Enrico Galiano

L’errore è un’occasione per crescere, ma la scuola non lo capisce

di Veronica Rossi

"Sbagliare fa bene" è il titolo dell'intervento che lo scrittore e insegnante farà il prossimo 20 aprile al Convegno nazionale 2024 del Cpp di Daniele Novara. La scuola, dice Enrico Galiano, «dovrebbe staccarsi dalla rigidità dei voti numerici e reclutare insegnanti preparati soprattutto nella relazione coi ragazzi»

La scuola italiana, ancora oggi, rischia di essere un’istituzione troppo rigida, legata alle valutazioni fatte con voti numerici e alla motivazione imposta attraverso la paura della bocciatura e dei giudizi negativi. Eppure, sbagliare può non essere la tragedia che viene rappresentata agli studenti. Anzi. C’è chi, come Enrico Galiano, scrittore e insegnante in una scuola secondaria di primo grado della provincia di Pordenone, pensa che gli errori siano auspicabili e utili per crescere al meglio. È proprio di questo che il professore parlerà al convegno nazionale del Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti di Daniele Novara, dal titolo La scuola non è una gara, in programma per il 20 aprile a Piacenza.

Partiamo dal titolo del suo intervento: “Sbagliare fa bene”. In che senso?

Nei miei quasi vent’anni di insegnamento ho elaborato una teoria secondo la quale è importante insegnare ai ragazzi a sbagliare con gioia, cioè rendendosi conto che ogni errore in realtà è prima di tutto – come dice la parola stessa (la sua etimologia rimanda al verbo latino per errare, ndr) – un tentativo di esplorazione. Ecco, se cambiamo punto di vista ci rendiamo conto che l’errore altro non è che un avvicinarsi alla verità, alla risposta corretta o alla giusta soluzione. Estendendo questo concetto al di là dei muri della scuola, uno sbaglio non è più un senso di colpa, ma appunto un modo per andare a vedere cosa c’è e per migliorarsi.

Ogni errore è prima di tutto un tentativo di esplorazione. Se cambiamo punto di vista, ci rendiamo conto che l’errore altro non è che un avvicinarsi alla verità

Enrico Galiano

Lei, in classe, utilizza i voti espressi in numeri?

Li uso alla fine del primo quadrimestre e dell’anno scolastico, perché è un obbligo di normativa. Ma nella comunicazione quotidiana il numero è sostanzialmente abolito. Il voto numerico ha una funzione rendicontativa e non formativo-educativa: serve a mettere gli studenti in scale di livello e non a migliorare i loro apprendimenti. Non è neanche una questione di ansia o di oppressione, anche se certamente i voti possono essere collegati a questo, più che altro non è un metodo efficace tanto quanto lo è il dialogo. Entrando nel dettaglio, se dopo un compito scritto faccio trovare a uno studente un foglio con un numero e un giudizio discorsivo, il primo attirerà tutta la sua attenzione. Se invece io lo chiamo vicino a me alla cattedra, gli spiego innanzitutto le cose positive che ho riscontrato nell’elaborato e in seconda battuta ragiono su cosa si poteva fare diversamente, la valutazione diventa davvero utile, un momento per crescere.

Le norme cosa dicono a riguardo?

Le normative chiedono che la valutazione finale sia supportata da un congruo numero di prove: io devo saper argomentare perché, alla fine del quadrimestre, opto per un sette, per un otto o per un nove. Questo lo posso fare solo se valuto lo studente sulla base di come scrive, come parla, come sa la storia e le mie materie in generale. È importante ricordare questo aspetto, perché in tanti dicono che la normativa imponga di mettere tanti voti. No, le leggi dicono che devi mettere un voto alla fine del primo quadrimestre e uno alla fine dell’anno, per il resto sei molto libero di gestire il tuo metodo educativo.

Come può un insegnante stimolare attenzione e impegno senza lo “spauracchio” del voto?

Su questo punto sono molto tranchant. Se tu hai bisogno di uno spauracchio per ottenere l’attenzione… hai sbagliato mestiere. Se devi usare la paura per invogliare qualcuno a studiare la tua materia, devi farti due domande. Riconosco che ci siano situazioni molto difficili e ragazzi con un grado di attenzione molto basso, che a casa magari non sono stimolati, ma se tu pensi che il metodo per farli impegnare sia minacciarli di mettergli un quattro e quindi di bocciarli, dovresti chiederti se stai sbagliando qualcosa. L’approccio principale è partire dall’ascolto, da quello che i ragazzi hanno da dire, dalla loro vita, dal conoscere i loro interessi. Se per esempio hai uno studente che non si sogna neanche di striscio di passare la sera leggendo Foscolo, ma è un appassionato di musica trap, prendi le canzoni di Marracash e gli fai vedere come lui e Foscolo in realtà in alcuni punti dicano esattamente le stesse cose. Devi agganciare così i ragazzi, partendo da loro per stimolare l’interesse per la tua materia.

Se tu insegnante hai bisogno dello spauracchio del voto per ottenere l’attenzione… hai sbagliato mestiere. Su questo sono molto tranchant

E i genitori cosa pensano dell’assenza dei voti?

