Gli piace definirsi “educattore” e non è un vezzo. Lino Guanciale, classe 1979, volto noto della televisione italiana, protagonista di serie di successo come Il commissario Ricciardi, L’allieva e La porta rossa conta non solo milioni di telespettatori, ma anche migliaia di studenti incontrati nelle scuole. Non tutti sanno infatti che Guanciale, oltre a essere un attore di successo, è una persona socialmente impegnata. Ora è testimonial di Unchr, ma fin dagli esordi ha portato il suo lavoro nelle scuole, incontrando studenti in tutta Italia per avvicinarli al teatro e alla cultura. Insieme alla moglie Antonella Liuzzi, proprio in questi mesi è alle prese con la costruzione di un progetto volto all’inclusione lavorativa, sociale e culturale delle persone migranti, da realizzare a Milano. Il trait d’union di tutte queste attività è la bellezza, una costante tutt’altro che superficiale. Non per nulla Guanciale è tra i firmatari del manifesto “Di Bellezza Si Vive” (ne abbiamo parlato qui) che pone l’esperienza della bellezza al centro di qualsiasi azione educativa: bellezza però intesa non come formalismo estetico ma come esperienza di risonanza che espande le potenzialità di ogni persona. Un progetto quadriennale finanziato dal fondo per il contrasto della povertà educativa minorile in risposta a un bando dell’impresa sociale Con i Bambini ha già dimostrato l’efficacia di questo innovativo approccio.
Ci parla della sua esperienza educativa?
Fin dai miei esordi mi sono impegnato anche dal punto di vista formativo. All’inizio era un lavoro squisitamente di formazione del pubblico teatrale, poi l’impegno è diventato anche altro, un cercare di fare del teatro un vettore del dibattito culturale su scala territoriale e nazionale. Questo, per me, ha significato toccare i contesti delle scuole di ogni ordine e grado, dalle elementari fino all’università, ma anche delle associazioni, dei centri culturali, delle biblioteche e delle istituzioni culturali di diverse città. In ogni contesto in cui mi sono trovato a lavorare ho constatato quanto il potere dei contenuti artistici riesca a catalizzare delle energie antidepressive. Questo vale anche e soprattutto in luoghi lontani dai centri intellettuali delle città. Ho verificato come in realtà sia non facile, ma semplice, che è una parola completamente diversa, accendere nelle persone un entusiasmo e un’adesione forte all’arte, ma anche alla cittadinanza.
Ho sempre constatato quanto il potere dei contenuti artistici riesca a catalizzare energie antidepressive. Questo vale anche e soprattutto in luoghi lontani dai centri intellettuali delle città
Lino Guanciale
In che senso?
Gli artisti che si impegnano per coinvolgere le persone nel proprio lavoro hanno l’opportunità di rilanciare un senso di cittadinanza, di appartenenza alla comunità e desiderio di giocare un ruolo attivo nel miglioramento della propria città e del proprio Paese. Faccio un esempio banale, ma che rende l’idea. Se uno spazio culturale molto bello viene lanciato in periferia, con persone appassionate che lavorano al suo interno proponendo contenuti validi e inclusivi, è difficilissimo che il territorio – anche se è un contesto complesso – risponda in maniera ostile. È facile, invece, che quel luogo finisca per essere il più pulito e il più curato dalla cittadinanza in quell’area: la bellezza innesca anche una forma di rispetto per se stessa e per chi la frequenta. Questi contenuti li ho riconosciuti nel manifesto “Di bellezza si vive” e mi sono sentito di firmare senz’altro.
Secondo lei c’è bellezza nelle nostre scuole, per come le ha viste?
C’è ancora tantissimo da fare. Sicuramente la bellezza c’è in moltissimi casi nel corpo docente, che spesso fa un lavoro “di trincea” (Guanciale è figlio di un’insegnante, ndr). A insegnare ci sono giovani professoresse e professori, maestri e maestre motivatissimi, che trovano difficoltà perché invece non c’è bellezza nelle infrastrutture e nell’architettura salariale e di welfare che dovrebbe sostenerli. I nostri insegnanti sono pagati troppo poco per riuscire fare l’ottimo lavoro che – ne sono sicuro perché ne conosco tantissimi – sono educati e pronti a fare. E poi ci sono i ragazzi. Di bellezza in loro ce n’è tantissima, soprattutto in potenzialità. Bisogna essere capaci di catalizzarla. Sarebbe bene che anche gli istituti scolastici diventassero belli; il che significa avere delle risorse.
Per portare bellezza nelle scuole servono anche legami col territorio?
