Libri & Detenzione

Musica come ponte tra giardino e galera

di Ilaria Dioguardi

Parlare di carcere attraverso le canzoni. È l’idea alla base del libro “Metà giardino, metà galera” che ripercorre la storia dell’istituzione carceraria dal secondo dopoguerra ad oggi seguendo il filo delle canzoni di De Andrè, Vecchioni, Gaber, Silvestri, Dalla, Paolillo e tanti altri

Trovare le parole che sappiano raccontare il carcere, fuori dai luoghi comuni. Il libro Metà giardino, metà galera (Editore Erickson) è stato scritto con quest’obiettivo da Alessia la Villa, funzionaria pedagogica, e Leandro Vanni, ispettore superiore di Polizia penitenziaria. «È nato da un’idea, ci chiedevamo: “Qual è la prima canzone che ti viene in mente quando si parla di carcere?”», dice Alessia La Villa, coautrice del libro, da 14 anni nell’amministrazione penitenziaria. «Abbiamo notato che sia noi sia la maggior parte delle persone a cui lo chiedevamo rispondeva Don Raffaé di Cristiano Dè André. Roberto Vecchioni è un artista che sul tema carcere ha scritto tre canzoni (e che ha anche vissuto l’esperienza della detenzione). Da qualche idea buttata lì per gioco, facendo riferimento alle nostre conoscenze, al nostro amore per la musica di autore e a un lavoro di ricerca abbiamo deciso di dare vita a questo libro. In ogni canzone escono fuori delle tematiche che riguardano i diritti delle persone detenute». Ognuna delle canzoni citate nel libro, dagli anni Cinquanta ad oggi, affronta argomenti quanto mai attuali quali i bambini in carcere, l’ergastolo, il diritto all’affettività e alla sessualità.

La galera bisogna saperla “concimare”

Il titolo del libro è tratto da una frase di Viva l’Italia di Francesco De Gregori, «canzone che a me e al co-autore Leandro Vanni ha dato delle suggestioni particolari. È stata scritta nel 1979, l’anno in cui gli educatori per la prima volta entrano in carcere. Nel 1975 c’era stata la riforma dell’ordinamento penitenziario, che aveva previsto queste figure anche nelle carceri per adulti, che si trovano di fronte “un’Italia metà giardino, metà galera”. Quest’accostamento potrebbe sembrare un ossimoro: il giardino è l’immagine della luce, della fecondità, della vita, dall’altra parte la galera è buia, nascosta agli occhi della gente. Quella galera che un po’ sancisce “la morte di Dio” cantata da Guccini nella canzone Dio è morto. Io e Vanni ci siamo detti che forse, quello che sembra un ossimoro, potevamo ribaltarlo e fornire nei lettori un’altra prospettiva da cui poter vedere la galera, che può diventare feconda al pari di un giardino, però bisogna saperla “concimare”. E come? Non voltandosi dall’altra parte, come canta De Gregori, tenendo “gli occhi aperti nella notte triste”. Vecchioni dice “Che questa maledetta notte dovrà pur finire”, nella canzone Chiamami ancora amore», dice La Villa. «Ad un certo punto le cose possono cambiare, bisogna tenere gli occhi aperti, ovvero assumersi delle responsabilità. Il carcere è un argomento che riguarda tutti, non solo chi ci lavora, chi ha un familiare: è una responsabilità collettiva. E allora le persone le possiamo far fiorire, questo è l’obiettivo soprattutto del mio lavoro di educatore in carcere, previsto dall’articolo 27 della Costituzione, che nel 2010 ha cambiato nome diventando quello di funzionario della professionalità pedagogica. Per rieducare, dobbiamo evitare che ci sia questa netta dicotomia tra i buoni che vivono nella metà giardino da una parte e, dall’altra, i cattivi che vivono nella metà galera: non è assolutamente così».

Lungo il filo della storia penitenziaria e musicale

Nel libro si è deciso di seguire il filo cronologico della storia, in ogni capitolo la prima parte è dedicata alla storia dell’istituzione penitenziaria e, la seconda, a come i cantautori decidevano di dar voce a queste tematiche. «Abbiamo deciso di escludere le canzoni di lotta e contestazione politica perché è un mare magnum, un argomento che merita un libro intero», continua La Villa, «ma abbiamo inserito alcune canzoni che vanno lette e contestualizzate nel momento specifico, come quelle di Claudio Lolli, Alfredo Bandelli e di Gianni Siviero, quest’ultimo è un cantautore che nel 1975 pubblicò l’album Del carcere nel quale è contenuta una canzone nel quale si sente la protesta dal vivo del collettivo di Dario Fo e Franca Rame davanti alle carceri». Dal 1968 al 1975 esplosero diverse rivolte dei detenuti che chiedevano a gran voce una riforma penitenziaria. «Abbiamo voluto inserire queste canzoni per far capire al lettore di che carcere si stava parlando, con i detenuti che salivano sui tetti, c’era una contestazione molto dura. Poi nel libro si trovano anche canzoni d’autore e più leggere, ad esempio la canzone dei Pooh Pensiero che parla di un detenuto, ma forse non tutti lo sanno».

