Raccontare la guerra in immagini, dove la violenza non è nelle azioni ritratte, ma nel legame inscindibile tra vittime e strumenti di offesa. Questo l’obiettivo – raggiunto – da Giulio Piscitelli, fotografo napoletano che dal 2010 realizza reportage fotogiornalistici sull’attualità internazionale. Sono sue le fotografie protagoniste della mostra realizzata da Emergency per celebrare cinque lustri di attività. «Abbiamo scelto di festeggiare questi 25 anni mostrando a tutti, attraverso le foto di Giulio, quello che fa Emergency fin dalla sua nascita» spiega Gino Strada, fondatore di Emergency. «Curando le vittime, anno dopo anno, abbiamo capito una cosa semplice. Che qualunque siano le armi, qualunque siano i motivi, la guerra ha sempre la stessa faccia: morti, feriti, gente che soffre. È trovandoci di fronte ogni giorno la sofferenza di centinaia di esseri umani, che abbiamo iniziato a maturare l’idea di una comunità in cui i rapporti siano fondati sulla solidarietà e il rispetto. Una società che faccia a meno della guerra, per sempre».
La mostra apre mercoledì 15 maggio (ore 19) a Casa Emergency a Milano con un incontro cui saranno presenti con Piscitelli e Strada, Rossella Miccio, presidente di Emergency e Giulia Tornari, curatrice dell’esposizione. A moderare Fabrizio Foschini, Analista dell’Afghanistan Analysts Network.
“Zakhem | Ferite | Wounds. La guerra a casa – When war comes home”, questo il titolo scelto perché sono proprio le vittime e le loro ferite al centro del racconto fotografico di cui colpiscono alcune immagini: fotografie dove a predominare è il bianco, la luce e accanto ai volti delle vittime degli oggetti, piccoli, ma micidiali, i proiettili.
«Cerco di dare sempre molta importanza alla luce. In questi dittici ho sperimentato un nuovo approccio che si avvicina allo style life dei cataloghi, una nuova tecnica con cui ho provato ad ampliare la visione giornalistica per comunicare qualcosa in più», spiega Giulio Piscitelli (nella foto) che ha trascorso alcune settimane a marzo e tra settembre e ottobre del 2018 nei centri chirurgici per vittime di guerra di Emergency a Kabul e Lashkar-gah in Afghanistan.
Sono immagini in cui il bianco è protagonista. Ma da dove nasce l’idea di questo nuovo stile?
«Mi aveva colpito il bianco dell’ospedale e ho pensato che potesse funzionare per riuscire a raccontare alcune delle storie. Le immagini sono più chiare e ho cercato di giocare su queste tonalità».
Di solito, se si pensa a immagini di denuncia delle guerre si pensa a fotografie in cui la violenza, i feriti, sono in un contesto violento: case bombardate, polvere…
È vero quando si raccontano gli ospedali di guerra è facile privilegiare i momenti concitati, in cui medici e infermieri corrono, lavori sull’attimo, cerchi con una foto di ridare la tensione. Però in questo periodo che sono stato embedded con Emergency in ospedale ho vissuto anche i momenti di calma, quelli in cui osservi il normale andamento delle cure e lì ho iniziato a ragionare su quello che accade dopo l’emergenza…
I dittici: Haki Mullaha, 10 anni, ferito dall'esplosione di un vecchio proiettile gettato nel fuoco. La cartuccia, raccolta in un campo vicino a casa, gli ha perforato la spalla e danneggiato diversi organi interni
In basso: Anahita, 18 anni, colpita da un proiettile del fucile di suo marito, che stava pulendo l'arma. La giovane donna ha rischiato di perdere la gamba destra, a causa della rottura del femore
Nei dittici infatti ci sono donne, uomini, bambini già operati…
Cercavo un’ulteriore conferma a un ragionamento che avevo fatto mio: le tracce della guerra che le persone si portano addosso. Girando per l’ospedale e incontrandole mi sono sentito portato a fare loro dei ritratti. Il mio tentativo è quello di spingere a ragionare sul vincolo forte tra la vittima e ciò che lo circonda cioè la guerra. Da qui l’uso di un artificio che potesse raccontarlo, oltre al rapporto vittima-carnefice spesso non leghiamo la persona a ciò che lo ha ferito. Con i dittici ho cercato di dare un volto agli oggetti: colpi di pistola, pezzi di bombe… Tutti oggetti che potevano ampliare la conoscenza.
Ha raccontato con i suoi reportage il colpo di stato in Egitto e la guerra in Siria che cosa c’è in più in questa nuova modalità di racconto?
In Siria ho fotografato i feriti e le persone che scappano, c’è il contesto delle città distrutte, hai tanti spunti per denunciare la violenza della guerra. In ospedale – durante la mia permanenza in Afghanistan con Emergency non potevo girare liberamente all’esterno – hai meno spunti, però se tu trovi una bambina su un letto e ai suoi piedi dei bossoli di AK47, uno della Nato e l’altro dei Talebani, quello che vedi ti sta dicendo che questa piccola è stata ferita dai due contendenti. Ossia che non c’è una parte giusta, la guerra in sé non ha buoni o cattivi è violenza, è sbagliata a priori e non è una soluzione.
Quali sono i suoi prossimi progetti?
Di sicuro vorrei tornare in Afghanistan, Paese che avevo già conosciuto con i militari italiani, è meraviglioso, ma per poterlo raccontare non basta un weekend a Kabul, devi girarlo, ma in questo momento in cui c’è questo conflitto a basso impatto è difficile. Da diversi anni mi occupo della questione migratoria e delle vittime di razzismo in Italia, per questo vorrei tornare in Libia, sempre per raccontare la questione migratoria.
La mostra, ideata nell’ambito del progetto “No alla guerra, per una società pacifica e inclusiva rispettosa dei diritti umani e della diversità fra i popoli”, è realizzata grazie al contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (Aics) e rimarrà aperta a Casa Emergency in via Santa Croce, 19 a Milano, dal 16 maggio al 9 giugno
Orari: Lunedì – giovedì ore 12 – 19; venerdì ore 12 – 20; sabato e domenica ore 10 – 20.
In apertura il trasporto di due uomini feriti – Qui sopra medicazione di un uomo rimasto ferito per l'esplosione di un'autobomba
Tutte le immagini sono di @Giulio Piscitelli
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