Le due grandi passioni per la musica e la medicina hanno caratterizzato buona parte della vita di Danilo Sirigu, quasi in maniera imprescindibile. Al punto che la prima, da anni, si è affacciata anche nella sua attività all’ospedale Brotzu di Cagliari, dove dirige il servizio di Ecografia sperimentale e dei trapianti. In questa Azienda di rilievo nazionale ed alta specializzazione lavora ormai da decenni, mettendo a disposizione di un gruppo di giovani colleghi un nuovo fronte di cui è stato il pioniere in Italia, nel 2013: l’ipnosi clinica. Una nuova tecnica che sta producendo ottimi risultati. Inoltre, è responsabile della sezione sarda del Centro italiano di ipnosi clinico-sperimentale “Istituto Franco Granone”.
Con l’ausilio di mixer, cuffie e microfono, il dottor Sirigu entra in relazione con il paziente, sino a portarlo a un punto di rilassamento vigile ideale. «Quando si parla di ipnosi, spesso l’immaginario collettivo è portato a pensare all’impiego di pendolini o altri stratagemmi che farebbero perdere il controllo di se stessi. Ovviamente non è così».
Che cosa accade con la tecnica da lei impiegata?
Posso modificare lo stato mentale del paziente, dunque anche quello biologico. La tecnica che ho adottato è associata all’esame diagnostico, con l’impiego di musiche originali scritte dal Maestro Felice Cassinelli: brani e frequenze mirati, appunto, a far rilassare il paziente e condurlo in un percorso di maggiore consapevolezza del proprio corpo. Questo si sta rivelando incredibilmente utile soprattutto con le persone che hanno fatto un trapianto d’organo. Sappiamo bene che un’emozione può modificare il nostro corpo: il cuore batte più velocemente, aumenta la sudorazione, mostriamo un pallore piuttosto che un rossore. La comunicazione tra atteggiamento mentale, stati d’animo e attività biologica è davvero evidente, di solito in senso negativo: pensiamo alla cosiddetta somatizzazione di un lutto, della fatica, di un problema importante, ma anche del dolore e dell’ansia. La risposta del corpo in questi casi è negativa, si può arrivare persino a conseguenze estreme. Tuttavia, se siamo consapevoli di questo, possiamo esserlo anche dell’esatto contrario. Se siamo in grado di sviluppare uno stato d’animo di benessere, di serenità o un momento di felicità, quali ripercussioni ha questo sul nostro corpo? Ce le ha perché i nostri pensieri non sono astratti, sono molecole chimiche che ci permettono di modificare anche l’attività del corpo, per esempio l’attività cardiocircolatoria e quella intestinale, sino al controllo del dolore. Ma questo non è semplice e non riesce a tutti.
Da chi ha imparato tutto questo?
Ci sono arrivato nel tempo. La prima esperienza l’ho affrontata con il professor Nino Sole, psicoterapeuta, ma un ruolo fondamentale l’ha avuta la collaborazione con il professor Silvano Tagliagambe, filosofo della scienza, con cui abbiamo elaborato il concetto di strategia dello sguardo con l’abbinamento dell’ipnosi all’ecografia. Da medico, non riuscivo a capire come mai alcune patologie avessero prognosi così diverse, nonostante la letteratura e l’esperienza dicessero che, per quelle malattie, ci fosse un determinato tipo di prognosi. Perciò mi sono chiesto: che cos’è che fa cambiare l’evoluzione di una malattia importante?
Qual è stata la risposta che si è dato?
Semplice: la personalità del paziente.
Giusto per fare chiarezza e dirla in maniera semplice, che cos’è l’ipnosi?
È la realizzazione di uno stato di coscienza modificato e fisiologico di una persona, che nasce da una fondamentale relazione di fiducia tra medico e paziente. Se ci sono questi presupposti, è possibile modificare lo stato mentale del paziente, diverso da uno stato di veglia normale. In questo modo si crea un’attenzione focalizzata ma, a differenza di quanto la gente normalmente crede, il paziente non si addormenta. Anzi, accade l’esatto contrario. Quando noi siamo focalizzati su una cosa, concentriamo tutte le nostre risorse su di essa. Tutto il resto esiste ma, in quel momento, non ci interessa. Capita a tutti noi, nella vita quotidiana: quando siamo assorti nella lettura di un buon libro oppure quando guardiamo un programma interessante alla tv. Se qualcuno ci parla o richiama la nostra attenzione, non ce ne accorgiamo perché siamo talmente presi da altro che in quel momento per noi nulla è più importante.
Questo tipo di approccio è possibile anche con patologie gravi?
Sì, malattie croniche e persino i tumori. L’ipnosi permette di variare il rapporto che il paziente ha con se stesso e con la sua malattia. Sin dai primi trattamenti, vedevo che le persone che reagivano meglio alla malattia erano quelle che riuscivano a inglobarla, ad attraversarla magari per mezzo di un credo religioso o comunque di un certo tipo di spiritualità. In pratica, davano un significato e una valenza morale alla malattia. Allora ho intuito che si poteva modificare lo stato d’animo dei pazienti attraverso l’unica cosa che è avvalorata da un punto di vista medico: la psicoterapia, e ancor di più l’ipnosi.
L’ipnoterapia clinica è ristretta a un campo specifico?
No, è decisamente flessibile: si va dalle situazioni classiche (modulare un dolore, l’ansia, lo stress o una fobia) sino ad arrivare a piccole biopsie epatiche o renali, agli interventi e ai trapianti di fegato. La utilizzo molto anche nei casi di pazienti claustrofobici che devono fare la risonanza magnetica. Sia chiaro: in sala operatoria non mi sostituisco all’anestesista, semmai abbiniamo i due trattamenti. Preparo il paziente con una seduta di ipnosi il giorno precedente l’intervento. Induco uno stato di grande rilassamento. A quel punto, l’anestesia viene fatta in maniera più agevole. In questi casi ci interessa migliorare il controllo del dolore e l’evoluzione del decorso post operatorio.
