Ad anniversari alterni, torna a suscitare clamori a mezzo stampa l’ipotesi di una riapertura dell’inchiesta sulla morte di Pier Paolo Pasolini. Ogni volta, il discorso si ripiega inesorabilmente su questioni di dettaglio e, in un modo o nell’altro, ricolloca Pasolini in un «mondo piccolo» che non gli compete. Ma oggi non è nemmeno il "vuoto" di potere, denunciato da Pasolini, a fare problema. Oggi è il troppo pieno di un potere che non ha più un fuori e non ha antagonisti.
Ne parliamo con il filosofo Michael Hardt coautore, con Toni Negri, di libri come Impero, Comune, Moltitudine.
Il sogno e la cosa
Proviamo a aprire un altro discorso, partendo dal giorno dopo la sua morte. Intendiamola come dies a quo, non ad quem. Come inizio, non come termine.
La mia ipotesi è che Pasolini sia guidato da ciò che potremmo chiamare un comunismo del fuori. È un’idea che nasce già nel suo periodo friulano, quando Pasolini scopre sia il desiderio sessuale, sia il comunismo come lotta che esiste solamente fuori. All’epoca, questa lotta era possibile nell’area contadina friulana, non solo come lotta fuori dal capitale – pensiamo alle lotte del 1948, ad esempio – , ma anche fuori da tutta la società borghese.
Questo fuori è evidente, soprattutto nel Sogno di una cosa, scritto tra il 1949 e il 1950, ma pubblicato solo nel ’62. In particolare, pensiamo alle descrizioni del tentativo di forzare il fuori, penetrando nelle casa signorili, per rivendicare il rispetto del Lodo de Gasperi, che prevedeva una distribuzione equa delle terre.
Infatti, soprattutto nella prima parte del libro, che fa riferimento al 1948. Questo comunismo si sovrappone a un desiderio che funziona solamente fuori: è in questa dinamica che io leggerei tutta l’opera di Pasolini. Un’opera che è la costante ricerca di questo fuori: dall’universo contadino friulano, al sottoproletariato di Roma fino al Terzo mondo. Il fuori è, beninteso, anche un fuori mistico-cristiano, mistico-greco
Pensiamo ai suoi film: Teorema è la costruzione del fuori mistico cristiano, Medea quello del mistico greco. Attraverso questa dinamica è possibile ricostruire il percorso del pensiero italiano dell’epoca, anche in negativo.
Per Pasolini, però, un comunismo di ciò che è dentro – le lotte operaie dentro il capitale o dentro il nucleo delle città borghese – viene escluso da principio. Nei dibattiti che, all’epoca, si svolgevano tra gli intellettuali e i militanti del PCI e gli operaisti, Pasolini aveva una posizione chiara, precisa, netta e persino innovatrice.
Però, quando arriviamo a Petrolio le cose si complicano.
Si complicano, perché la società postmoderna e il correlativo potere che sta tentando – con la scrittura e la carne – di afferrare non hanno più un fuori. Questo è sia la crisi, sia l’importanza della sua ricerca letteraria. La sua ricerca letteraria e politica, in Petrolio, è racchiusa in questa domanda: come capire un potere fluido, decentrato, e quindi di nuovo tipo, che non lascia un fuori? Come trovare un’alternativa individuale, affettiva, sentimentale, ma anche alternativa sociale a questo potere? Da quest’ottica, Petrolio diventa un’opera centrale dell’opera di Pasolini. Centrale ma centrata su un centro vuoto..
ll centro vuoto del potere
Una «orgia di cinismo» ideale mista a «brutalità pratica». Pier Paolo Pasolini il potere lo descriveva e lo vedeva così, sottolineando fino a che punto il groviglio – parole sue – di «compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati di massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione» che andava montando nella società del «progresso privo di sviluppo» mostrasse tratti sempre più simili a quelli di una melma nera, vischiosa e cruenta come un mare invaso dal petrolio. L’immagine stessa del petrolio rimanda a un materialmente confuso e denso, difficile da afferrare con i soli strumenti di una ragione politica che, al contrario, nel potere scorgeva e scorge unicamente forme o istituzioni ineffabili o procedure chiare. La figura del petrolio segna un’impasse, produttiva però, nel percorso pasoliniano: non è più il potere definito dalla doppia spazializzazione Palazzo-Piazza, o dentro-fuori, ma una disseminazione contaminante, del potere stesso, un rapporto osmotico se vogliamo, tra dominati e dominanti, così come in Salò o le 120 giornate di Sodoma il rapporto vittima-carnefice era segnato, e confuso, dalla doppia e reciproca erotizzazione…
Pasolini riconosce la fine di una certa ideologia e la necessità di fare i conti con il nuovo potere e la nuova società. Mi piacerebbe capire, purtroppo la sua vita si è fermata lì, “cosa” o quale alternativa sociale avrebbe trovato, se fosse vissuto, dentro questa società. Perché spesso Pasolini sbaglia, secondo me. Sbaglia, ad esempio, quando dice che il nuovo potere è un potere di omogeneizzazione.
