Giorgio Brizio

«Non siamo gente che abbraccia gli alberi»

di Redazione

È uno dei volti emergenti del movimento Fridays For Future a Torino e ha appena scritto un libro per Slow Food Editore: "Non siamo tutti sulla stessa barca". E racconta a VITA la generazione che si batte per un forte impegno sul cambiamento climatico

Giorgio Brizio si definisce un sognatore eccezionale, qui il suo profilo Instagram con quasi 8mila follower, , così come tutti coloro che hanno a cuore la transizione ecologica. Del resto, come ricorda lui stesso, ne è proprio l’anagramma. Classe 2001, il giovane attivista ha scritto un libro in cui affronta le tematiche ambientali e migratorie (Non siamo tutti sulla stessa barca, Slow Food Editore). Lo abbiamo incontrato per farci raccontare l’attivismo dalle nuove generazioni.

Quando si è avvicinato all’attivismo?

Ho frequentato a Torino il liceo Altiero Spinelli, grande sognatore e fondatore dell’Unione Europea. Ed è effettivamente una scuola che è rimasta nel suo segno, dandomi gli strumenti per allargare le mie vedute. Qui, ho frequentato un corso di debate con focus sul cambiamento climatico: è stata proprio quest’esperienza ad acuire la mia sensibilità verso il tema.

Se prima pensavo che il cambiamento climatico riguardasse solo api, orsi e koala, durante gli anni del liceo ho capito che che la crisi ambientale, invece, riguarda tutti: soprattutto la vita delle persone. Così, per caso, l’1 febbraio del 2019 sono entrato in contatto con i Fridays For Future, che all’epoca a Torino erano appena agli inizi. Ciononostante, ho deciso di fermarmi e prenderne parte per il bisogno di affrontare la crisi climatica che, di fatto, è una crisi sociale.

E ha a che fare anche con le persone del nostro Paese. Sono moltissime quelle persone che in Italia ne vengono colpite: dai pescatori di Mazzara del Vallo agli agricoltori dell’Agro Pontino, fino agli apicoltori di Treviso e ai lavoratori delle risaie piemontesi. Per non parlare delle morti premature dovute all’inquinamento atmosferico, un altro problema che ci riguarda solo se siamo capaci di aprire gli occhi.

Nel suo libro parla di crisi climatica e tematiche ad essa correlate. Perché, nello specifico, proprio del fenomeno migratorio?

Io sono mezzo siciliano, i miei genitori sono di Modica: che è alla stessa altezza di Tunisi. Il Mediterraneo centrale – compreso tra Libia, sud della Sicilia e nord della Tunisia – ricopre una posizione cruciale per quanto concerne la crisi climatica e, dunque, il fenomeno migratorio. Se è vero che il cambiamento climatico tocca tutta la superficie terrestre, è importante ricordare che ci sono aree che subiscono il surriscaldamento in modo molto più intenso. Tra queste figura anche l’area del Mediterraneo centrale, la cui temperatura presenta uno scarto di +1.58°; sebbene l’Accordo di Parigi preveda un aumento massimo della temperatura media globale di +1.5 gradi Celsius. Questa è solo una delle ragioni per cui dobbiamo preoccuparci della situazione climatica.

Negli ultimi dieci anni, il Mediterraneo centrale è diventato il luogo in cui muoiono più migranti. Allora, credo sia necessario fare un esercizio e pensare che tra tutte le barriere – tra muri e filo spinato – la più letale è proprio davanti a casa nostra. Nel Mediterraneo. Qui, si gioca l’idea di Unione Europea che si sognava Spinelli ed è nostro compito provare ad agire e reagire.

Cosa vuol dire essere attivista oggi?

La parola “attivismo” ha un significato molto bello, perché richiama all’essere attivo, che non è prestabilito e immutabile, bensì un tratto che si può plasmare nel tempo sulla base delle urgenze della storia e in base alle persone coinvolte.

Innanzitutto, essere attivista vuol dire non aver paura di essere scomodi. Vuol dire provare a dire le cose come stanno, aspettandosi di ricevere qualche porta in faccia. Ci sono tante modalità per fare attivismo, questo è il valore aggiunto del termine. Io, per esempio, faccio attivismo perché oltre a essere giusto e utile, mi piace davvero molto. Mi piace perché mi dà l’opportunità di incontrare quelle persone fuori dall’ordinario che ti cambiano la vita e ti danno accesso a nuove prospettive.

Finché gli attivisti verranno visti come persone stravaganti che abbracciano gli alberi o, d’altra parte, solo come persone noiose dedite alla stesura di manifesti, allora l’attivismo non diverrà mai accessibile. Quello che dobbiamo fare è innescare il meccanismo inverso, affinché la comunicazione sia fruibile e coinvolgente.

Una delle poche cose di cui siamo certi è che per arrivare al cambiamento bisogna essere in molti. Soprattutto davanti al fallimento delle persone ordinarie, ovvero i rappresentanti istituzionali – che mancano di trattare temi di attualità come la crisi ambientale e il fenomeno migratorio – devono farsi avanti gli attivisti. Non di rado, infatti, assistiamo alla nascita di “azioni non governative”: si tratta di iniziative sociali perpetuate da comuni cittadini che si dedicano al prossimo, occupando quegli spazi che di fatto spetterebbero alle Istituzioni. Penso a Medici senza frontiere, Mediterranea, Open Arms e molte altre. Concludo dicendo che abbiamo bisogno di una transizione ecologica che sia vera a giusta e che coinvolga lavoratori e lavoratrici. Solo così potremo scongiurare l’insorgere di nuovi scontri, perché se la pace è rinnovabile, la guerra è fossile.

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