Il potere della mente è stato accertato da tempo. Ma l’ipnosi non consente di evitare l’anestesia totale o parziale.
No, nella maniera più assoluta. Però in occasione di un trapianto di fegato durato 13 ore, all’ospedale Brotzu, è stata utilizzata una quantità di farmaci significativamente inferiore a quella tradizionale. Non è un caso.
“Ecografia sperimentale” fa pensare a una pratica innovativa.
Da qualche tempo abbiamo messo su un’altra branca dell’ipnosi, associata all’ecografia. Ne sono orgoglioso perché è un progetto che sto sperimentando sia come ecografista che come medico ipnologo. In Italia non lo fa nessun altro, al momento. Il nostro lavoro si basa sul concetto di immagine impiegato in radiologia dal punto di vista diagnostico. Ma da ipnologo utilizzo le immagini sotto il profilo terapeutico: l’ipnosi non è altro che la realizzazione di immagini mentali. Se le abbiniamo alle immagini reali di un organo o un corpo ammalato, crea una sintesi importante dal punto di vista della cura.
Il paziente segue la sua ecografia dal monitor?
Esattamente. Vede i propri organi e, in uno stato mentale modificato dall’ipnosi, riesce a “entrare” in quegli organi. Praticamente fa una sorta di viaggio dentro se stesso. È il concetto di identità corporea, molto importante in neuroscienze.
Possiamo dire che in questo caso il paziente ha un ruolo da protagonista o è azzardato?
No, è davvero così, in quanto non subisce passivamente tutto il percorso di diagnosi e terapia. È affiancato dal medico, per questo la definiamo alleanza terapeutica. È fondamentale che il paziente si fidi di me, cioè del medico, e insieme possiamo fare qualsiasi cosa. Ho visto guarigioni che lasciano sbalorditi. Stiamo lavorando molto su questo versante, faccio parte di una nuova società scientifica che si chiama Psiconeuroendocrino-immunologia e ha l’obiettivo di integrare le competenze: non possiamo essere gli unici depositari di una scienza, il medico si deve affiancare allo psicologo, al filosofo, all’antropologo, cioè a tutti quelli che lavorano nell’ottica di portare cura alla persona. Cura non vuol dire solo terapia, significa prendersi cura della persona nella sua completezza: la componente biologica ma anche quella più profonda, sino alla parte spirituale. Siamo troppo razionali e schematici, e c’è pure una ragione: ci dev’essere una medicina dell’evidenza. Ma io credo nell’umanizzazione della medicina, in un nuovo rapporto medico-paziente basato sull’empatia.
Come vede un paziente il proprio organo malato?
Bella domanda, me la sono posta anche io. Ma me ne sono fatte anche altre. Per esempio: qual è l’immagine corporea di un fegato cirrotico, di un rene malandato o di un pancreas che non funziona? I pazienti che soffrono di colon irritabile o del Morbo di Crohn, odiano il proprio intestino. Non vogliono neppure sentirne parlare. Ecco, cerco di indurre il paziente a riprendere il contatto con il proprio organo ammalato per risentirlo come proprio. Vale anche per le neoplasie.
Non può essere soltanto una questione di volontà.
La sola volontà non basta. In caso contrario, nessuno si ammalerebbe.
Non si trova tutti i giorni un dirigente di una struttura pubblica che accetti queste sfide.
Sì, e di questo sono e sarò sempre grato alla direzione sanitaria del Brotzu per la fiducia che hanno riposto in me. Spero ripagata dai risultati che stiamo ottenendo.
Quali sono i commenti dei suoi pazienti?
Gliene faccio ascoltare qualcuno (il dottor Sirigu, a tal proposito, ci mostra alcune videointerviste di questo tenore fatte in sala ecografia, ndr). Di solito mi dicono di sentirsi sollevati, sereni, di provare una sorta di affetto per l’organo ammalato. I risultati sono stati da subito estremamente buoni. E siccome l’appetito vien mangiando, in un secondo momento abbiamo pensato ai trapiantati. Si sottovaluta che questi pazienti hanno ricevuto organi donati da persone decedute. Non è facile accettare questa condizione, non tutti ci riescono. A volte il paziente non comprende dove finisce lui e dove inizia il donatore. Si sente in vita grazie a una morte. L’ho capito nella mia pratica clinica, ma è ben raccontato nel libro “L’intruso” dell’illustre filosofo francese Jean-Luc Nancy: si intuisce l’universo delle problematiche di un trapiantato. Vi assicuro che non sono sensazioni astratte.
Lei ha una grande attenzione per il prossimo. Da anni si occupa di sociale, organizzando concerti di beneficenza in cui lei suona con un gruppo di medici.
Un tempo era un gruppo più eterogeneo, oggi siamo quasi tutti colleghi di varie specializzazioni più un fisioterapista. Ci divertiamo e, allo stesso tempo, cerchiamo di contribuire a giuste cause.
Qual è il suo prossimo obiettivo?
Quello di unire ancora di più la tecnologia e l’intelligenza artificiale a questo tipo di attività, mostrando al paziente un organo in 3D mentre eseguo l’ecografia. Un’esperienza immersiva che consenta di vedere il proprio corpo ma anche gli scenari immaginati dallo stesso paziente: il quale, per rilassarsi, potrebbe desiderare di trovarsi in un luogo sicuro, per esempio in una spiaggia esotica. L’intelligenza artificiale lo consente, in pochi secondi. È un progetto ambizioso che richiede competenze, tempo e risorse importanti, ma questo è il futuro.
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