«La nostra società è spaccata in due, tra chi ha mezzi economici e chi no, anche nell’accesso alle terapie per i propri figli». È una denuncia sociale fortissima il nuovo libro dello scrittore e poeta Daniele Mencarelli, Fame d’Aria, pubblicato da Mondadori. Nel racconto, la storia di un padre e di un figlio con necessità di assistenza costante, Pietro e Jacopo, che, partiti in viaggio, si ritrovano bloccati in uno dei tanti borghi italiani a rischio abbandono. Abbandonata è pure la famiglia protagonista; dagli amici e dai parenti, ma – e questo forse è più grave – anche dalle istituzioni e dallo Stato. «Se alla salute mentale è destinato solo il 3% circa della spesa sanitaria nazionale», dice Mencarelli, «alla neuropsichiatria infantile arriva uno zero virgola».
Uno dei temi forti del suo nuovo libro è l’abbandono subìto da chi vive, in famiglia, una disabilità.
Nel libro parlo dell’autismo, ma al suo posto potrebbero esserci altre condizioni, così come il disagio psichico degli adulti. Le famiglie, quando hanno in casa una situazione di disabilità, sono lasciate a se stesse. Sono le uniche «sentinelle», le uniche figure veglianti sul proprio caro. Il bisogno di cure può essere di un figlio, di un marito o di una moglie, ma l’abbandono è lo stesso.
E l’abbandono è anche economico.
Sicuramente. Queste famiglie vengono progressivamente sommerse e affogano di fronte a un problema che è impensabile gestiscano da sole. Siamo una società che sta progressivamente invecchiando e si sta sempre più ammalando; c’è un tessuto sociale, la famiglia piccolo borghese, che a certi urti non regge e soccombe, prima di tutto emotivamente e psicologicamente, ma anche economicamente.
Jacopo, il ragazzo protagonista, è autistico. Dal punto di vista legislativo, chi vive questa condizione rischia di essere dimenticato una volta adulto.
Dopo i 18 anni le persone autistiche vanno ad aumentare il popolo dei pazienti psichiatrici, poi per ciascuno dipende dal bisogno di assistenza. Io racconto volutamente di un ragazzo di quell’età, a cavallo tra l’accompagnamento che ha avuto e la pensione che sta aspettando. Fa un po’ paura, perché c’è un vuoto legislativo e soprattutto un vuoto economico che riguarda tutta la psichiatria.
A questo proposito, noi di VITA da qualche tempo ci stiamo occupando di un’inchiesta sulla salute mentale in Italia. C’è, secondo lei, quindi, una situazione di definanziamento?
Certo, ma, se vogliamo generalizzare ancora di più, possiamo dire che la sanità italiana rappresenterà la grande emergenza sociale dei prossimi dieci anni. È quella grande zona d’ombra in cui ricchi e poveri vivono ancora situazioni opposte, soprattutto se a stare male sono i propri figli, e questo è indecoroso, indegno, se teniamo a mente i numeri delle persone che avrebbero bisogno di un supporto, che stanno esplodendo. Pensiamo a quei padri e a quelle madri che sanno quanto potenziale avrebbe il figlio se iniziasse a fare le terapie giuste; possiamo solo immaginare il senso di colpa che sentono perché non riescono a permettersi gli interventi che servirebbero al loro bambino o ragazzo per stare meglio. Uno dei motivi per cui ho scritto questo libro è il fatto che il tema della neuropsichiatria infantile interessa davvero a pochi e questo è semplicemente vergognoso.
Tornando a Jacopo, la sua è una condizione davvero rara. Si tratta di quello che un tempo veniva definito «Disturbo disintegrativo dell’infanzia», oggi confluito nei disturbi dello spettro autistico. Pensa che possa essere fuorviante dare una visione così estrema rispetto alla realtà dell’autismo?
Jacopo è colui a cui tocca in sorte una condizione devastante, ma non è così raro che ci siano persone che chiedono costantemente aiuto. Penso che parlare di autismo sia molto difficile; credo si debba parlare di autismi, al plurale, perché la parabola che tratteggia ogni singolo individuo è estremamente singolare rispetto alle caselle del Dsm – 5 (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, ndr). Io ho messo in scena un caso limite per mostrare una realtà totalmente antitetica rispetto agli immaginari fasulli che vogliono l’autismo meno invalidante di quello che molte volte è.
Cioè?
Da Rain man, alla serie Parenthood, fino all’ultimo cartone animato caricato sul sito di Rai play, tutti raccontano di persone verbali, che al massimo hanno qualche problema di controllo dell’affettività. Sono volontariamente andato nella direzione opposta, per riequilibrare la narrazione. Nella mia esperienza decennale da genitore che ha frequentato la neuropsichiatria, ho visto padri e madri uscire dalla stanza del medico sorridendo, dicendosi che la diagnosi di autismo ad alto funzionamento è quella degli Elon Musk, di chi diventa un genio, uno scienziato. È una percezione totalmente sbagliata. Poi la parola funzionamento, che viene sempre utilizzata dai dottori, è terribile.
Perché?
Non si rendono conto di quanto sia inadatta quando si parla ai genitori. Se io dico funzionamento mi riferisco a una macchinario.
