«Il Libano», dice Marco Perini, Regional Manager di Avsi, «è il paese degli equilibristi». L’ong italiana dal 2011 è impegnata nell'assistenza dei profughi siriani che hanno trovato rifugio oltre frontiera. «Oggi non si può immaginare il Libano come paese a sé stante», spiega Perini. «Per capirlo bisogna guardare i suoi confini: Israele a Sud – con tutto quello che Israele significa nel mondo – poi la Siria un paese devastato dalla guerra civile da otto anni. Questo è un paese strategico e delicato. Ma la situazione è sempre più drammatica e complessa. La povertà non va mai dove c’è ricchezza. Nei quartieri ricchi di Beirut i siriani non li vedi. Dove vedi il rifugiato che è scappato dalla Siria perché la casa gli cadeva in testa? Lo vedi accanto al libanese povero». E in uno Stato che non riesce a prendersi cura dei suoi cittadini la presenza di così tanti profughi siriani tiene alta la tensione (Qui la prima parte del reportage).
In Libano c’è un’altra cosa che colpisce: il numero dei bambini. Minori fantasma e senza documenti. Ai quali la guerra in Siria da un lato e il governo libanese dall’altro hanno rubato il futuro. Nel campo informale di Sarada, incontriamo Asar, che arriva da Raqqa. Ha 35 anni e anche se da 8 vive in Libano, è sempre ossessionata dalla stessa paura: «Di dimenticare i bambini in Siria, di non riuscire a prenderli durante un bombardamento e dover scappare senza di loro». Asar ha quattro figli, i primi due sono nati in Siria. Se la ricorda bene quando ha partorito Mohamed, nato sotto le bombe.
Il bambino non voleva uscire così il marito l’ha portata in ospedale: «il dottore ha fatto il primo taglio con il bisturi, poi hanno attaccato la città. Così siamo ritornati in quello che restava della nostra casa. Qualche giorno dopo la ferita ha iniziato a sanguinare. Fino a dilatarmi il ventre. Mohamed è nato così, e da quando è nato ha visto solo questo: guerra e campi profughi».
Nel campo profughi di Tel Abbas, Abdul non esce più dalla sua tenda. All’inizio dello scorso agosto, mentre stava camminando tra le strade di Halba nella regione di Akkar, a 5 chilometri dalla Siria, l’esercito l’ha fermato e gli ha chiesto i documenti. I suoi erano in regola. Ma il militare, prima di lasciarlo andare gli ha detto: “non ti far mai più vedere in strada. Se ti trovo ti rispedisco in Siria”. La moglie di Abdul, Afaf è disperata. Chiama il marito e prova a scuoterlo. Ma è tutto inutile. Abdul sente solo la paura.
Anche Maya, che ha sette anni, vive nel campo profughi di Tel Abbas. Quando prima cadevano le bombe in Siria, l’eco di vite spezzate arrivava chiaro fino a qui. Maya è una bambina bellissima, ma quando glielo dici, inghiotte il complimento. Lo butta giù nel fondo perché non lo capisce, sente che non le appartiene, si giustifica: «non sono io, forse è il vestito che mi hanno prestato». È la più grande di cinque figli. «Sono triste perché la mia mamma è triste», racconta. Lei e la sua famiglia erano entrati in un percorso di corridoi umanitari per arrivare in Germania.
Avevano superato tutti gli step. I bambini erano stati vaccinati. Alla fine di mesi di speranza è arrivato il diniego. Le tende del campo profughi di Tel Abass sono l’unica casa che conosce. Ma qui per i bambini come Maya non c’è futuro. Il governo libanese non li riconosce e quasi nessuno è stato registrato in Siria. Non frequentano la scuola, i più fortunati seguono gli shift pomeridiani, ma non tutte le famiglie hanno i soldi per pagare il bus dal campo alla scuola. Maya sorride sempre ma con gli altri – tantissimi – bimbi fantasma del campo, giocano alla guerra “hanno bombardato la Siria, hanno bombardato la Siria, ora bombardiamo il Libano”. Nel campo profughi di Tel Abbas i volontari italiani del corpo di pace Operazione Colomba vivono nel campo insieme ai profughi.
