A margine delle motivazioni relative alla sentenza del giugno 2016 ,sulla paranza dei bambini, nel cui processo era giudice, in un’intervista rilasciata a un quotidiano locale lei si interrogò su quel “ filo più sottile ed esistenziale che lega i giovani che scorrono in armi nelle vie del centro storico di Napoli («le stese») per uccidere e farsi uccidere, e i militanti del jihad: entrambi sono ossessionati dalla morte, forse la amano, probabilmente la cercano, quasi fosse l’unica chance per dare un senso alla propria vita e per vivere in eterno».
Negli ultimi anni della mia esperienza mi sono imbattuto in alcune vicende di criminalità giovanile, note alla cronaca come “la paranza dei bambini” e nel corso delle indagini, che secondo la metodologia giuridica odierna hanno un approccio molto invasivo sulla dimensione socio-relazionale degli indiziati, ho avuto modo di visionare i loro profili sui social, oltre ad analizzare le intercettazioni telefoniche.
Mi colpì molto rilevare come questi ragazzi, che erano i figli o i nipoti delle famiglie camorristiche, in realtà avevano ben poco a che vedere con l’impianto iconologico classico di questo sistema criminale. I loro segni distintivi, i loro simboli di appartenenza non hanno più alcun riferimento ai rituali tradizionali (lo scambio di sangue o le foto dei santini bruciati), che forse non conoscono nemmeno. Piuttosto presentano elementi come tatuaggi a base di numeri, molto simili a quelli di gang latino-americane come Mara Salvatrucha o MS13, oppure la cosiddetta “barba alla talebana” che, in genere, riconduciamo ai foreign fighters.
L’emarginazione di tutti questi giovani è un derivato del neocapitalismo, di una struttura economica e sociale che non ha posto per tutti, finendo per escludere una larga fetta di popolazione che non riesce a trovare un proprio posto nel mondo. Quindi la miscela esplosiva tra neocapitalismo, sistema finanziario della droga, dinamiche geopolitiche di Arabia Saudita e Qatar, così come di alcuni paesi occidentali, genera questo “esercito di riserva” di giovani emarginati
Allora mi sono chiesto cosa potesse collegare questi ragazzi così distanti tra loro. Ritengo che ci siano almeno due elementi condivisi da queste fenomenologie criminali giovanili: la provenienza da contesti di estremo disagio socio-culturale ed un ingente flusso di denaro: quello del mercato della droga in alcuni contesti, piuttosto che le dinamiche geopolitiche di aree come l’Arabia Saudita ed il Qatar. Ho intuito che le odierne vicende della criminalità organizzata s’intreccino, fino a confondersi con le vicende del disagio e dell’emarginazione giovanile, creando una miscela esplosiva.
E, ad accomunare tutti questi giovani c’è anche che sono tutti totalmente superflui nelle logiche di produzione e che questi ragazzi sanno bene di essere superflui. Questo è il filo rosso che intravedo a collegare la paranza dei bambini, le gang latino-americane e i foreign fighters, passando per gli Acab degli ultras del calcio e le terze generazioni delle banlieueparigine
Queste sue analisi ci rimandano alle riflessioni che Raffaello Pantucci, direttore degli Studi sulla Sicurezza Internazionale al Royal United Services Institute, aveva condotto nel pamphlet “We love death as you love life”, esito di un case study sul pensiero dell’estremista Mohammed Siddique Khan all’indomani dell’attentato di Londra del 5 Luglio 2005…
Io sono convinto di questo perché una forte emarginazione sociale può spingere a scelte estreme anche di morte, come già accaduto nella storia. Io credo che siamo in una situazione drammatica: gran parte della gioventù del mondo non ha nessuna idea o prospettiva di poter diventare qualcuno. E l’unico modo affinché questi giovani possano lasciare una traccia di sé è la morte.
Penso ai ragazzi morti di camorra nei quartieri di Napoli, penso a Emanuele Sibillo, a cui è dedicato un piccolo altare nell’androne del suo palazzo. Per questi ragazzi farsi ammazzare è stato l’unico modo per essere qualcuno. Allora questa pulsione di morte è l’accettazione di uno status esistenziale, in cui la morte è l’unico modo per lasciare traccia di sé in una vita che li considera superflui. Tutto questo unisce tanti giovani che vivono in condizioni di emarginazione, anche se provenienti da culture e contesti geografici assai diversi.
Ci fa pensare al tema della gloria eterna, di cui parla Jean-Pierre Vernant ne “La morte negli occhi” a proposito del destino di morte in guerra dei giovani eroi del mondo classico.
Beh, solo che quella però è la “bella morte” dell’élite, questa è la bella morte degli emarginati. Epaminonda è un eroe per tutti, qui invece parliamo di chi diventa eroe nell’ambito di cerchie ristrette di emarginati. Questa è una sottospecie di gloria eterna nelle periferie e nei sobborghi del mondo. E purtroppo a rendere ancor più preoccupante questo scenario sono le agenzie finanziarie criminali che fomentano questo disagio, lo amplificano per usarlo e per servirsene, dal mercato della droga alle trame dell’Arabia Saudita.
