Quando in estate – ad un anno di distanza da quel 6 aprile 2020, quando la pandemia era appena agli inizi – sono “esplose” davanti ai nostri occhi le immagini di quei giorni e delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (ma anche delle torture nel penitenziario di Torino ndr), in molti chiedevano ad Ornella Favero, presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e direttrice di Ristretti Orizzonti di aiutarli a capire come mai si fosse arrivati fin lì.
E questo grazie alla competenza e alla comprensione del carcere che i volontari e chi fa giornalismo con i detenuti, può aver sviluppato: «Ho faticato molto a dare delle risposte sensate che non fossero di una generica e scontata indignazione. Il fatto è che il sistema carcere sia ancora un sistema malato, e spesso iniquo. Abbiamo a che fare con un malato cronico». Per questo oggi è più importante che mai contrapporre a quella violenza, le attività che in questi anni hanno concretamente cercato di ridurre i danni prodotti dal carcere. Un’emorragia di umanità che andrebbe interrotta, soprattutto in un luogo in cui si finisce per violenze fisiche, psicologiche o economiche.
La comunicazione in carcere, un “telefono senza file”
Bisogna ora fare un passo indietro per capire meglio come funziona la comunicazione in carcere: è necessario infatti avere la consapevolezza del passaparola tra detenuti, e spesso anche tra operatori, che fa circolare le “notizie” nei luoghi di privazione della libertà. Quel fenomeno viene soprannominato “radio carcere” e ha contribuito in buona parte alle sommosse avvenute all’inizio della pandemia in molti penitenziari italiani, quando le chiusure per evitare l’ingresso del Covid vennero intese come un “stiamo buttando via la vostra chiave”. «Essendo, ahi noi, il carcere un luogo ancora troppo poco trasparente, al suo interno si sviluppa di frequente una capacità, amplificata rispetto al mondo “libero”, di stravolgere tante notizie che arrivano dall’esterno. Ecco, credo sia necessario cominciare a spezzare la catena della cattiva comunicazione e della scarsa trasparenza sulle notizie», spiega Favero. Avere presente questo meccanismo dentro il carcere è fondamentale, parlarne ha a che fare ancora una volta con una materia di cui i volontari sono (gli unici o quasi) esperti: la comunicazione su temi complessi. «A fronte dei fatti drammatici di Torino e Santa Maria, ma soprattutto a quello che è successo con l’assenza di mese dei volontari nelle carceri, è il momento di dare valore allo “sguardo lungo” del Volontariato, che non ha mai accettato di farsi condizionare dall’alibi delle perenni emergenze carcerarie e che lavora da sempre per produrre percorsi significativi di prevenzione, e per scardinare la dittatura dell’idea di pena come “massimo della sofferenza possibile”», aggiunge con decisione Favero.
Le parole per restituire la complessità
La comunicazione su temi complessi, come lo è la pandemia o sulle violenze e le torture, quando è cattiva o mal gestita è un moltiplicatore di ansia e di rabbia. Dietro le sbarre. «A partire dalle esperienze di questi anni – testimonia la presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia -, di un Volontariato che è sempre più maturo e consapevole del suo ruolo, mi sembra importante allora ripartire da alcune parole che raccontano i risultati significativi del lavoro che stiamo facendo, a cui oggi bisogna attingere per cercare di portare idee nuove in un sistema malato che vive ancora di violenza e di conflitti».
La frustrazione di sentirsi mal sopportati perché si fanno troppe domande o si cercano delle risposte in tempi decenti la provano tanto i detenuti quando i volontari. «L’ho provata anch’io, da volontaria, e nel mio rapporto con le istituzioni – testimonia Favero -. Quante volte mi sono sentita “rimessa al mio posto” per esempio da magistrati, coi quali pensavo di poter scambiare qualche riflessione su una persona detenuta che stavo seguendo? Quante volte ho dovuto cercare di stemperare l’angoscia dei detenuti e delle loro famiglie, sfiancati da attese senza fine? E quante volte mi sono sentita dire “deve avere pazienza”, riferito magari a un detenuto in carcere da trent’anni? Come se la condizione di detenuto legittimasse di fatto qualsiasi ritardo, attesa, mancata risposta».
I detenuti sono cittadini
«Credo che se nelle carceri qualcuno dell’amministrazione penitenziaria avesse parlato di più, esprimendo anche le incertezze che tutti, anche fuori, condividevamo a inizio pandemia, la situazione sarebbe andata diversamente. Non ci sarebbero state le sommosse e non sarebbe mancata la fiducia», ritiene Ornella Favero. Una fiducia forse irrecuperabile. È infatti bene ricordare che i detenuti sono cittadini ristretti nelle libertà, non nei diritti. Questa drammatica pandemia sarebbe potuta essere l’occasione per lavorare a fondo sull’ingresso controllato della tecnologia. Per accorciare le distanze ma anche per imparare un “lessico digitale” che altrimenti rende analfabeti i detenuti che rientrano in società da un’isolamento analogico carcerario. I dispositivi sarebbero serviti anche per mantenere vivi i rapporti con le famiglie fuori dalle sbarre – non sporadicamente com’è accaduto -, nonostante la chiusura dei colloqui. «Dialogando tra le parti che compongono l’universo complesso e composito del carcere, forse, molte cose sarebbero andate diversamente», chiosa Favero. Non è stato così.
Riparte e rieducare: cosa hanno in comune?
«Ripartire è una parola che si sente molto di questi tempi, ripartiamo allora riempiendo di contenuti la parola rieducazione, che se serve a collaborare, comunicando, tra tutte per parti chiamate in causa dietro le sbarre e che hanno quel concetto, rieducazione, come obiettivo. Rieducare riconduce all’ambito dell’ascolto, del confronto, del dialogo, è una parola importante, da “salvare” e a cui ridare valore. Ripartiamo da qui», spiega Ornella Favero.
Quando a luglio la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il premier Mario Draghi si sono recati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, hanno fatto un gesto denso di significati, hanno voluto esserci per dire che nessuna violenza può essere tollerata in nessun luogo del nostro Paese e nei confronti di nessuno, tantomeno del più feroce criminale. Che va accompagnato – appunto – in un percorso volto alla rieducazione. «Sarebbe importante per il futuro che in occasioni come queste le persone detenute potessero esprimersi non solo singolarmente, ma forti di un sistema di rappresentanza realmente democratico, dunque fatto di persone elette e non estratte a sorte, e questa deve essere un’altra battaglia che il Volontariato deve fare, per l’istituzione di una rappresentanza vera delle persone detenute. Ma il Volontariato in questa necessaria riforma dell’esecuzione penale deve fare qualcosa di più di “dire la sua”: deve vedere riconosciuto il suo ruolo, come lo configurano il Codice del Terzo Settore e le recenti Linee guida per il rapporto con la Pubblica Amministrazione che lo riguardano». Perché oggi vengono attribuiti grandi responsabilità di comunicazione con i detenuti e con le famiglie, e nel percorso rieducativo, ma in un ruolo subalterno, da “ospiti” nelle carceri.
“In tempi accettabili”. Tempi sconosciuti in carcere
«Le istituzioni devono lavorare insieme con il Volontariato e il Terzo Settore per la coprogettazione e la coprogrammazione di quei percorsi che conducono dal carcere alla comunità, percorsi non sporadici, ma che devono essere al centro della vita detentiva», aggiunge Favero.
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.