«La presenza di volontari internazionali nel campo», racconta Paola, 22 anni, «aiuta i profughi a sentirsi più sicuri. In questo campo hanno fatto diverse retate all’alba. Con la nostra presenza siamo riusciti, per adesso, a non far abbattere nessuna delle tende». Le azioni dell'Esercito libanese e delle Forze di Sicurezza Interna contro i siriani in Libano hanno incluso un aumento esponenziale delle deportazioni forzate, la distruzione di case e campi profughi informali siriani, sfratti di massa, l’inasprimento delle misure contro i lavoratori non autorizzati e le imprese di proprietà siriana, così come la limitazione della possibilità per i bambini siriani di ottenere un permesso di soggiorno legato alla residenza legale dei genitori tramite uno sponsor libanese. «Ma», continua Paola, «queste azioni violano i diritti umani dei siriani in Libano; le deportazioni forzate violano il principio di non- refoulement sancito dall'articolo 3 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, di cui il Libano è firmatario».
Il 13 maggio 2019 l'Ufficio di Sicurezza Generale libanese ha emesso l’ordine di espellere e consegnare sommariamente alle autorità siriane tutti i profughi che avevano attraversato irregolarmente il confine dopo il 24 aprile 2019. Con questa decisione, le deportazioni possono essere effettuate sulla base di un ordine verbale della procura, senza rinviare i cittadini siriani a processo, con conseguente espulsione immediata dopo l'arresto, senza alcuna indagine giudiziaria.
«Qui la nostra vita è come una morte vivente. La vita è insopportabile. È come vivere in una prigione a cielo aperto a causa dei posti di blocco. La nostra famiglia vive in un garage e i proprietari ci fanno pagare come se fossimo in un appartamento. Non c'è futuro per i nostri figli. Non c'è sicurezza. Quando lavoro, i libanesi possono semplicemente decidere di non pagarmi e cosa posso fare? Loro mi dicono solamente: "Sei siriano, non puoi fare nulla”», ha raccontato un profugo siriano di 59 anni, padre di 9 figli e nonno di 4 nipoti, ai volontari di Operazione Colomba. E ancora «Sono venuti in casa mia alle 6 del mattino per arrestarmi. Io non posso camminare, perché sono stato ferito da una scheggia durante la guerra. Ma i funzionari dell'esercito libanese continuavano a dirmi di alzarmi e camminare anche se sapevano che non potevo. Poi mi hanno portato in una prigione dove mi hanno tenuto per 36 ore in una stanza angusta con altri 40 uomini. Ho un catetere a causa delle mie ferite e ho bisogno di farmaci costanti. Quando mia moglie è venuta in prigione per portarmi le mie medicine, le hanno proibito di vedermi e di darmi i farmaci. Quando ho chiesto di svuotare il mio catetere, uno dei soldati ha tirato fuori il tubo per versare il contenuto del catetere su di me. Il giorno dopo, i soldati si sono resi conto che mi avevano confuso per qualcun altro e così mi hanno lasciato tornare a casa", ha raccontato un giovane di 32 anni.
Non si può prevedere come andrà a finire. Mentre scriviamo il presidente turco Erdogan si prepara a sferrare un'offensiva nel nord della Siria. Ci saranno altri civili morti, e altri sfollati ancora. Se si potessero restituire con una sola immagine le conseguenze della guerra in Siria – che non è finita – si potrebbe scegliere la faccia di una donna di 75 anni con la voce piena. Non lo dice ma lo sa che non ritornerà mai nella sua città d’origine, Idlib. Il destino di Thara, e lei lo sa, è quello di morire in un campo profughi.
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