Antonio Danieli

“Obiettivo 2065, così manterrò la promessa fatta a Golinelli”

di Giampaolo Cerri

Parla il direttore generale della Fondazione intitolata al grande industriale-filantropo, Marino Golinelli, scomparso nel febbraio scorso. Programmi fra arte, cultura, educazione e ricerca, con una società ad hoc per incubare le start-up innovative

Marino Golinelli se n’è andato nel febbraio scorso, alla fine di una vita durata tantissimo, 102 anni, piena di soddisfazioni (creò il gruppo farmaceutico oggi Alfa-Sigma). Una vita piena di frutti di bene, come la Fondazione filantropica che, a Bologna, porta il suo nome e che è, dal 1988, riferimento per arte, cultura, educazione, ricerca e, da qualche anno, anche innovazione tecnologica. Già, ma come procederà la Fondazione Golinelli senza Golinelli? Siamo andati a chiederlo al direttore, Antonio Danieli.

Danieli, quanto è difficile portare avanti questa eredità, oggi?

È una grande responsabilità, ovviamente. Golinelli però una strada l’aveva già tracciata: è stato anche un uomo lungimirante. Fra il 2015 al 2016 aveva “fatto un passo di lato” e nominato il presidente il professor Andrea Zanotti (nella foto sotto, a sinistra di Golinelli, ndr). Aveva indicato un percorso di sviluppo futuro, per gli anni a venire e un piano programmatico che aveva denominato Opus 2065.

Si definiva filantropo e non mecenate…

Esatto, non si riteneva un generoso ma una persona che, semplicemente, faceva quello che doveva fare. Perché un imprenditore, secondo Marino Golinelli, aveva il dovere morale, la responsabilità, di restituire parte della sua ricchezza. Anche nel suo amare l’arte, non si definiva un collezionista ma un ricercatore che, attraverso l’arte, attraverso gli artisti, aveva bisogno di capire il mondo. Un uomo che aveva passione, curiosità, immaginazione, creatività e coraggio. Aveva tutte queste caratteristiche. E le aveva in una maniera feroce!

Mi par di capire che Golinelli fosse anche un educatore, nel senso che queste qualità le trasmetteva, magari per osmosi.

Sicuramente alcuni elementi cardine, soprattutto nei valori etici, cioè la responsabilità. Non si stancava di dire alle attuali giovani generazioni, di appassionarsi all’obiettivo. Diceva sempre: "Non abbiate paura del futuro", ma non perché lui non ne avesse paura, non era un superman indistruttibile, quanto perché aveva il coraggio di affrontare le cose. E ai giovani diceva: "Affrontate il futuro imprevedibile, affrontatelo con la conoscenza, con l’educazione".

Aveva un trasporto per i giovani.

Il tema fondamentale per lui era quello: insegnare ai giovani a crescere. Ma questo è un lavoro anche a 360° intorno all’uomo. Appassionarsi, darsi degli obiettivi per costruirsi uno sviluppo futuro, per se stessi e anche e soprattutto per la società. La restituzione, che ha caratterizzato la sua vita, la proponeva anche agli altri, come metodo.

Dava questo valore enorme all'istruzione, c'è sempre questo fil rouge nelle cose che fate.

La fondazione è nata nel 1988 ma, inizialmente, pensava solo all’erogazione: dava risorse per la ricerca scientifica, per colmare alcuni aspetti di ritardo, in una cultura italiana prettamente umanistica, nell’ambito tecnologico. A cavallo del 2000, Golinelli ha proprio sterzato e ha deciso, come orientamento operativo, la fondazione investisse soprattutto nella formazione, creando il primo centro di formazione italiano nel campo delle scienze della vita, il Life Learning Center, su ispirazione del premio Nobel, James Watson, lo scopritore del Dna che, a New York, aveva fatto il Dolan centre.

Svoltato il secolo, avete accelerato

C’è stata una evoluzione esplosiva: dal centro di formazione siamo passati alla “Scienza in piazza”, che voleva essere come il Festival della scienza di Bergamo, o di Genova: grandi espressioni divulgative scientifiche. O come la Città della scienza di Napoli o o il Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, di cui lui è stato vicepresidente dal 2002, per tre anni. Ha portato anche la fondazione ad aiutare a divulgare, ad ampliare la conoscenza, soprattutto anche verso la società. Quindi l’obiettivo non è stato solo l’aspetto formativo del singolo ragazzo ma far crescere la società della conoscenza. Il tutto sempre accompagnato dalla comunicazione, per la quale Golinelli aveva una autentica ossessione.

