«Mi sono messo in gioco dapprima come regista e poi come attore. E mi sono detto: se c’è un fastidio, parliamone. Mi definisco un artista paralimpico, perché ogni giorno affronto e supero ostacoli importanti, nel teatro come nella vita. Mi ritengo fortunato: vivo benissimo la disabilità, davvero non potrei essere più felice di così». Alessandro Garzella è il direttore della compagnia “Animali Celesti”, un’associazione di promozione sociale pisana che da anni è impegnata nel teatro d’arte civile. Garzella vanta una lunga carriera da attore, autore e regista, iniziata nel 1982. Conduce una ricerca espressiva sul rapporto tra teatro e follia in contesti di marginalità e disagio sociale. «Lavoro moltissimo con le persone che hanno problemi di salute mentale, quelli che vengono comunemente definiti matti», dice. «Siamo un gruppo di artisti, educatori, utenti psichiatrici e semplici cittadini interessati ai valori e alle forme della diversità. Viviamo in una società malata che considera la malattia fine a se stessa. Per me invece la malattia è la cura».
In questi giorni parte dalla Sardegna il work in progress destinato a trasformare in una versione ancor più avanzata Lucignoli, l’ultima opera della compagnia toscana che ha vinto il bando “progetti speciali” del ministero della Cultura per promuovere la qualità degli artisti disabili che producono teatro, musica, danza e attività circensi. Dal 22 e sino al 28 aprile, negli spazi di Sa Manifattura a Cagliari, l’associazione “Carovana – Suono movimenti e immagine” di Ornella D’Agostino (partner del progetto insieme all’associazione Aedo di Lucca e al Teatro Nucleo di Ferrara) accoglierà la prima delle residenze artistiche del progetto: per una settimana gli artisti di Animali Celesti si confronteranno con i colleghi sardi e anche con il pubblico. Sette intensi giorni di contaminazione, all’interno dei quali sarà possibile partecipare anche al laboratorio di danza/teatro e scrittura creativa “Il paese dei balocchi”, tenuto da Sara Capanna e Aurora Vannucci.
Garzella, partite con un canovaccio che, strada facendo, “rischia” di trasformarsi parecchio.
È quello che spero. “Lucignoli” si basa sulle avventure di Pinocchio, chiaramente, e punta molto su questa figura che in Toscana definiamo “lo sfigato”. È portatore per un certo verso di luce, magari tenue ma presente, e per un altro verso di un chiarore un po’ luciferino. Lucignolo ha il compito di accompagnare Pinocchio in alcune delle sue tante trasformazioni, in quanto nasce da un ceppo di legno ed è la forza vitale e indistruttibile che, nella diversità della sua condizione burattinesca, cerca una vita libera, fantasiosa, divertente. Lucignolo lo accompagna in una delle sue morti definitive, al Paese dei balocchi, luogo di incantamento che in realtà ti distrugge come identità e ti porta verso qualcosa che non sei, cioè il somaro.
Collodi fu geniale nel proporre questa rappresentazione della società nell’Ottocento. È ancora di grande attualità, dopo un secolo e mezzo.
Abbiamo pensato di portare in scena questo lavoro non tanto per mettere in risalto la mia condizione fisica (Garzella si muove in carrozzina in seguito alla poliomielite, ndr) quanto la condizione dell’umanità, che in gran parte è dentro questa cappa del Paese dei balocchi. In molti si ritrovano un po’ asini e magari vivono tutta la vita da asini. Abbiamo colto questa specie di provocazione che il ministero della Cultura ha rivolto agli artisti disabili, in quanto possiamo sensibilizzare il pubblico verso qualcosa che in teatro può risultare troppo particolare, troppo ricercata. Abbiamo cercato di farlo senza l’ipocrisia che di solito si mette nel tema dell’handicap, cercando di parlare della vita di tutti, cioè delle difficoltà che tutte le persone hanno oggi nel difendere la propria identità. L’handicap è anche un’idea, a volte. Un’idea diseguale rispetto al conforme, all’omologo. Parafrasando la storia di Pinocchio, cercheremo di stimolare la creatività degli artisti sardi e la fantasia del pubblico».
Lei ha 76 anni. Rispetto a 50-60 anni fa, la tematica delle disabilità oggi viene affrontata con maggiore sensibilità e coraggio.
Sicuramente c’è maggiore consapevolezza in tanti. Io ho fatto le elementari e il primo anno delle medie alle scuole differenziali, a causa della poliomielite. La mia classe era composta tutta da persone “strane”. Immaginate che cosa voglia dire per un bambino essere relegato in un angolo a causa della differenza fisica: è terribile. Sono stato costretto a tirare fuori la mia forza e a non lamentarmi della mia condizione, per andare a scoprire dentro la mia esistenza gli aspetti positivi. C’è una misteriosa legge della natura: quello che viene tolto da una parte, da un’altra viene aggiunto. Può essere lo sviluppo di un senso oppure un’altra cosa. Questa legge è uguale per tutti, non servono i soldi o il potere. Serviamo noi. Certo che oggi c’è maggiore attenzione verso questi argomenti, ma spesso è un rispetto pacificatorio, innocuo. Non è tanto il rispetto dell’identità inclusiva, piuttosto si dice: io accetto la tua identità ed essa ha diritto di cittadinanza in questa società, ma ti chiedo di integrarti.
