Sarantis Thanopulos

«Occorre aprire un dibattito sulla guerra, non isoliamoci in casa»

di Luigi Alfonso

Il presidente della Società Psicoanalitica Italiana spiega che cosa sta facendo la Spi a favore dei profughi ucraini e russi, ma anche di coloro che vivono in Italia e manifestano un grave disagio. La salute mentale presentava gravi sintomi da tempo, con la pandemia è in netto peggioramento. Rafforzare il sistema pubblico per dare forza anche alle realtà sociali del Terzo settore

La guerra in Ucraina ha mobilitato su più fronti anche la Società Psicoanalitica Italiana. Sarantis Thanopulos, che la presiede da 4 anni, ci spiega che «sono tanti i colleghi e gli amici ucraini rimasti coinvolti in questo conflitto, non possiamo stare di certo a guardare».

Thanopulos, lei è impegnato da tempo a dare slancio alla dimensione della salute mentale pubblica. Ma, in queste settimane, il direttivo della Spi ha dovuto raddoppiare gli sforzi. Nei giorni scorsi, nel sito ufficiale, avete rilanciato un video realizzato dagli psicoanalisti ucraini, nel quale raccontano la tragedia vissuta sulla loro pelle.

«Lo abbiamo fatto in primo luogo per un senso di solidarietà nei loro confronti. Hanno perso il lavoro ma non è solo una questione economica: è anche, e soprattutto, un impegno che è una ragione di vita, pieno di passione. C’è chi ha perso la casa, se non addirittura qualche familiare o amico. Diversi si sono rifugiati all’estero. C’è un disagio enorme che tutti gli psicoanalisti devono conoscere: è il dramma di una psicoanalisi ferita gravemente, di una visione importante della cura psichica che va sostenuta in un Paese devastato dalla guerra».

C’è poi un altro motivo, forte.

«Sì, il desiderio di dare voce a vissuti di dolore e smarrimento, che riguardano l’intera Europa. Vogliamo coinvolgere tutti nella diffusione di un messaggio di sofferenza, di disperazione, di resistenza umana, di fiducia nel futuro, e anche di speranza, nonostante tutto. Vogliamo contribuire a un clima di partecipazione emotiva collettiva. Dobbiamo renderci conto che in Ucraina si gioca il futuro della pace, che oggi è più fragile di come l’abbiamo conosciuta dopo la Seconda Guerra mondiale. Una pace precaria, mai rispettata del tutto, ma pur sempre lontana da una rottura insanabile. Si gioca anche il futuro della democrazia, anch’essa oggi più che mai vulnerabile».

In questa fase, la Società Psicoanalitica Italiana sta lavorando essenzialmente su tre livelli differenti. «Siamo partiti dalla solidarietà concreta tra psicoanalisti. In Ucraina i nostri colleghi rischiano di sparire (la Spi infatti sta raccogliendo fondi per loro e si è messa a disposizione per l’accoglienza in tutta l’Italia, ndr). Dunque, diamo supporto psichico ai profughi, che siano ucraini che vivono direttamente l’aggressione oppure russi che lasciano il loro Paese per malessere e sconforto. Ma non solo: pensiamo ai tanti che, da anni, vivono e lavorano in Italia e sono in grande sofferenza per i loro cari. C’è poi un lavoro di sensibilizzazione: viviamo in un mondo poco solidale, in cui ci interessiamo poco a quello che accade oltre il nostro cortile di casa. Vogliamo dire con forza e intensità che siamo tutti ucraini, ma non nel senso retorico della parola, bensì perché siamo tutti minacciati dalla guerra e dall’isolamento. È necessario reagire a questa mortificazione dell’anima, resistere per sentirsi vivi. Non lo facciamo soltanto per i profughi di guerra, sia chiaro, lo facciamo anche e soprattutto per noi, perché non siamo diversi da chi sta sotto le bombe. Siamo tutti psichicamente nella stessa situazione, nello stesso pericolo, nello stesso dolore. Aiutando gli altri, aiutiamo noi stessi. Ci teniamo vivi con i nostri sentimenti».

Come stanno reagendo gli italiani?

«Al di là della giusta indignazione e della solidarietà, che pure fanno parte dei sentimenti di tutti, non ho la sensazione che la maggior parte della popolazione italiana stia percependo sino in fondo il pericolo che incombe su tutti noi. La consapevolezza della posta in gioco è minima, e forse è più orientata sul versante economico. La guerra sembra lontana, e molti reagiscono come è accaduto in questi due anni di pandemia, cioè rinchiudendosi nel loro habitat: la casa e le loro abitudini. Ci si difende dal pericolo ignorandolo. Ma non può funzionare. Ne siamo usciti più fragili di prima, ma è più onesto dire che già negli anni passati si registrava una situazione di seria sofferenza. Isolamento e distanziamento tra di noi hanno creato condizioni psichiche di vita difficili. In giro non c’è un buon clima».