Sbagliava?
Secondo me sì. Soprattutto sul potere omogeneizzante. Le sue ricerche sono varie in questo campo, soprattutto sulla lingua, una omogeneizzazione nazionale della lingua e la scomparsa dei dialetti, ma, anche a livello mondiale, l’estinzione delle culture africane, del Terzo mondo. Secondo me anche l’immagine del potere in Petrolio è diversa, perché dentro si ritrova una diversificazione nel potere e nella società, per il potere non è più necessaria l’unità e l’omogeneità. È più difficile da leggere, perché il potere è diventato diversificazione, una produzione di differenze. Se il potere fosse soltanto il “Palazzo” che domina con un’unica legge si potrebbe facilmente immaginare un’alternativa, una risposta la troveremmo. Leggere questa immagine di un potere globale o globalizzante decentralizzato e con differenze interne, un potere che regge proprio attraverso le differenze, è la sfida che ritrovo in Petrolio, nel romanzo, e corrisponde anche a ciò che a me interessa riguardo alla ricerca sul potere globale.
Potremmo ritornare all’immagine di un mondo interamentre inscritto dentro il capitale. Forse per questo, non trovandolo più, Pasolini cerca ci costruirsi un fuori, mitizzando un mondo che non c’è: dall’universo contadino, all’Africa. Falso, fittizio quanto si vuole, ma la produzione di differenze messa in campo da questo potere diventa un problema per lui. Come e dove trovare una differenza non “indifferente”?
Esiste la possibilità di alternative che nascono dentro la società dominante… Per anni, gli operai industriali, le lotte operaie gli sono sembrate non un’alternativa al capitale, ma una specie di riproduzione interna delle logiche di questo capitale. Io la leggo così la difficoltà di Pasolini, anche rispetto ad altri poeti del tempo tipo Fortini o Balestrini. Poeti che non hanno vissuto l’esperienza contadina di Pasolini, ma hanno vissuto la dimensione operaia di una creazione dentro il capitale, in maniera completamente marxiana, nel concepire l’idea che l’alternativa più potente al capitalismo nasce dal suo punto più centrale, più interna, non dal fuori.
La carne o il termometro del divenire
Il capitale produce differenze, ma produce anche desiderio. Come sottrarsi a questa logica perversa? È una domanda chiave, in Petrolio, laddove Pasolini mette in gioco continue metamorfosi. Per lui il problema non è come “liberare” il desiderio, ma come desaturarlo attraverso continui spiazzamenti. Fortini individuava una costante pasoliniana nella sineciosi, figura retorica con la quale di uno stesso soggetto si affermano due contrari. Potremmo sostenere che è l’oscillazione tra due contrari, continua, spiazzante la chiave che glicompete…Questo spiazzamento, oscillazione inesausta, oxymoron, contraddizione è lo scandalo-Pasolini. Ecco, scriveva in una lettera a Marco Bellocchio, «c’è dunque uno scandalo che si dà ma non si vuole dare. C’è qualcosa che scandalizza per il fatto stesso che è come è. È la sua natura che scandalizza: perché, per una ragione o l’altra, è una natura “diversa”» [Pier Paolo Pasolini, Uno scambio epistolare Pasolini-Bellocchio, in Marco Bellocchio, I pugni in tasca, Garzanti, Milano 1967, p. 21]. Questa diversità è «decentramento / ottenuto nello spazio delle teste, in luoghi per pochi, / privilegio rovesciato in rivolta, partecipazione in carne e ossa» [Pier Paolo Pasolini, Medea, Garzanti, Milano 1970, p. 127]. Carne e ossa. E la carne, scrivevano Deleuze e Guattari, «non è che il termometro di un divenire».
