Migranti

Mohsen, il custode della memoria dei naufraghi nel Mediterraneo

di Giada Frana

A Zarzis nel sud della Tunisia questo ex impiegato delle poste ha inventato uno luogo straordinario: il "Museo della memoria del mare e dell’uomo”, dolce da anni raccoglie tutti gli oggetti che il mare gli restituisce appartenuti a chi non ce l'ha fatta a raggiungere l'altra sponda del Mediterraneo, i "Mamadou"

Non sono molti i chilometri che separano Zarzis, nel sud della Tunisia, da Lampedusa. Cittadina sul mare, meta nei mesi estivi di turisti europei, nota anche per essere tra i luoghi di partenza degli harraga, i migranti che da qui si imbarcano raggiungendo illegalmente il Belpaese (harraga è la parola in dialetto marocchino ed algerino che si usa per definire coloro che viaggiano senza documenti; viene dalla radice della parola araba haraqa, che significa bruciare. Si dice “ho bruciato la frontiera” per indicare chi rischia tutto pur di migrare, ndr). A volte arrivano a destinazione, mentre altre il mare riporta a riva i loro corpi senza vita. Lo sa bene Mohsen Lihidheb, 66 anni, ora pensionato, ex impiegato delle poste tunisine: era il 1995 quando trovò il primo “Mamadou” sulla spiaggia, partito dalla Libia in cerca di una vita migliore. Mamadou è lo pseudonimo che ha dato a tutti i migranti senza vita in cui si è imbattuto in questi anni, un nome molto comune. Migranti senza identità, sconosciuti, le cui spoglie vengono seppellite proprio nel cosiddetto “Cimitero degli sconosciuti”. Solo un numero li definisce, accompagnato dal luogo del ritrovamento. Spesso è stato lo stesso Lihidheb a dar loro una degna sepoltura – ai corpi o parti di essi -, assieme a Chamseddine Marzoug e ad altri pescatori del luogo. Poi nei mesi successivi il mare cominciò a riportare anche i loro oggetti personali: scarpe, vestiti, borse, bambole. Oggetti che Lihidheb ha raccolto – assieme a rifiuti umani come bottiglie, boe, plastica fusa, ancore, pacchetti di sigarette – dando vita, presso la sua abitazione, al “Museo della memoria del mare e dell’uomo”. Un’azione che voleva essere solo ecologica è diventata così un modo per rendere giustizia nel proprio piccolo a chi cercava un futuro migliore e invece ha trovato solo la morte. Difficile descrivere in poche parole quest’uomo: si definisce un eco artista, una persona comune che ha deciso di agire e non restare solo a guardare ciò che succedeva attorno a lui; soprannominandosi Boughmiga, l’uomo semplice, saggio. Ci accoglie con un sorriso, in testa un cappello di paglia, elemento distintivo nel sud della Tunisia quando le temperature si innalzano.

Tra riconoscimenti e messaggi in bottiglia
Appena entrati, sulla destra, un tavolo dove sono accantonati diversi diplomi e riconoscimenti per la sua attività, tra cui spicca quello del Guinness dei primati per il maggior numero di oggetti raccolti dal mare e di una società di riciclo che lo ringrazia “per la collaborazione alla preservazione della natura”. “A 40 anni mi sono detto che non volevo più subire la vita: ho cominciato ad andare in spiaggia a raccogliere tutto ciò che le onde portavano a riva – racconta a Vita -. Era il 1993: ciò che raccoglievo lo accumulavo nel mio giardino, facendo anche delle letture pubbliche e realizzando delle installazioni artistiche per sensibilizzare sul tema dell’ecologia. Ho realizzato quasi 200 installazioni. Nel 2002 sono entrato nel Guinness dei primati per il numero di oggetti raccolti: un riconoscimento che mi ha aiutato molto a continuare per questa strada”. I suoi compaesani all’inizio infatti non lo prendevano sul serio, ma una volta entrato nel Guinness dei primati, hanno compreso il suo impegno. Tra le migliaia di oggetti raccolti, in bella vista sugli scaffali, delle bottiglie di vetro affidate al mare contenenti dei messaggi, in diverse lingue: “C’è chi chiede la salute alla divinità, chi una pesca fruttuosa, ma anche messaggi di aiuto: una giovane ragazza che voleva suicidarsi, dei giovani tedeschi che stavano naufragando. L’85% degli oggetti raccolti venivano dall’Italia, a volte trovavo qualcosa di nuovo, come una bibita e qualche mese dopo la ritrovavo negli scaffali dei negozi”. Poco più in là, un angolo del museo è dedicato all’artigianato tunisino.