Ricordiamola.

Un’idea di comunicazione non autoreferenziale, intendiamoci, non per dire “guardate come sono bravo e come è brava la fondazione Golinelli”, ma come viatico della divulgazione culturale. Il suo obiettivo era fare uscire la cultura dalle accademie, portarla ai tanti che ne sono fuori. L'importanza del messaggio, ci ricordava, è altissima ma se non andavano i microfoni si imbestialiva!

Vedendo la vostra sede, si capisce come annettesse un grande valore alla bellezza dei luoghi. Tanto è vero che ha chiamato architetti come Mario Cucinella a progettare ristrutturazioni e recuperi.

Credeva nella necessità di luoghi in cui l’essere umano si trovi pienamente a suo agio e quindi la componente artistica, da un lato ti suggerisce un messaggio culturale che è strumento di conoscenza, dall'altro è essa stessa condizione per stare bene e avere un benessere, un welfare e a 360 gradi.

“Welfare a 360 gradi” è un’espressione bellissima.

Sì perché Golinelli, nel welfare, ci vedeva anche la bellezza. E questo, dopo, ha avuto un riflesso nell’Opificio Golinelli. Un luogo che mettesse insieme, in maniera integrata, realtà anche diverse: giovani generazioni ma anche sui ricercatori, imprenditori, professionisti. Oggi è la moderna Fondazione, evoluta in un ecosistema e che mette insieme educazione, formazione, ricerca, trasferimento tecnologico e creazione dell’impresa e arte scienza e cultura.

Che cos’è oggi, l’Opificio?

Un luogo di speculazione culturale che sostanzialmente è un centro di ricerca, una sorta di accademia in cui umanisti e scienziati riflettono con noi su quello che può essere il futuro dell’essere umano.

Perché c’è questa attenzione verso il futuro?

Perché nel momento in cui formiamo 100 mila ragazzi e ragazze all’anno, ormai un milione e mezzo da quando ci sono io, c’è il senso di responsabilità nel chiamare in correità le menti per dire: “Dove stiamo andando? Non è che ci facciamo trascinare dalle fisime…”.

Spieghiamolo bene.

Parlo del rischio di farsi trascinare da eventi, di farci guidare dall’intelligenza artificiale, dagli algoritmi che governano ormai tutti i processi comunicativi. Questo ha molto a che fare con l’etica, con la bellezza, con l’estetica, con la spiritualità, con la trasversalità delle conoscenze.

La modernità del pensiero di Golinelli è stata anche concepire, alla fine degli anni ’80, un soggetto che, di fatto, in Italia non c’era.

Si rifaceva ai modelli anglosassoni di cultura prettamente calvinista, perché lui voleva creare un modello di fondazione che non fosse un’istituzione mecenatistica o che si occupasse, in maniera volontaristica o sussidiaria rispetto allo Stato, di colmare dei bisogni specifici, dove magari la mano pubblica non arrivava. Puntava a un’istituzione con un approccio filantropico ma strategico, a programmare e a progettare insieme alle istituzioni pubbliche.

Poi vi siete messi anche a sostenere startup, con G-Factor.

Le accompagniamo nella creazione, le vogliamo far crescere, siamo venture builder, cioè vogliamo costruire le aziende, ci mettiamo intorno alle aziende per farle crescere. Poi dopo, quando stanno crescendo, le rilasciamo ad altre società o a fondi di venture capital più importanti, che metteranno fondi per fare un salto qualitativo superiore. A quel punto facciamo la exit, ossia vendiamo la nostra partecipazione, e quei fondi li re-investiamo in altre attività. Però, come dire, operiamo “nella valle della morte”.

Ossia in condizioni di forte rischio?

Dove sappiamo che altri attori, per loro natura, non possono arrivare: il fondo che debba restituire i denari agli investitori, difficile che abbia un così alto grado di rischio per arrivare lì. Noi cerchiamo di farli uscire dai laboratori…

Filantropi anche in quello. Facciamo un esempio tra le startup già incubate?

Abbiamo investito in questi anni su 18 realtà. Di due ne abbiamo già fatto exit totali, come Relief, che nasce dallo spin-off del Sant’Anna di Pisa, e adesso è stata acquisita da un’azienda toscana, filiale di una multinazionale, la Santex…

Robotica?