Un altro tema forte che lei tratta nel libro è quello del «dopo di noi». Chi si prenderà cura di Jacopo una volta che i genitori non ci saranno più?
L’abbandono sociale e il «dopo di noi» sono due problemi enormi nella nostra società. Non mancano solo i soldi, manca una visione, una soluzione che permetta ai genitori di morire in pace sapendo che ci sarà qualcuno che si prenderà cura di loro figlio in futuro. Di che dignità parliamo se togliamo la possibilità a una persona di 90 anni di andarsene serenamente, al punto che qualcuno decide di portare con sé il proprio caro perché non sa che vita avrà? La politica è assente, ma non possiamo più permetterci di aspettarla. Serve una grande reazione del mondo civile, della cultura, ma anche dell’impresa sociale, del Terzo settore e dei volontari, che in Italia fanno miracoli.
La politica è assente, ma non possiamo più permetterci di aspettarla. Serve una grande reazione del mondo civile, della cultura, ma anche dell’impresa sociale, del Terzo settore e dei volontari, che in Italia fanno miracoli
Daniele Mencarelli
Nel libro c’è un orizzonte di speranza, una comunità che in qualche modo deciderà di condividere con la famiglia la responsabilità della cura.
Io credo che la solidarietà popolare, che in questo libro arriva dagli abitanti di un paesino, Sant’Anna del Sannio, sia una delle poche risposte, se non l’unica. La donna che accoglie Pietro e Jacopo, Agata, nella sua durezza sa fare comunità con quei pochi che sono rimasti nel borgo; è una persona forte, che non va a chiedere una soluzione di fronte a un problema, la trova. Grazie alla scrittura ho girato molto l’Italia e di luoghi a rischio spopolamento ne ho visti tanti. E ho anche conosciuto uomini e donne che diventano loro stessi istituzioni: sono quelli che io definisco «punti di resistenza umana». Questo però non può legittimare la politica a non agire.
Che cosa chiede alla politica?
A questo governo, nello specifico, a questa madre cristiana, come ama definirsi in giro per il mondo, chiedo di pensare anche ai figli degli altri e di alzare la soglia del 3% dei fondi alla psichiatria, che diventa uno zero virgola qualcosa per la neuropsichiatria infantile. Domando alla politica di dare un aiuto a chi non ha strumenti economici, a chi magari impazzisce perché ha il reddito di cittadinanza e deve sostenere 700 euro al mese di cure per il figlio.
Nei suoi libri precedenti c’è un forte dato autobiografico rispetto al suo rapporto con la salute mentale. Cosa è cambiato, secondo lei, nella psichiatria in Italia negli ultimi anni?
Credo che ci siano due discorsi paralleli. Da una parte una maggiore medicalizzazione e dall’altra, però, anche una crescente nevrotizzazione. L’uomo ha via via perso il contatto con la sua natura, ha dismesso i linguaggi che gli parlavano in maniera più sincera, come per esempio la letteratura. Io, per esempio, posso dire di essere stato salvato dalla scrittura. La poesia è stata per me fondamentale per la sopravvivenza, anche rispetto a chi voleva vedere in me solo un malato. La psichiatria, poi, è l’unica forma di welfare rimasta.
In che senso?
Un uomo di 50 anni, che si trova senza lavoro, con un mutuo da pagare, due figli e un orizzonte di galleggiamento di sei mesi, è malato o chiede aiuto? Quanti casi come questi ci sono nei servizi, che dovremmo affrontare con un approccio più ampio? È molto più facile curare che educare, ma prendere in carico dovrebbe voler dire anche insegnare alle persone a rimettersi in gioco, a ricrearsi un’identità. Oggi c’è un automatismo che scontano prima di tutto i medici, che vuole qualsiasi tipo di difficoltà letta esclusivamente su base psichiatrica. Nessuno, io per primo, mette in dubbio il fatto che ci sia un’esplosione nei disturbi psichici e la validità della scienza, ma, avendo frequentato i luoghi di cura, so che di base possono esserci delle complessità nella vita dei singoli che vanno affrontate. L’unico servizio a prendersi carico degli individui, però, è la psichiatria.
Vede quindi un cambio di approccio nella salute mentale, da una logica fenomenologica a una più patologizzante?
Io – lo sottolineo – non sono uno psichiatra, ma trovo evidente che se non torniamo a un approccio multidisciplinare, linguistico, culturale, ma soprattutto se non vediamo l’individuo come prodotto di una storia e di un ambiente particolare, possiamo solo dargli un farmaco e sperare che faccia il miracolo. Io ho conosciuto dei Centri di salute mentale – Csm in Italia che lavorano davvero bene, perché seguono la vita dell’utente a 360 gradi, attraverso attività comuni, come l’orto o la costruzione di un giornale. Quando una persona attraversa una fase acuta di un disturbo, ci deve ovviamente essere un intervento mirato per superarla; poi, però, se non ci sono luoghi in cui quest’uomo o questa donna può essere accolto in maniera più ampia, l’unica cosa che si può fare è scommettere su una molecola. Ma mi sembra un po’ poco.
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