Il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri

Voltaire

Bambini in carcere

Il tema dei bambini in carcere è quanto mai attuale. La canzone presentata da La Zero a Sanremo Nina è brava parla di una bambina in carcere con la mamma e dice: “Mi chiamo Nina, dov’è il mio aquilone, Pasquale mi ha detto che siamo in prigione. Ma io sono brava portatemi al mare. Perché sono qui, che devo scontare?”. «Un testo molto forte», spiega l’autrice «soprattutto per chi, come noi, i bambini li vede dentro l’istituto, quando vengono a colloquio e quando si devono separare dai papà detenuti. A Livorno per un periodo in carcere era presente anche una sezione femminile, a me è capitato di vedere bambini i cui genitori erano entrambi detenuti».

L’attualità di Gaber

«Il decreto Caivano, che vuole più carcere per i minori (si ipotizzava anche di far scendere l’imputabilità a tredici anni), mi fa venire in mente la canzone di Giorgio Gaber La ballata del Cerutti Gino. Scritta negli anni Sessanta, questa canzone non fa altro che evidenziare che il carcere sembra non aver avuto alcuna capacità deterrente per questo giovane, che torna nella sua periferia allo stesso bar del Giambellino», continua La Villa. «La nostra esperienza, soprattutto con i ragazzi più giovani, ci dimostra che il carcere non ha più alcun effetto deterrente, anzi, rafforza la costruzione di un’identità negativa. Chi finisce in carcere e ci torna, e non si progetta nulla sulla prevenzione per questi ragazzi, è normale che il carcere verrà visto come parte di un percorso senza un effetto né deterrente né rieducativo. Non ha nessun senso pensare di prevedere un pacchetto sicurezza in cui si prevede più carcere se non si investono risorse sui centri aggregativi, sui centri sociali. Io prima di vivere e lavorare a Livorno, dove ormai sono da 14 anni, vivevo a Roma e lavoravo nel Centro di Prima Accoglienza per minori in stato di arresto; nella Capitale andavo ad agganciare i ragazzi dove sapevo di trovarli, nel parco del Colle Oppio, a Tor Bella Monaca, lavoravo per strada: la prevenzione con i ragazzi si fa agganciandoli dove si riconoscono, non portandoli in carcere. Li agganciavamo offrendo loro delle proposte di partecipazione a progetti di incontri aggregativi, mescolando i ragazzi per strada con altri che facevano una vita dove c’erano più stimoli, dallo sport alla musica».


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De Andrè e i suicidi, Dalla e i minori detenuti

Cristiano De Andrè aveva 20 anni quando scrisse La ballata del Michè, sul tema del suicidio in carcere. Nell’’incipit “Quando hanno aperto la cella era già tardi perché con una corda sul collo freddo pendeva Michè” «si ha la sensazione di vedere questo cadavere. La canzone parla di chi muore in carcere nell’assoluta indifferenza e nell’assoluta solitudine. Questa ballata è veramente struggente», prosegue l’educatrice, «così come è struggente la canzone di Lucio Dalla La casa in riva al mare, qui c’è il tema dell’ergastolano che si aggrappa disperatamente alla speranza di poter uscire, sa che questo non avverrà mai ma sogna tutta la vita qualcosa che non potrà succedere ma che gli dà modo di non impazzire. Lucio Dalla ha scritto anche una canzone, dedicata alla detenzione minorile, si chiama Mela di scarto e parla dei ragazzi detenuti nell’istituto penale torinese Ferrante Aporti».

Per rieducare, dobbiamo evitare che ci sia questa netta dicotomia tra i buoni che vivono nella metà giardino da una parte e, dall’altra, i cattivi che vivono nella metà galera

Alessia La Villa

I personaggi raccontati dalle canzoni

Alcune canzoni sono state dedicate a personaggi che, nel bene o nel male, hanno fatto la storia dell’Italia. «Don Raffaé di Cristiano Dè André è Raffaele Cutolo, capo della nuova camorra organizzata, che quando ascoltò la canzone a lui dedicata rimase colpito, scrisse a De Andrè e gli chiese come avesse fatto, senza essersi mai incontrati e senza entrare in carcere, a descrivere le dinamiche che avvengono in carcere. Il cantautore gli rispose e Cutolo gli mandò delle sue poesie scritte in carcere. A quel punto, De Andrè ritenne di dover interrompere ogni tipo di comunicazione: la figura di Cutolo era abbastanza compromettente per iniziare un carteggio fitto. Questa canzone potrebbe essere stata scritta qualche anno fa», dice l’autrice. Un altro personaggio a cui è stata dedicata una canzone è Renato Curcio.

