Laila Basim

«Meglio morire che essere cancellate»

di Redazione

Una giovane 26enne afghana guida la protesta delle donne a Kabul. Licenziata dal ministero dell'Economia, ha dovuto interrompere gli studi ma non si stanca a scendere per strada nelle vie della capitale, incurante delle bastonature e, sempre più spesso, dei colpi di fucile dei talebani. Per chiedere l'accesso allo studio e al lavoro

Posta sui social il video delle ragazze iraniane che cantano Bella ciao in persiano. «È un inno bellissimo», commenta, «un memoriale al sacrificio di esseri umani che con la loro rabbia hanno rovesciato l’oppressore». A Kabul, duemila chilometri da Teheran, dove continua la repressione delle proteste nate dopo l’omicidio di Mahsa Amini, Laila Basim, 26 anni, guida un'altra resistenza, quella delle donne afgane e delle loro manifestazioni contro il regime che si è instaurato nell'agosto del 2021. Usa ancora e coraggiosamente i socialnetwork, Laila, e lo fa incurante dei pericoli che corre. Lo fa a volto scoperto, come quando scende in strada con altre donne a reclamare i propri diritti. E non è infrequente che i talebani disperdono la folla a colpi di kalashnikov in aria. «Non ho paura di morire», dice la giovane attivista per i diritti delle donne. La voce della protesta delle donne in Afghanistan grida «pane, lavoro e libertà», per ragazze che, oltre ad essere obbligate a indossare l’hijab e il burqa in pubblico, non vanno a scuola ormai da più di quindici mesi. Con un coperchio nero che sta asfissiando le speranze del popolo afghano, dimenticato. Siamo riusciti a raggiungerla telefonicamente.

Laila, qual è la situazione delle donne in Afghanistan oggi? Come sono cambiate le vostre proteste dai primi mesi di occupazione?

«È passato più di un anno dall’arrivo dei taleban, e le donne afghane continuano ad essere condannate all’isolamento e all'estrema arretratezza, trattate peggio di chiunque altro. Le ragazze sopra gli 11 anni non hanno ancora diritto allo studio. C’è disparità di genere e un’esclusione sistematica delle lavoratrici dagli uffici governativi. La povertà e l'insicurezza hanno causato la fuga dei cervelli dal Paese, e milioni di donne sono diventate profughe in altri stati. La speranza di vita nel cuore del popolo afghano è morta, l'insicurezza ha raggiunto il suo picco. La nostra protesta per le strade di Kabul continua a gridare contro queste terribili ingiustizie».

Non avete paura di scendere in strada a viso scoperto?

«Non ho paura di morire, piuttosto la mia paura è che i taleban distruggano la mia identità. Noi donne afghane siamo scese in piazza dal primo giorno della caduta del vecchio governo, e non ci fermeremo fino a quando non riavremo i nostri diritti, fino a quando non ci sarà giustizia in questo Paese. La mia paura non è per me, lo ripeto, ma per l'esclusione sistematica di tutte le donne. Sai per cosa provo terrore? Che arrivi il giorno in cui questo gruppo estremista ci chiuderà del tutto nel buio, e allora la nostra voce morirà, non potrà più chiedere libertà e uguaglianza».

Che anno è stato questo per le donne afghane?

«Tutti i nostri progressi negli ultimi vent’anni sono stati semplicemente moltiplicati per zero. Non possiamo andare a scuola, non possiamo studiare liberamente all’università, non possiamo viaggiare sole. Chi lavorava è stata allontanata dai luoghi di lavoro, e l'equilibrio economico di moltissime famiglie è andato distrutto. Le violenze in famiglia contro le donne sono aumentata drammaticamente. Per non parlare di quante sono state imprigionate senza motivo, torturate brutalmente o uccise. L’inferno».

Di cosa ti occupavi prima del 15 agosto dello scorso anno?

«Io lavoravo al ministero dell'Economia e mi ero appena iscritta a una laurea magistrale. Sfortunatamente, quando sono arrivati ​​i taleban, sono stata licenziata dal mio lavoro e non ho potuto continuare il mio master perché non avevo più soldi. Ora sono in una bruttissima situazione economica. Insomma, non posso lavorare, non posso studiare, non posso camminare liberamente in città. Vivere è diventato molto complicato».

Tu Laila, insieme ad altre attiviste, hai allestito una biblioteca per le donne nella capitale afghana, con più di 1.000 libri a disposizione. Quanto è importante l’educazione per la libertà?

«L'educazione è il diritto primario degli esseri umani. Da quando i cancelli delle scuole sono stati chiusi, centinaia di studentesse adolescenti, recluse in casa, hanno iniziato a soffrire di ansia, problemi mentali e nervosi. Alcune di loro si sono anche suicidate. Impedire l’accesso all’istruzione a metà della società, non accresce solo l’analfabetizzazione, ma produce anche un grande danno all’economia. In più una donna istruita cresce i figli con l’amore per la cultura, mentre una società analfabeta è condannata alla fine. Con la biblioteca che abbiamo allestito noi vogliamo continuare la resistenza civile nei confronti di chi ci vuole segregate. Se loro ci chiudono le scuole, se opprimono una generazione, devono sapere che le donne afghane hanno studiato e vogliono continuare a farlo, per avere il loro posto nella società».

Sarà possibile in Afghanistan una rivoluzione come sembra stia per accadere in Iran?

«Le donne stanno protestando senza sosta nelle strade di Kabul, mentre i nostri uomini eroici resistono nel cuore delle montagne dell'Hindu Kush, combattendo contro questo gruppo radicale e selvaggio. Migliaia di nostri giovani sono pronti per la lotta armata, ma noi siamo abbandonati da tutti. Non abbiamo alcun sostegno finanziario e politico dall'Estero, ecco perché il fronte della resistenza non è stato in grado di portare questa lotta fino nelle grandi città. Ma dal Badakhshan a Herat, da nord a sud, la gente è arrabbiata con i talebani e tutti vogliono combattere contro di loro».

Qual è la tua speranza per il futuro?

«Amo l'Afghanistan. Mi piacciono perfino le strade polverose e il fumo. Non paragono questo suolo ridotto in cenere con città come Parigi, New York e Londra, ma qui c’è l’odore di mia madre. Non vorrei mai lasciare la mia casa. Ma se un giorno la comunità internazionale dovesse riconoscere i taleban, sarei costretta a farlo. È chiaro che nessun essere umano libero può vivere sotto la tirannia».

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.