Produce un device per il problema dell’incontinenza urinaria, sia in caso di malattia sia per effetto dell’eccessiva sedentarietà. Poi abbiamo già rilasciato Lighthouse, che ha progettato un dispositivo elettronico per il monitoraggio e la prevenzione delle cellule tumorali, e Bionits Lab, una startup che ha progettato una mano robotica per i casi di amputazione. Un sistema di intelligenza artificiale che consente a tutte le dita di muoversi, di prendere degli oggetti, con una presa adattiva.

Parliamo della governance di Fondazione: mi pare che Golinelli abbia innovato anche in questo.

Siamo snelli, secondo una volontà che parte dal fondatore. Un fattore fondamentale, perché vediamo un proliferare di comitati, di comitati di gestione: a volte il moltiplicarsi di queste commissioni, portano a non capire di chi sia la responsabilità. La chiarezza, la rigidità dentro l’obiettivo dell’investitura è fondamentale, dopodiché è essenziale l’agilità che consente l’operatività.

Anche l’architettura organizzativa colpisce.

Sì credo che siamo tra i pochi ad avere una fondazione che fa da holding a società profit le quali devono far bene il loro mestiere. Un modello della filiera integrata, a mio avviso importante e che vediamo sempre di più. Siamo partiti dalle città della scienza, poi i fab lab e adesso abbiamo i grandi centri culturali innovativi, che mettono insieme educazione, formazione, trasferimento tecnologico. Penso alle Officine delle grandi riparazioni a Torino (Fondazione Cassa Risparmio Torino), alla Cariplo factory a Milano (Fondazione Cariplo). Secondo me il ragionamento è figlio di un contesto storico e si sta capendo che quella è la direzione

Come se fosse nato un movimento

Un movimento virtuoso e questa è la direzione, il messaggio importante che intercetta l'evoluzione della filantropia italiana. Si fa largo lo spirito calvinista cui accennavo prima, rispetto a quello tradizionale italiano molto collegato al mecenatismo, al dono, all’ assistenza. Insomma il Terzo settore non è più solo sussidiario ma anche strategico, questo è fondamentale. C’è l’approccio di poter essere un terzo pilastro, come il contesto anglosassone è stato con i tre pillars della società, in maniera un po’ più strutturale che possa dialogare in maniera positiva. Il denaro, il profitto, ci vuole! Ma va redistribuito!

Un concetto che chi scrive ancora “No profit” non ha capito.

Figurasi. La Fondazione la gestiamo con approccio manageriale, per cui un euro viene dal fondatore, un euro viene dalla attività che facciamo: così riusciamo a dare continuità e io mi posso prendere la responsabilità di mantenere le promesse che ho fatto al cavalier Golinelli di arrivare al 2065.

La sfida futura per la Fondazione, qualcosa che sta in questo 2065 dal quale, Golinelli diceva, si sarebbe visto “quello che viene dopo, si vedrà il 2088”.

Sicuramente gli ultimi sei anni sono stati di grande sviluppo: un salto quantico anche per noi. La sfida è dar gambe e fiato a questo modello, farlo uscire dal territorio in maniera consacrata e definitiva: passare da quello regionale a un ambito nazionale ma anche internazionale. Parlandone con grande entusiasmo ma senza perdere il senso delle proporzioni di quello che siamo e di quello che facciamo, per cui è evidente che, nonostante i numeri che possono sembrare roboanti, siamo sempre un cucchiaio nel mare.

Ricordiamo però il valore economico di questa opera.

Golinelli ha messo un centinaio di milioni di risorse in questa fondazione ai valori attuali. Però la sfida, per noi, è diventare un “riduttore”, che inneschi cioè un contesto sociale più ampio.

Nello specifico?

Nuove collaborazioni, come stiamo facendo con dei partners industriali, ma anche con l’Alfa Sigma, azienda fondata dal cavalier Golinelli, che stiamo realizzando con altre istituzioni, col Governo, per vedere se l’impatto che abbiamo generato possa servire, a dar vita ad altro, a livello nazionale. Significa collaborare con la ricerca, come stiamo facendo con l’Istituto Italiano di Tecnologia-IIT di Genova e con molti istituti e atenei italiani. Obiettivo: creare un volano, non dico una nuova Silicon Valley – lasciam fare – ma qualcosa per il bacino del Mediteraneo.

Credits: la foto di apertura è di Rodolfo Giuliani, la seconda di Massimo Paolone, le altre di Giovanni Bortolani.

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