Damiano Rizzi

L’ufficiale, 7 lettere e la scelta di non girarsi dall’altra parte

di Nicola Varcasia

A poco meno di un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina e a 20 anni dalla nascita, il presidente di Fondazione Soleterre ha scritto un libro per non dimenticare chi si trova dal lato sbagliato della storia. A cominciare da un aneddoto romanzesco nel mercato di Leopoli che ha dato il La ai racconti

Damiano Rizzi è il presidente di Soleterre, fondazione che da vent’anni è attiva in varie parti del mondo con progetti di solidarietà, soccorso e ricostruzione sociale. Per Altreconomia ha dato alle stampe il libro 7 lettere per il futuro, ricco di esperienze e di ispirazioni. Lo stesso titolo nasce da un episodio reale che sembra tratto da un romanzo, accaduto a Rizzi quando si trovava a Leopoli, ben prima dello scoppio della guerra, nel 2019. In un mercatino ha acquistato una cartelletta rossa, di pelle, appartenuta a un ufficiale militare medico dell’Armata Rossa. Aprendola, scopre che contiene sette fogli con stampata la stessa lettera, dal destinatario ignoto, che invitava a costruire la pace dalle macerie di Auschwitz. Da lì, l’ispirazione a scrivere lui stesso sette lettere di riscatto e di speranza, ovviamente diverse tra loro, in cui racconta la sua esperienza e quella di Soleterre.

Presidente Rizzi, perché questo libro?

Tutto è partito dal bisogno di condividere due esperienze molto forti che mi è capitato di vivere. Mi sembrava, infatti, che le situazioni in cui ci siamo ritrovati e le risposte date potessero essere utili non solo in se stesse, nel momento in cui si stavano svolgendo, ma anche come archetipo del modo di affrontarne tante altre che si sono verificate e si potranno verificare nel nostro lavoro.

La prima situazione?

A febbraio del 2020, allo scoppio della pandemia, lavoravo con un progetto di Soleterre come psico oncologo in oncologia pediatrica al San Matteo di Pavia. In poche ore, l’ospedale è diventato uno dei principali hub italiani per la cura dei pazienti covid, trasformandosi in uno spazio del tutto nuovo. In questo contesto di emergenza, Soleterre ha offerto la possibilità di creare un team di psicologi per dare un aiuto.

Com’è andata?

Così con una squadra di 17 psicologi siamo entrati, per nostra libera scelta, nei reparti in prima linea lavorando a fianco di infermieri e medici, curando pazienti, familiari, infermieri e medici stessi. Da questa esperienza sono nati dei trial clinici importanti che stiamo ancora adesso attivando e studiando, ad esempio sull’efficacia del supporto psicologico in presenza e da remoto.

Quanto è stata importante questa esperienza?

Dal punto di vista professionale ha avuto un rilievo importante e molto gratificante anche a livello scientifico. Ma il vero punto è l’aspetto personale, il fatto di non esserci fermati davanti all’ignoto e di esserci buttati in un’avventura così incerta e complicata. Di fronte a un fatto così imprevedibile e drammatico come la pandemia ognuno ha la sua reazione: a me andava di raccontare quella di un gruppo di persone che non ha girato la faccia dall’altra parte ma si è attivato, col cuore in mano, cercando di dare una risposta, paradossalmente, chiedendosi solo dopo quali sono le cose che di solito impediscono alle persone di mettersi in moto. E questa è l’essenza di Soleterre.

In che senso?

Nella maggior parte dei casi capita che le persone siano bravissime a dire perché le cose non vanno fatte. Allora mi sono chiesto perché, invece, qualcuno riesca a farsi bastare – tra le tante dichiarazioni di impossibilità – ciò che vede per andare dritto al sodo, mettendo la vita umana al centro al centro di tutto. Credo che la differenza sia lì. La differenza è qui: c’è chi ha a cuore la vita umana, guarda a quella, e la mette prima di tutto il resto. E se la mette per prima, il resto viene dopo, non ci si volta dall’altra parte.

Qual è la seconda esperienza ispiratrice del libro?

La guerra in Ucraina ci ha travolto tutti quanti. Noi come Soleterre già da 19 anni frequentavamo le oncologie pediatriche del Paese. I primi bambini malati di cancro che abbiamo visto all’epoca venivano amputati agli arti con una sega manuale per evitare il diffondersi della malattia. Questo era il livello di impossibilità di cura. A poco a poco, con un lavoro sistematico e semplice, abbiamo cominciato a organizzare la parte clinica e a seguire protocolli terapeutici con i farmaci giusti, poi arrivare fino alla ricerca scientifica da condividere: questo ha fatto sì che dal 50% di sopravvivenza si è riusciti ad arrivare a quasi al 70%, che sembra poco ma è tanto, perché si tratta di tante vite in più in un sistema che dopo il crollo dell’Unione Sovietica era diventato tutto anche nelle strutture pubbliche, con le quali per scelta collaboriamo. In Italia siamo all’’80-90%.

Lo scoppio della guerra rischiava di compromettere questo lavoro ventennale?

Ci siamo ritrovati di fronte a una non scelta: evacuare l’intero reparto di oncologia pediatrica, malati di tumore anche molto gravi con familiari e personale medico al seguito, sotto le bombe perché non potevano più stare lì. Hanno dovuto affrontare un trasbordo di 800 chilometri, in treo, pulmann, auto e a piedi l’ultimo pezzo. Siamo andati a prenderli, con un’areo li abbiamo portati in Italia, al san Matteo di Pavia e l’Istituto dei tumori di Milano, in collaborazione con le dirigenze e alla Regione. Noi siamo stati i primi ad affrontare questo genere di evacuazione medica, poi nel complesso, in tutto il mondo, sono stati evacuati duemila pazienti.

Che cosa ha significato per voi queta esperienza?

Ancora una volta, il criterio di scelta è stato il primato della vita umana. Il non voltarsi dall’altra parte anche di fronte allo scoppio di una guerra.

Rieccoci al perché del libro

Sono esperienze che, oltre a farle, andavano fatte conoscere. In modo che quando qualcun altro si troverà di fronte a una scelta del genere potrà scegliere di far vincere la vita. È il valore più grande delle cose che ci succedono.

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