Divenire donna e divenire animale come lettura deleuziana-guattariana del romanzo. Questa mi sembra una prospettiva molto promettente. Perlomeno nell’ottica di trovare un’alternativa al potere-petrolio. Stavo pensando, mentre tu parlavi del desiderio, che già formalmente questi eventi sessuali con venti ragazzi…questo in sé non mi sembra qualcosa di nuovo nell’opera pasoliniana. Certamente c’è l’elemento dello shock, scandalistico, ma questo fa parte dell’opera pasoliniana di quel periodo. Invece, il punto di divenire, la trasformazione interna di Carlo stesso, questa mi sembra una mutazione del desiderio molto più importante, e quindi non l’estinzione del desiderio nell’omogeneità del potere, ma, piuttosto, il divenire e la trasformazione dentro un potere polimorfo.
Forse è in questo divenire una delle chiavi di volta del problema-Petrolio? In Salò è chiaro: siamo in un mondo in cui tutto è ridotto a oggetto. Ma in Petrolio, per parafrasare le parole di Sade, al lettore è chiesto di più. Non gli è concesso uno scenario piatto. Per questa ragione, non c’è solo lo sdoppiamento tra i due protagonisti (Carlo di Polis e Carlo di Tetis), ma anche il tentativo di cambiare sesso, di lottare per questo cambiamento e per questa differenza dentro, non solo fuori di sé. L’Appunto 51 di Petrolio racconta il cambiamento di sesso di Carlo di Tetis: «II petto di Carlo si appesantì. Era un peso innaturale, un cumulo che lo schiacciava lievitando. Nel tempo stesso, il basso ventre si alleggerì e si svuotò. Cadde la coscienza del membro che in Carlo era un “basso continuo”, una nota senza fine. Mai, per un solo istante, mai, egli dimenticava quella carne in cui urgeva come una bolla che non può evaporare: il desiderio, miscuglio di dolcezza, sfinimento, bruciore: un cerchio indefinibile nella carne molla intorno alla glande, che aveva continuamente bisogno di carezze, di stringimenti, di tiramenti, per ottenere un sollievo che naturalmente non avrebbe mai ottenuto.[…] Andò dritto in camera e si spogliò, guardandosi al grande specchio disadorno dell’intimità virile. Subito vide che cosa era successo di lui. Due grandi seni gli pendevano – non più freschi – nel petto; e nel ventre non c’era niente: il pelame gli scompariva tra le gambe, e solo toccandola e allargandone le labbra, Carlo, con lo sguardo lucido di chi ha imparato da un’esperienza di bandito la filosofia del povero, vide la piccola piaga che era il suo nuovo sesso». È un mostro, per la società.
La nascita di un mostro, un mostro capace di una bellezza alternativa, un mostro che esce dal grottesco. L’idea di nuovi mostri potenti. Abbiamo dunque due alternative nella logica pasoliniana. La prima è data un potere omogeneizzante centrale, capitalistico-fascista, e l’unica opposizione a questo potere è il fuori. Nella topografia dell’ultimo periodo, invece, il potere è polimorfo, fluido, espansivo. Un potere dove non c’è più un fuori e però c’è un’alternativa che nasce dentro, un divenire, una metamorfosi, una produzione di mostri, di tumori. Questa osservazione mi sembra molto bella e produttiva per Pasolini stesso nell’ultimo periodo della sua vita.
Povertà come potenza
In fondo, è quanto con una temporalità dilatata di nove anni, successe a Jean Genet, scomparso nel 1986. Le bozze corrette del suoUn Captif amoureux furono ritrovate sul comodino della sua stanza d’albergo. Vergato a mano, un esergo che diceva: «Mettere tutte le immagini del linguaggio al riparo e servirsene, poiché si trovano nel deserto in cui vanno cercate». Noi conosciamo il significato del deserto, in Pasolini. In Teorema il richiamo è esplicito, fin dal rimando iniziale: «Dio fece quindi piegare il popolo per la via del deserto» (Esodo, 13,18). Il deserto è proprio ciò di cui non si conosce il fuori… Per chi sta dentro, il fuori è solo un miraggio…
Anche il rapporto tra l’ultimo Genet e l’ultimo Pasolini è molto interessante. L’ idea di gettare il corpo nella lotta è presente in entrambi. Ma dove gettare il proprio corpo, se attorno hai solo sabbia, solo deserto?. Complessivamente mi sembra che la tua lettura ponga Petrolio come punto di svolta, di trasformazione in Pasolini, di cui, certo, manca il risultato, ma che possiamo provare a leggere nelle tracce di quest’opera di cui purtroppo ci manca la conclusione. Vorrei tornare a quando tu parlavi della vocazione paolina dell’ultimo Pasolini.