… il loro antagonismo non è una ribellione in grado di portare a qualcosa di positivo, è piuttosto il sussulto di un Lumpenproletariat, perché quello cui loro concorrono non è una rivoluzione, ma puro disordine. È la cultura antagonista di chi viene costretto a percepirsi e a rappresentarsi continuamente nella propria diversità, visto che si ritrova ad essere oggetto di azioni di controllo e repressione da parte delle forze dell’ordine. E così questi giovani maturano un rancore formidabile verso gli altri che non può che esplodere
Pensando al realismo capitalista di Mark Fisher, ci verrebbe da dire che questo disagio giovanile, la paranza dei bambini, i giovani islamici radicalizzati siano quasi una sorta di sottoprodotto del capitalismo contemporaneo?
L’emarginazione di tutti questi giovani è un derivato del neocapitalismo, di una struttura economica e sociale che non ha posto per tutti, finendo per escludere una larga fetta di popolazione che non riesce a trovare un proprio posto nel mondo. Quindi la miscela esplosiva tra neocapitalismo, sistema finanziario della droga, dinamiche geopolitiche di Arabia Saudita e Qatar, così come di alcuni paesi occidentali, genera questo “esercito di riserva” di giovani emarginati.
Vorremmo approfondire i modelli estetici e relazionali di questi giovani, come quelli della criminalità napoletana, in cui ha avuto modo di imbattersi nelle indagini da lei citate.
Questo rimanda a modelli iconici purtroppo resi virali dai social: ecco perché un ragazzo napoletano affiliato a situazioni criminali può avere la barba incolta come il giovane musulmano radicalizzato, farsi un selfie con la pistola o esibire un tatuaggio numerico, come le gang giovanili latino-americane. Giovani tra loro diversi, certamente, ma facendo uno sforzo di sintesi quello che abbiamo è un esercito di giovani senza futuro che cercano di dimostrare agli altri, come a sé stessi, che esistono. Perché non è concesso loro di farlo dando prova di sé nel lavoro o mettendo su famiglia. E ad allarmarmi è l’estrema violenza che caratterizza questi fenomeni odierni di criminalità giovanile.
Penso alla camorra che, come cosa nostra, non ha mai avuto intenti sovversivi antagonisti. Erano piuttosto articolazioni altre del potere, come l’alleanza tra cosa nostrae la Nato che andava nella prospettiva anticomunista di stabilizzare la posizione dell’Italia all’interno del blocco occidentale. La stessa camorra nei quartieri di Napoli era una diversa variante dell’ordine sociale e non ha mai contenuto elementi di terrorismo. Invece queste nuove aggregazioni criminali contengono molti elementi di antagonismo che rappresenta come un collante tra pulsione di morte ed emarginazione. E questo antagonismo che si organizza configura una situazione nuova con cui prima o poi dovremo fare i conti. Penso al Salvador, al Brasile, dove le organizzazioni politiche di questo tipo si sono strutturati quali soggetti politici veri e propri.
Vorremmo capire da lei che idea si sia fatto, nel corso delle sue indagini, sulle strutture le rappresentazioni familiari di questi ragazzi della criminalità napoletana.
Diciamo che ho rintracciato modelli estremamente conformisti e arcaici sulla famiglia, così come su donne e relazioni. Le loro vicende criminali alla fine sono anche un modo per consentire la sopravvivenza delle loro strutture familiari. Si fanno selfie con figli e fidanzate, nel conformismo più banale. Ma è diverso il rapporto di sé con il mondo e con il futuro. Questa loro incapacità di programmare una vita oltre il domani, questo vivere il presente senza preoccuparsi del futuro come se esistesse solo il presente, anche perché il futuro non è detto che ci sarà. Tuttavia il loro antagonismo non è una ribellione in grado di portare a qualcosa di positivo, è piuttosto il sussulto di un Lumpenproletariat, perché quello cui loro concorrono non è una rivoluzione, ma puro disordine. E’ la cultura antagonista di chi viene costretto a percepirsi e a rappresentarsi continuamente nella propria diversità, visto che si ritrova ad essere oggetto di azioni di controllo e repressione da parte delle forze dell’ordine. E così questi giovani maturano un rancore formidabile verso gli altri che non può che esplodere. Un rancore comprensibile perché se anche questi giovani cambiano vita, rimarranno sempre bersaglio di interventi di controllo e di repressione. Questo rancore da solo non basta per determinare azioni rivoluzionarie, ma che è più che sufficiente per innescare vissuti di alterità e di risentimento che non possono che innescare scoppi di violenza. Questo è un esercito immenso di giovani emarginati e rancorosi, abbandonati da tutti, inclusa la politica. È la situazione di una gioventù superflua rispetto ai processi economici e finanziari e che gran parte delle classi dirigente preferirebbe veder sparire.
Una gioventù superflua, carica di motivato rancore che in qualche modo ci ricorda i protagonisti del film del 2010 di Stuart Beattle, Tomorrow, When the War Began dove un gruppo di ragazzi si ritrova improvvisamente abbandonato dagli adulti e costretti ad imbracciare le armi per combattere contro un nemico che non ha connotati. Ragazzi che cercano di sopravvivere al senso di vuoto che noi genitori abbiamo scavato e per i quali non sarà immediato trovare delle risposte.
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