Gli italiani, dunque, a suo avviso non sono in ansia o sotto stress?

«Posso parlare di chi si rivolge a noi per lavorare sul proprio dolore. Loro sì, sentono il peso e il pericolo della guerra. Non perché sono più sofferenti degli altri, ma perché, facendo un’analisi hanno deciso di mettersi in gioco. Per il resto non vedo grande coinvolgimento. Posso sbagliarmi, ma non credo che i genitori parlino della guerra con i loro bambini. Nelle scuole c’è silenzio e pochi bambini stanno facendo domande sulla guerra. Il mio non è un giudizio morale, attenzione, è una semplice considerazione. Ho visto che anche nel Parlamento tedesco è accaduto qualcosa di simile: dopo l’intervento di Zelenski, finito con un’ovazione, hanno chiuso frettolosamente la vicenda per parlare di altri argomenti. C’è sicuramente uno stato di allerta generale ma funziona come patina di superficie rispetto a una elaborazione profonda dei nostri vissuti di perdita, paura e angoscia. È come se lo stato di allerta ci consentisse di mantenerci a debita distanza da ciò che accade. L’allerta crea una sorta di anestesia, favorita anche dal bombardamento mediatico. Non si è generato un dibattito vero. Si spettacolarizzano certi aspetti del dramma delle vittime, si valutano aspetti strategici di carattere generale, ma non si va ad approfondire, a interrogare ciò che più ci tocca o dovrebbe toccarci sul piano umano. E questo è accaduto anche con altre guerre o tragedie, penso agli attraversamenti del Mediterraneo: è il nostro modo di viverle e affrontarle. Siamo sicuramente peggiorati con la pandemia. Ed è un problema che coinvolge praticamente tutti i Paesi del mondo, non è solo un problema italiano. Ovviamente con le dovute eccezioni, che non mancano e sono anche importanti, ma anche stavolta temo rappresentino una minoranza».

Un mondo in costante apnea, dunque?

«Mi preoccupa un po’ il fatto che, anche all’interno della società civile tradizionalmente più pronta a farsi carico di queste questioni e a dibatterle, ci sia una strana divisione tra l’idea di difendere un popolo castrato nella sua libertà e il fascino dei giochi geopolitici che ci porta a schierarci ora con quello, ora con quell’altro. Perdiamo di vista la realtà perché osserviamo il dito e non la luna. Nell’insieme, per quanto non riusciamo ad elaborarlo in profondità, c’è un generale sentimento di opposizione a qualcosa di per sé violento che non può essere giustificato, ma occorre andare oltre, verso un’idea propositiva della giustizia, della convivenza paritaria, del rispetto reciproco verso una cultura dell’intesa tra le differenze, se vogliamo costruire un futuro migliore».

In Italia ci sono state molte lamentele e critiche per l’esiguità dei fondi nazionali messi a disposizione per il supporto psichico nel periodo della pandemia.

«C’è una reale difficoltà nel rendersi conto che la salute mentale è fondamentale per la democrazia e il buon funzionamento del Paese. È storicamente trascurata. Non è solamente una questione politica, e devo pure dire che ultimamente c’è un’attenzione nuova. Ma esiste una consolidata cultura di gestione della società che non include i bisogni psichici tra i bisogni reali dei cittadini. Così, non si investe più di tanto. È arrivato il momento di rendersi conto del fatto che l’abbandono della sofferenza psichica più grave e destrutturante intossica tutta la società. Purtroppo, ci sono tentativi estemporanei di risolvere il problema (un voucher o un intervento parziale, a macchia di leopardo) ma dovremmo passare per il rafforzamento del sistema sanitario pubblico e una più stretta collaborazione con le società scientifiche e il mondo del privato sociale. Non c’è un progetto mirato, una dimensione propulsiva che impegni l’immaginazione e le passioni di tutti coloro che nella cura psichica (operatori del settore pubblico e specialisti privati) lavorano in un progetto di umanizzazione della cura. Viviamo di emendamenti dove prevalgono le lobby più forti e influenti politicamente, e tra di loro non ci sono i lavoratori della salute mentale. Occorre una prospettiva unitaria, sufficientemente ampia e chiara nell’indicare gli obiettivi da raggiungere. Bisogna rafforzare il sistema pubblico, da lì si parte. A quel punto si potrà dare forza anche a tutte le realtà sociali del Terzo settore che operano a favore della comunità».

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