Esatto. Non parliamo solo di eventi artistici da rendere alla portata di tutti, parliamo di quelle centinaia di migliaia di realtà, di operatori culturali, artisti, artigiani, che ogni giorno cercano di fare un lavoro sensato e partecipativo sui loro territori. Non bisogna trattare la scuola come una cattedrale nel deserto, in cui portare grandi artisti che stiano lì qualche ora mostrando il loro bellissimo lavoro. La partecipazione da parte delle eccellenze artistiche è fondamentale, ma solo se è integrata col territorio.
Non bisogna trattare la scuola come una cattedrale nel deserto, in cui portare grandi artisti che stiano lì qualche ora mostrando il loro lavoro. La partecipazione da parte delle eccellenze artistiche deve essere integrata con l’azione del territorio
Lino Guanciale
E qui entra la figura dell’ “educattore”…
Io e i miei colleghi, quando eravamo impegnati in questi anni di lavoro nelle scuole, amavamo chiamarci “educattori”, perché era bello riuscire ad accoppiare la proposta artistica di palcoscenco e di cartellone con spettacoli importanti che però vivessero della frequentazione di persone che magari non erano mai state fino a quel momento pubblico teatrale, ma che lo sono diventate in virtù delle tante attività realizzate sul territorio. Nel piccolo video che ho registrato per l’evento conclusivo del progetto “Di Bellezza Si Vive” parlavo di un indotto di ragazze e ragazzi delle scuole, tra i 15 e i 19 anni, che si è aggirato attorno alle 5mila nuove presenze a teatro. Presenze tutte costruite attraverso delle incursioni didattico-teatrali in classe fatte da noi attori.
Ha qualche ricordo speciale di quel periodo?
Mi ricordo, per esempio, di alcuni incontri fatti nelle scuole per sostenere uno spettacolo di Bertold Brecht, La resistibile ascesa di Arturo Ui: dovunque siamo andati in quella tournée – da Roma, dove partimmo, a Milano, passando per tutta Italia – abbiamo toccato un bacino d’utenza intorno ai 20mila studenti. Che ci trovassimo in aule da 20 posti o da 300 posti, l’entusiasmo che si accendeva nei ragazzi era simile. Peraltro, parlo di un’epoca in cui per me la popolarità era ancora lontana e il mio lavoro era squisitamente teatrale. Un’altra volta mi sono trovato a incontrare tantissimi studenti e studentesse per parlare di Ragazzi di vita di Pasolini; erano tutti ragazzi e ragazze che di Pasolini avevano sì sentito parlare, ma ne avevano un’immagine inevitabilmente insufficiente o errata, arrivata da chissà quale vulgata. Poi si sono appassionati a quello che abbiamo raccontato loro di questo grande autore e hanno continuato a scriverci, oltre che a venire a teatro, testimoniando un interesse crescente, chiedendoci altri libri da leggere e altri film da scoprire. In particolare ricordo un ragazzo – ora userò un’espressione brutale e orribile, ma è quello che disse lui alla lettera – che quando chiesi se sapevano chi fosse Pasolini rispose «un frocio che hanno ammazzato a Ostia». Siamo partiti dal problematizzare quanto era stato detto, abbiamo costruito un dialogo senza demonizzare quello che gli era arrivato evidentemente da altri. Questo ragazzo non solo è stato tra i più coinvolti in tutte le attività che abbiamo fatto quell’anno legate allo spettacolo, ma ha anche intrapreso degli studi che hanno a che vedere con la letteratura novecentesca e anche pasoliniana.
Anche il nuovo progetto che avete in mente di realizzare a Milano è legato alla bellezza.
Liuzzi: È un progetto fortemente sociale e culturale, con un focus sui rifugiati, anche grazie alla lunga collaborazione di Lino con Unhcr. L’idea è partita proprio da una missione in Etiopia, nel 2019, in cui anch’io l’ho accompagnato nei campi per i rifugiati: quando siamo tornati avevamo in mente di fare qualcosa. Ci ha colpito moltissimo il fatto che c’erano tantissime persone che prima avevano una professione – erano medici, ingegneri, artigiani e commercianti – ma nel campo profughi erano fermi senza far niente. Anche quando poi riescono a raggiungere in sicurezza il territorio italiano, spesso non ce la fanno subito a riprendere il loro mestiere o a reinventarsi, anche perché il riconoscimento formale delle loro competenze non sempre è facile. Per questo abbiamo pensato di inventarci un luogo per creare occupazione, ma aggiungendoci anche una parte culturale, in cui idealmente vorremmo fare scouting di talenti. Ci piacerebbe supportare i giovani artisti offrendo laboratori, residenze e creando integrazione: non sarà solo un centro per i rifugiati, ma per la cittadinanza intera.
In apertura, Festival del Cinema di Roma 2024, Lino Guanciale e la moglie Antonella Liuzzi sul red carpet. Foto di Stefano Colarieti /LaPresse
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