Intende dire adattarsi ad essa?
Esattamente. Lo vedo anche nel teatro, con persone che hanno difficoltà mentali o sociali: lavorano molto spesso con grande affanno. Io sono stato buttato in acqua e ho deciso di nuotare. Questo lo devo al teatro. E, come Pinocchio, a 76 anni continuo a nuotare. Altrimenti affogo.
Secondo lei, sembra di capire, c’è più facciata che sostanza nell’approccio generale con le disabilità.
Ci sono state molte conquiste civili e legislative, e anche facilitazioni oggettive che rispondono a un primo livello di bisogni. Parliamo più di integrazione che di inclusione, come si converrebbe a una società più avanzata. Ma c’è un secondo livello in cui, tutto ciò, ti ghettizza ancora di più. Quando salgo su un palcoscenico, sento che comunque lì mi gioco la mia differenza. Nello stigma c’è qualcosa di culturale: in molti pensano, anche se a volte non lo dicono, “speriamo che a me non capiti una sfiga del genere”. Gli antichi dicevano che i malati di mente sono messaggeri degli dei, portatori di qualcosa. Oggi i matti sono matti. Punto. Hanno un maggiore diritto di cittadinanza grazie a Basaglia ma, allo stesso tempo, c’è una marginalizzazione sociale ancora molto evidente.
Sul palcoscenico lei avverte una differenza con gli attori normodotati?
Sì, c’è una differenza ovvia, psicosomatica. Nel momento in cui entro in scena con la mia carrozzina o lavoro in terra, devo conquistarmi la dignità agli occhi dello spettatore. A volte mi diverte molto giocare sulle mie miserie, oggi non mi costa fatica, e spero che aiuti a riflettere in qualche modo le giovani generazioni. L’età ormai mi dà la distanza e anche la possibilità di ridere di me stesso e farlo con quell’amore e quell’ironia che il pubblico percepisce. La commozione che spesso arriva coinvolge veramente lo spettatore nelle sue fragilità, in un mondo in cui tutti oggi dobbiamo essere apparentemente dotati, forzuti, belli.
Che cosa può fare il teatro per cercare di sollevare il livello culturale anche sotto questo aspetto?
Il teatro deve dare diritto di cittadinanza alla vita, qualunque sia la forma di vita. Io teorizzo il terrorismo poetico, nel senso che dobbiamo fare azioni che hanno la potenza di mettere fortemente in discussione una modalità di essere della cultura, del vivere sociale, delle leggi che regolamentano la vita sociale delle persone. Per farlo devi mettere in discussione te stesso, devi “andare in mutande”, altrimenti non puoi arrogarti alcun diritto. E lo devi fare con poesia, naturalmente. È l’unica arma che abbiamo: non è innocua, ma non è violenta. Far arrivare la poesia con un linguaggio che è massacrato dai telefonini e da certa pubblicità, non è semplicissimo ma il teatro e molte compagnie come la nostra riescono a farlo. Magari per un minuto, magari regalando un’emozione o un dubbio che metta in discussione certezze vuote che fanno da fondamenta all’esistenza umana di questi tempi.
Siete costretti a fare un ulteriore sforzo di creatività e fantasia per richiamare l’attenzione verso certi temi.
È una necessità, più che una costrizione. Se decidi, come abbiamo fatto noi, di ricorrere ad artisti professionisti di grande qualità e professionalità che non desiderano fare mercato, cioè un prodotto commerciale, significa che hai una necessità diversa. È una specie di vocazione un po’ sacra, nel senso laico del termine. Forse siamo venuti al mondo per quello, perciò vale la pena di dedicarci tutti noi stessi. Io provo un sincero interesse umano per questo lavoro, prima ancora che artistico.
Che cosa si aspetta da questo percorso di residenze artistiche?
Intanto ringrazio Carovana Smi per averci accolto con entusiasmo. Con lei e gli altri partner del territorio spero di creare, anzi ne sono certo, una collaborazione sui processi di rigenerazione e coesione sociale in contesti di marginalità, per valorizzare talenti artistici che altrimenti andrebbero dispersi.
A Cagliari la residenza rientra nel modulo InDifferenze, azioni multidisciplinari volte a favorire l’inclusione di persone e artisti con disabilità, inserito da Carovana Smi nel suo programma pluriennale L’Accademia del Tempo, sulla professionalizzazione nelle arti performative e multidisciplinari portato avanti ormai da anni con il coinvolgimento di altre realtà del territorio. Dopo quella di Cagliari, Animali Celesti proseguirà con questa esperienza a Lucca (luglio) e Ferrara (settembre).
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.