Gli oggetti personali degli harraga: scarpe, bambole, vestiti
Ma la parte di questo spazio che colpisce è quella dedicata ai migranti naufraghi: scarpe su scarpe, accantonate l’una sopra l’altra, di uomini, donne e bambini, vestiti erosi dall’acqua e dalla sabbia, bambole, borsette. Alcune di queste scarpe sono appese agli scaffali tramite un filo, sopra alcune di esse è appoggiato un vestito o un cappello: ogni volta che l’eco artista ci passa vicino, le fa dondolare, rendendole in un certo senso ancora vive, un modo per ricordare queste vittime invisibili. ”Quando entro qui cerco sempre di farle muovere, di dar loro un po’ di vita. Ogni scarpa per me è come una bottiglia in mare: è un messaggio, è quasi un essere vivente. Ho un approccio molto intimo, di prossimità e di fusione, per sentire un po’ il loro dramma, la loro sofferenza, e attraverso questi sentimenti cerco di denunciare questo fenomeno e cercare una soluzione”. Una piccola barca di legno, riempita di boe rotonde, simboleggia il fenomeno delle migrazioni. “A volte trovo dei soldi nelle scarpe, che cambio nella valuta locale e dono alle associazioni caritative. Mi capita di trovare anche delle scarpe di bambini piccoli: ciò mi intristisce molto. Un giorno ho trovato un vestito da bambina con delle scarpe: di riflesso ho voluto fare un gesto simbolico, una processione per la gioia di vivere e per il matrimonio che non ha vissuto. Ho attraversato tutta la città con la radio a volume alto, suonando il clacson per tutto il percorso; la gente stupita si chiedeva “come è possibile un matrimonio alle 10 del mattino?” Sono arrivato al museo e ho fatto una sorta di memoriale per lei”. Ogni oggetto è studiato attentamente, quasi a volerne carpire l’anima: “Quando trovo le scarpe dei naufraghi, tenute insieme con delle corde, dei fili o dei pezzi di tessuto, cerco di capire ciò che queste persone hanno passato, guardando quanto sono consumate”. Rigira tra le mani un infradito rosa da bambina, le suole consumate, un filo di ferro per tenerla assieme a dimostrazione dei tanti chilometri che quei piccoli piedi hanno percorso. ”Ho anche trovato delle borse da donna, contenenti vestiti per bambini, trucchi, un portafortuna, che mi ha ispirato una poesia, in cui dico che questo portafortuna voleva proteggere chi lo portava, ma non è servito contro il fantasma del mare”.