«Nella canzone straordinaria che si chiama appunto Renato Curcio di Francesco Baccini, come il video che hanno girato all’interno della cella di Curcio quando era detenuto nel carcere Rebibbia di Roma. In questa canzone si parla del Curcio uomo che si trova a fare i conti con il proprio passato, con la morte per la propria donna uccisa in un conflitto a fuoco, con le sue idee, di cui dice di non pentirsi ma rivede quello che è stato per capire se abbia avuto un senso. La canzone scritta da Enrico Ruggeri Inevitabilmente (lettera dal carcere) cantata da Fiorella Mannoia parla di Renato Vallanzasca, senza mai nominarlo. Lì si parla del Vallanzasca uomo e di cosa succede a una persona che fa i conti con la propria storia e con quello che è stato: “Le cattive compagnie non sono una scusante, le cicatrici sono tante e profonde”. Questo ragazzino comincia a delinquere già a otto anni». Francesco Guccini ha dedicato una canzone a Silvia Baraldini.

La concretezza prima di tutto

«In carcere bisogna lavorare in concreto. I corsi proposti sia negli istituti per minori sia per adulti devono essere dei corsi che abbiano un aggancio con la realtà, se no è solo tempo perduto. Il territorio deve entrare in carcere», dice Alessia La Villa, che lavora nel carcere di Livorno e nella sezione distaccata sull’isola di Gorgona, l’ultima isola carcere d’Italia dove i detenuti (attualmente circa 85) sono “sconsegnati”, girano liberamente sull’isola: c’è chi si occupa delle vigne, chi della cura degli animali, chi del forno. «La modalità del territorio che entra nel carcere è una modalità vincente nella misura in cui, se l’attività è reale e concreta, come l’azienda vinicola dei Marchesi Frescobaldi che ormai da più di 10 anni sull’isola di Gorgona forma i detenuti all’interno delle vigne, a questa specifica professionalità e ne assume alcuni, quando escono dal carcere. Bisogna fare una distinzione tra trattamento e intrattenimento: è importante l’aggancio con la vita reale, quello che i detenuti chiedono è un lavoro quando escono, che consenta loro di tornare fuori con nuove prospettive». Nel libro non abbiamo voluto fare nessuna censura. Abbiamo voluto che questo libro fosse reale fino in fondo. Il ragazzo in copertina è stato fotografato da un poliziotto, è un detenuto sull’isola di Gorgona che suona veramente la chitarra e ha accettato di farsi fotografare. Siamo riusciti, nel nostro lavoro, a creare una squadra, il detenuto si fida e sa che, dietro quella persona che lo sta fotografando, c’è un grande lavoro».

Sicurezza e trattamento non sono e non possono essere anime conflittuali di un sistema sicuramente migliorabile, sono anime complementari

Leandro Vanni

Un libro a quattro mani: un’educatrice e un ispettore

«Colpisce molto il fatto che questo libro sia stato scritto da un’educatrice e da un ispettore. In realtà, sicurezza e trattamento non sono e non possono essere anime conflittuali di un sistema sicuramente migliorabile, sono anime complementari. La cosa buffa è che ci siamo ritrovati, con una stessa visione, a raccontare il carcere attraverso la musica». A parlare è Leandro Vanni, ispettore superiore di Polizia penitenziaria nel carcere di Livorno, da 30 anni, coautore di Metà giardino, metà galera. «Un ispettore di polizia penitenziaria nell’immaginario collettivo non viene di solito, associato a canzoni di Vecchioni. Sia io sia Alessia La Villa siamo “vecchioniani”. Nel libro parliamo anche delle canzoni di artisti quali Daniele Silvestri, 99 Posse, Matteo Paolillo, autore della fortunatissima colonna sonora della serie televisiva Mare fuori, che è diventato un po’ il tormentone degli ultimi tempi amplificato dalla tv, e che tocca il tema della detenzione minorile». “Tornano a casa i secondini piano piano, tornano a casa dai bambini sul divano. Dove saranno i mostri della cella? Sono rinchiusi in un armadio su una stampella”, canta Mannarino nella canzone Scendi giù. «Tra le canzoni più recenti, è tra le più interessanti e più crude, una sorta di ballata che si riferisce a fatti di cronaca incontrovertibili, come quelli di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi. È un testo in cui la denuncia è forte nei confronti della polizia penitenziaria, si impone una riflessione su certi episodi che, negli ultimi tempi, hanno caratterizzato un contesto difficile e fortemente mutato. I problemi sono tanti nel mondo della detenzione italiana, non solo di natura custodiale, ma anche di natura trattamentale e sanitaria. Voltaire affermava che “Il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. La situazione delle carceri italiane è sotto gli occhi di tutti».

Foto di apertura di Samuel Stone da Pixabay

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