Non mi ricordo più dove in quegli anni, i primi anni Settanta, forse in un articolo sul Corriere, Pasolini ha scritto alcune parole positive su Potere Operaio come movimento paolino. Non mi ricordo dove, ma questo mi ha molto colpito. Come al solito, però, Pasolini non spiega. Come dici tu, quella sua sensibilità paolina legata ai poveri, non più il sottoproletariato, non più il mondo contadino, ma povertà come potenza. Questo sì, sarebbe da pensare meglio, ma mi sembra comunque una prospettiva molto ricca.
«Non conformatevi alla mentalità di questo secolo», ammoniva il Paolo della Lettera ai Romani (12,2). Il contrario del conformarsi, del conformismo è la trasformazione, che Paolo evoca subito dopo: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto». La povertà è anche spogliarsi e abbandonare l’abito, cambiare status. Essere altrove, mai in un posto solo… Nel suo progetto per un film su San Paolo, Pasolini scrive che: “Paolo ha demolito rivoluzionariamente con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo e soprattutto lo schiavismo”. Fin qui nulla di nuovo, ma poi Pasolini apre il discorso al tema della santità e della sua dimensione, chiamiamola così, mondana. Annota infatti che “il mondo della storia, [che] tende, nel suo eccesso di presenza e di urgenza, a sfuggire nel mistero, nell’astrattezza, nel puro interrogativo; e il mondo del divino, che, nella sua religiosa astrattezza, al contrario, discende tra gli uomini, si fa concreto e operante” La pratica è in questo rovesciamento divino-umano, è l’abiura…
«Compio un ennesimo atto di viltà, rientro nell’ordine», scrive in Trasumanar e organizzar. Uomo del tradimento. Mi fa pensare ancora a Genet. Ci sto pensando perché avevo l’idea di una certa fedeltà…ma, certo, è pur sempre una fedeltà ambigua, anche nelle poesie più famose, Le ceneri di Gramsci…dice da una parte sono con loro, dall’altra…Ecco, quindi, qui si può leggere questa ambiguità in chiave di fedeltà/tradimento. Secondo me, l’intuizione, presente per molti anni nel lavoro di Pasolini, che il consumismo e il capitale funzionino per omogeneizzare, è sbagliata. Sbagliata nel senso che non riconosce la grandezza del nemico, e invece abbiamo detto che negli ultimi anni della sua vita legge la nostra situazione molto più chiaramente. Da un lato, la faccia negativa: non c’è più fuori e il potere funziona con un corpo polimorfo. Dall’altro lato, la faccia positiva: in questa situazione, che sembra la fine di tutto, non soltanto delle lucciole, ma di tutte le possibilità, anche in questa situazione, vorrei dire soprattutto in questa situazione, il divenire, la mutazione, una produzione molteplice di soggettività diventa la vera lotta alternativa, la vera lotta. Lì credo che Pasolini colga molto chiaramente e con grande profezia la nostra situazione attuale e le possibilità del futuro.
È come se la speranza rinascesse, ma solo a patto e solo dopo che ogni speranza sia stata prima consumata. È una certezza disperante, ma nel momento di massima incertezza, la sera prima della sua morte – in un’intervista apparsa su Tuttolibri della Stampa, il 9 novembre 1975 – quando avverte «siamo tutti in pericolo», forse è questo che voleva dire: siamo al culmine, siamo al limite, siamo arrivati a consumare anche l’ultima speranza. Il pericolo che tutto si perda è così grande, proprio ora è richiesta la massima attenzione. Per chiudere e cambiare, in uno stesso movimento, impercettibile, chirurgico, delicato. «Chiudere, nel mio linguaggio, vuol dire cambiare. Cambiare però in modo tanto drastico e disperato quanto drastica e disperata è la situazione».
Questo mi sembra giustissimo. Quando lui dice che non c’è più speranza, bisogna aggiungere c’è solamente lotta, e c’è questa lotta in cui noi buttiamo i nostri corpi, gettare il corpo nella lotta. Se la speranza è borghese, gettare il corpo nella lotta è comunista.
Con tutte le dissonanze del caso – «tra il corpo e la storia, c’è questa / musicalità che stona, / stupenda» leggiamo nella Religione del mio tempo – anche di questa nostra lettura. Con un grande autore come Pasolini dobbiamo scegliere una via per leggere tutte le cose che dice. Sceglierla e continuare. Non abbiamo paura delle dissonanze. Per concludere leggiamo una sua poesia, si tratta di Versi buttati giù in fretta – questo il titolo:
Non sanno vedere
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