Assenza dello stato e il desiderio di partire per diventare ricchi
Oltre allo scetticismo iniziale dei compaesani, Lihidheb ha dovuto portare avanti il tutto in uno Stato assente: “Erano gli anni della dittatura, di cui ero oppositore: temevo che venissero a distruggere ciò che facevo, quindi cercavo di salvarlo distribuendo ciò che trovavo e i miei scritti a diversi amici. Ero un contestatore, dicevo sempre che non ero un locatario del Paese, che questo ultimo mi apparteneva. Mi hanno minacciato quando volevo sapere dove mettevano i corpi che ritrovavo: loro venivano a prenderli, ma quando chiedevo dove andavano a finire, se prelevavano il dna, se facevano delle foto, mi hanno zittito. È stata molto dura”. Le migrazioni in questi decenni non si sono mai fermate: “Ultimamente ci sono state diverse vittime del mare e fa molto male. Come ho scritto nel libro ‘Mamadou e il silenzio del mare’, Mamadou conquisterà il mondo: gli arrivi non si fermeranno mai del tutto. Nell’ultima installazione artistica che ho realizzato, ho messo al centro l’Occidente, che si mostra a tutto il mondo dicendo guardate, sono io al centro del mondo, ho i migliori prodotti, le migliori idee, venite a consumare da me, ma quando i poveri arrivano dice no, ritornate da voi e consumate a casa vostra i miei prodotti”. Nel 2011, subito dopo la Rivoluzione della dignità, molti tunisini prendono la via del mare, i confini sono poco controllati. Anche a Zarzis: “Quasi tutti gli amici di mio figlio sono partiti via mare, lui era rimasto solo. Aveva 20 anni: ha fatto domanda di visto per la Francia e l’ha ottenuto. Sono molto fiero di lui: quando torna parla con i giovani rimasti e spiega che non sempre le cose vanno bene in Europa, che la vita è molto difficile, e non ostenta i suoi soldi. Alcuni invece noleggiano delle belle macchine solo per farsi vedere e ciò ovviamente colpisce molto. In generale qui le persone hanno la loro idea di Occidente, che non ha niente a vedere con la realtà. Spesso quando i migranti partono, è la loro madre che li sveglia, dicendo vai, fai come gli altri. Le donne hanno un ruolo significativo, ma si tratta anche di un problema culturale: tutti vogliono diventare ricchi. Io stesso ho cercato di dire ai giovani che la Tunisia non è così male, ci si può vivere. Ho pensato spesso a come i migranti non gettino mai una bottiglia in mare con un messaggio. Se mai dovessero prendere una penna in mano, si metterebbero a riflettere, penserebbero che è pericoloso, invece vogliono credere nel loro sogno, ma purtroppo non sempre ha un lieto fine. La sola lettera che hanno scritto dei naufraghi era l’esatto opposto: dei giovani algerini che avevano superato la frontiera marina tra Algeria e Italia ed erano contenti; peccato non sapere dove siano ora”. Lihidheb non condivide la narrazione mediatica che etichetta spesso chi parte illegalmente come delinquenti: “Non ammettono il rischio a cui vanno incontro, sono delle persone che vogliono lavorare, che vogliono del benessere: non è un crimine. A Zarzis ci sono molti harraga: è un punto di partenza essendo un porto marittimo, ci sono molte barche, inoltre la spiaggia è molto grande, impossibile sorvegliarla interamente. Durante la Rivoluzione e dopo la cacciata di Ben Alì io stesso ho assistito a delle situazioni molto difficili, in cui reclutavano delle persone. Guardavo e non potevo farci nulla, c’erano pure dei soldati, questi ultimi verificavano solo se le barche erano in buono stato: era l’unica cosa che potevano fare. Per la traversata attualmente pagano sui 1.500/2000 dinari”. (circa 474 / 632 euro, ndr)

La terra appartiene a tutti: basta harraga
Nelle sue poesie, Lihidheb esprime la sua visione su questo tema: “Nella mia poesia “la predizione di Mamadou” affermo che la terra appartiene a tutta l’umanità, che la soluzione è nell’universalità. Forse sono un sognatore, ma chi si nasconde dietro la lingua, la frontiera, l’identità, sta seguendo la politica dello struzzo. Bisogna comprendere queste persone, aiutare tutti affinché ci sia un benessere generale. Un proverbio arabo – musulmano dice: ‘non possiamo dormire tranquilli se il nostro 40esimo vicino ha dei problemi’, il 40esimo vicino è anche l’Africa del sud. Ci saranno sempre dei flussi verso il nord: tutti hanno migrato, era un modo per conoscersi gli uni gli altri”. E conclude, mentre la bambola di una bambina, assieme a un cappottino rosso, termina piano piano il suo volteggiare: “Per non dimenticare tutte queste persone, bisognerebbe denunciare la violenza che sta dietro questo fenomeno, tenere viva la loro memoria con tutti i mezzi e cercare delle soluzioni affinché queste tragedie non si ripetano più “.

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