I genitori sono concentrati sul benessere dei propri ragazzi. È ovvio che se avvertono un malessere si vanno ad appigliare a ciò su cui, a loro parere, i conti non tornano, per esempio sul fatto che i voti non ci sono. Se però l’alunno sta bene, manifesta comunque entusiasmo verso l’insegnante o verso la materia, i genitori non si lamentano. Quello che però accade è che ti dicano che alla secondaria di primo grado c’è questo sistema, poi arrivano alla secondaria di secondo grado e lì tutto cambia. Questa è un’obiezione molto sensata, io stesso mi trovo in difficoltà a dare una risposta univoca. La cosa che mi viene da dire è che tutto il mondo della scuola dovrebbe iniziare ad aprirsi anche ad altri approcci, senza questa rigidità e questo essere legati al voto. La seconda cosa che mi viene da dire è che non mettere voti non significa non esporre i ragazzi alla coscienza di un fallimento e questo deve essere ben chiaro. Faccio un esempio. Se uno studente mi consegna un compito di grammatica che sarebbe da quattro, non gli dico che è stato bravo. Gli chiedo: «Che succede? Come mai qua è tutto sbagliato?». Faccio capire che c’è stato un fallimento, non indoro la pillola e non faccio finta che vada tutto bene. Un insegnante è un professionista che deve anche saper dare delle brutte notizie e farlo con fermezza. Poi ci deve essere anche comprensione, sempre, perché bisogna partire dal ragazzo e chiedersi come mai sia andata male la prova, senza dare sempre per scontato che sia perché non ha studiato.

Se dipendesse da lei, cosa cambierebbe della scuola italiana?

Inizio da una premessa: quello che cambierei richiederebbe almeno il doppio degli investimenti sulla scuola rispetto a quelli che ci sono ora. Partirei dal reclutamento degli insegnanti: è osceno che ancora nel 2024 i docenti ottengano il ruolo con un concorso nel quale si valuta solo quanto sappiano della loro materia senza che vengano visti mai all’opera, nell’approccio con gli studenti. Sarebbe come valutare un calciatore per quanto ne sa di storia, regole e schemi del calcio, senza sapere come se la cava con un pallone tra i piedi. È un grandissimo controsenso. Questa secondo me è l’origine di tutto, perché se l’insegnante è preparato ed è innamorato del suo lavoro e dei suoi studenti – in senso buono, ovviamente – allora potrà fare molto anche col poco che avrà. Se un docente ne sa più di tutti della sua materia, ma è privo di competenze di relazione in quell’età così fragile che magari è l’adolescenza e anche l’infanzia, non sarà altrettanto efficace. Un insegnante demotivato e non competente può fare danni irreparabili nella vita di un ragazzino: se moltiplichiamo questo per tutti gli studenti che un professore potrà avere sotto di sé, capiamo bene quanto può essere esteso il danno.

Non è possibile che il 40% delle scuole italiane siano a rischio sicurezza e che comunque, a spanne, tre quarti di esse siano anche esteticamente brutte. Come si fa a lavorare bene in un luogo brutto?

Essere demotivati è un problema individuale, dei singoli docenti, o è anche una questione di sistema?

Parlavo di insegnanti demotivati rispetto alla propria vocazione, che non hanno l’entusiasmo di partenza necessario a fare questo lavoro. Poi, occorrerebbero molti investimenti, anche per generare un ambiente che sia favorevole anche ai docenti stessi. La seconda cosa che cambierei della scuola, infatti, è il numero di studenti per classe, al massimo dovrebbero essere 15. Solo così si riuscirebbe a ottenere per ciascuno un apprendimento il più possibile individualizzato, anche per gli alunni con Dsa o Bes (disturbi specifici dell’apprendimento e bisogni educativi speciali, ndr). Nella mia classe, per esempio, abbiamo cinque studenti con Bes e due con Dsa: questo vuol dire che quasi metà dei ragazzi ha delle particolarità di apprendimento. Se ci sono 25 o 30 alunni, come si fa a seguirli come si dovrebbe, senza perdere completamente il senno o andare in burn out dopo dieci anni di carriera, cosa che succede ormai a tantissimi? Comprendo quindi la demotivazione quando arriva da cause estrinseche come questa o come l’orrore di certi ambienti scolastici – ed ecco la terza cosa che cambierei – perché non è possibile che il 40% delle scuole italiane siano a rischio sicurezza e che comunque, a spanne, tre quarti di esse siano anche esteticamente brutte. Come si fa a lavorare bene in un luogo brutto?

Enrico Galiano interverrà il 20 aprile, a Piacenza, durante il convegno “La scuola non è una gara” (qui tutte le informazioni). L’evento, organizzato dal Cpp, vedrà sul palco anche Daniele Novara, Roberto Farné, Silvia Vegetti Finzi, Alberto Oliverio, Raffaele Mantegazza e tanti alti ospiti. Un convegno per impegnarsi, insieme, a trasformare la scuola in un ambiente positivo di apprendimento.

Foto in apertura Enrico Galiano ritratto da Yuma Martellanz

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