è nata così: non è il progetto di quell’associazione, ma un progetto collettivo, unitario, di un territorio», evidenzia Dell’Oro.
Non è uno spazio da riempire
«Invece di essere una gara con un vincitore, è diventata una camminata non competitiva», sorride Simone Buzzella, classe 1991, una storia nella cooperativa Sineresi accanto i Msna. Oggi è uno dei referenti dell’Ats che gestisce Officina Badoni. L’associazione temporanea di scopo è nata con sette dei 12 soggetti che hanno partecipato alla coprogettazione (Acea, consorzio Consolida, cooperativa sociale Il Grigio, Enaip Lombardia, Fondazione Clerici, Les Cultures e Sineresi società cooperativa sociale), accompagnati da una rete di soggetti partner composta da associazione Portofranco, Comune di Lecco, Fondazione Gi Group e le associazioni giovanili Ogvn e Rifugio. All’Ats viene conferito in comodato d’uso gratuito lo spazio al piano terra dell’immobile e la parte del primo piano fuori dalla sede della Fondazione, mentre la titolarità del terzo piano resta alla Fondazione. Anch’esso però viene gestito, come gli altri spazi, dall’Ats.
La prima tentazione è stata quella di “riempire” gli spazi, creando un programma culturale ricco e coinvolgente. Ma subito ci siamo fermati, scegliendo di vedere cosa arrivava dalla cittadinanza. È stata una scelta vincente, perché già oggi questo luogo è animato da iniziative che arrivano dal territorio, non da chi gestisce gli spazi. Il nostro compito è “unire i puntini”
Simone Buzzella, uno dei referenti dell’Ats che gestisce Officina Badoni
«La prima tentazione è stata quella di “riempire” gli spazi, sull’onda dell’entusiasmo, creando un programma culturale ricco e coinvolgente. Ma subito ci siamo detti “no, fermi un attimo”, almeno per il primo anno stiamo a vedere cosa arriva dalla cittadinanza, dalle associazioni, dalle cooperative… È stata una scelta vincente, perché già oggi questo luogo è animato ma animato da iniziative che arrivano dal territorio, non da chi gestisce gli spazi. Il nostro compito è “unire i puntini”, mettendo fianco a fianco le organizzazioni, facendo incontrare i ragazzi che vogliono imparare la gestione professionale dei social con l’associazione che si occupa di educazione digitale o l’azienda che cerca una location d’impatto con la comunità energetica del territorio», racconta. L’altra leva di successo è la capacità di accoglienza dei ragazzi: «Basta metterci un po’ di attenzione».

Tra ottobre 2024 e marzo 2025 Officina Badoni ha ospitato 92 eventi nello spazio dell’Auditorium, di cui 42 di associazioni e ha avuto 35 richieste per l’aula corsi (di cui numerosi corsi su più giorni).
Sembra banale, ma non lo è: «Bisogna lasciare dei buchi, degli spazi aperti. Se riempi tutto, anche a fin di bene, non lasci spazio per chi si affaccia e vede che lo spazio è già tutto occupato. Come fa uno a suonare il campanello, allora? Come fa ad entrare l’imprevisto?», conclude Nasazzi. Davanti al caffé anarchico di Offi Coffee, immersa in un contesto così vivace e vitale, ha ragione chi dice che non è che i giovani oggi non abbiano niente da aggiungere: il problema è che non gli lasciamo spazi.
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