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Vittorio Pelligra

«Le 23 parole che ci hanno accompagnato durante la pandemia»

di Luigi Alfonso

L'economista cagliaritano parla della logica occulta della comunicazione e dei pericoli cui siamo sottoposti tutti i giorni, bombardati da un'informazione che talvolta è spudoratamente di parte. «L'espressione che più rappresenta il mio presente è coerenza: ci sono valori fondanti verso i quali ognuno di noi ha un dovere morale di fedeltà. Non sempre ci riusciamo»

Ventitré parole. Simboliche e prese a pretesto per raccontare gli ultimi tre anni che hanno sconvolto il mondo. Vittorio Pelligra, professore ordinario di Politica economica all’Università di Cagliari e da anni collaboratore di Vita, ha individuato alcuni termini che maggiormente hanno caratterizzato il periodo dal lockdown del 2020 fino allo scoppio della guerra in Ucraina. Li ha analizzati nel suo ultimo libro “Parole che fanno” (Edizioni Città Nuova, 144 pagine) con l’intento di spiegare la logica occulta della comunicazione.

Professor Pelligra, il grafico Edgardo Laganà non ha dovuto faticare molto nel creare la copertina di questo saggio: lei gli ha fornito subito un’indicazione chiara.

«Ho scelto un’immagine semplice ma molto significativa: un uovo poggiato su un parallelepipedo. È un uovo molto famoso perché questa foto, pubblicata su Instagram negli anni scorsi (è apparsa sul profilo world_record_egg, ndr), ha totalizzato 55 milioni di like e superato nettamente i 18 milioni raggiunti dallo scatto proposto qualche anno prima da Kylie Jenner (ritraeva la manina della figlia Stormi appena nata, ndr). Sono partito da una domanda: perché una foto così semplice riscontra un apprezzamento generale di questa portata?».

Quale risposta si è dato?

«Cinicamente, e senza retorica, la scienza ci dice che siamo obbedienti, siamo cioè disposti a fare ciò che gli altri ci dicono di fare molto più di quanto siamo disposti ad ammetterlo a noi stessi. Pensateci: 55 milioni di like alla foto di un uovo, solo perché qualcuno lo ha chiesto. E oggi chissà quanti saranno quei “mi piace” La gente è disposta a fare e a credere ciò che gli viene chiesto di fare e di credere. La storia ci insegna che siamo disposti a farlo se qualcuno ci chiede di mettere un like e molto altro, soprattutto se lo fa con toni perentori e magari vestendo una o più divise. Spesso facciamo delle cose quasi in maniera meccanica, a volte spinti dal senso di appartenenza alla maggioranza. La psicologia sociale e l’economia comportamentale negli ultimi anni ci hanno aiutato a comprendere meglio le dinamiche sociali innescate sia da una comunicazione buona che da quella cattiva».

Effetto ampliato dai social media e soprattutto dal loro uso distorto.

«Partiamo da un presupposto: chi gestisce i social, lo fa per business. Punto. Da qui nascono tutte le strategie di comunicazione che sono facilmente smascherabili: basti pensare che, un minuto dopo aver perfezionato un acquisto online, iniziamo a ricevere pubblicità riferita a quel dato oggetto. Oppure, ci arriva un flusso di notizie che rispondono a ciò che mi interessa di più. Sanno benissimo che, se dovessimo ricevere soltanto informazioni su argomenti che non ci interessano o peggio ancora che detestiamo, abbandoneremmo la navigazione pochi secondi dopo. Ma tenerci vincolati il più a lungo possibile alla navigazione è quello che le piattaforme vogliono perché in questo modo raccolgono una mole maggiore di dati e, contemporaneamente, siamo raggiunti da un numero maggiore di messaggi pubblicitari. È questa la base tanto semplice quanto potente di questa nuova “economia dell’attenzione”. E allora, i messaggi che riceviamo non sono uno spaccato fedele della realtà ma una realtà costruita proprio per noi, per lusingarci e blandirci. Ciò porta alla polarizzazione delle posizioni su temi importanti come la politica, l’ambiente, la salute, e quindi maggiore conflittualità e minore coesione sociale».

Con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, questo aspetto è certamente più lampante. Tornando all’argomento principale, le parole fanno: a volte bene, a volte male. Possono essere carezze ma anche pietre.

«È sempre stato così. Oggi ancora di più, per via della comunicazione globale. Ecco perché ho scelto queste 23 espressioni. Sono parole che fanno, appunto, che generano sempre cambiamenti: talvolta in meglio, altre volte in peggio. Parole di uso comune, spesso abusate, che sentiamo in tv, leggiamo sui giornali, usiamo con i nostri amici e scriviamo sui social. Il fatto è che ogni espressione ha una conseguenza: ci sono quelle che informano, quelle che ispirano, quelle che elevano, ma anche quelle che incidono la carne come la spada. Naturalmente, ci sono quelle che leniscono le sofferenze e che uniscono le persone. Dipende da noi. Comprendere a fondo la logica della comunicazione significa chiedersi in quale modo la stessa realtà può essere rappresentata in modi così diversi, a volte diametralmente opposti. In che modo questo possa creare polarizzazione ed estremismo. Negli ultimi anni lo abbiamo visto in maniera chiara durante la pandemia, e lo vediamo ancora nella comunicazione riguardante il conflitto ucraino: le distorsioni sono evidenti. La comunicazione è un’arma potente, e in guerra le armi si usano tutte. Per questo le informazioni vengono manipolate e distorte per comunicare ciò che non è. Sono inoltre convinto che la fase emergenziale, soprattutto in occasione del lockdown, si potesse raccontare in maniera differente, anche utilizzando termini più appropriati: si è parlato di distanziamento sociale, ma era un eufemismo».

La comunicazione pilotata è sempre esistita, purtroppo. Ma spesso cadiamo ingenuamente nelle trappole più banali.

«Certi comportamenti sono stati ben spiegati da Stanley Milgram, lo psicologo americano dell’Università di Yale che, agli inizi degli anni Sessanta, condusse un esperimento di psicologia sociale, diventato famoso in tutto il mondo. Aveva studiato il comportamento di 40 soggetti ai quali un’autorità (lui, nel caso specifico) ordinava di eseguire delle azioni in chiaro conflitto con i valori etici e morali degli individui che si erano sottoposti volontariamente a quel test. Con l’aiuto di alcuni attori, e all’insaputa delle persone coinvolte nell’esperimento, chiedeva a queste ultime di premere un pulsante con il quale attivava un meccanismo che, in apparenza, infliggeva delle scariche elettriche a quelli che loro pensavano essere altri partecipanti allo studio. Gli attori, debitamente istruiti, simulavano progressivamente sofferenze anche atroci e chiedevano che l’esperimento venisse interrotto. La maggior parte dei soggetti selezionati per la prova mostrò chiari sintomi di tensione, eppure molti di loro continuarono ad obbedire alle richieste del professor Milgram. Il quale ha dimostrato che in molte persone è più forte la percezione di legittimità dell’autorità (in questo caso la scienza) o comunque l’adesione al sistema di autorità».

È un modo, forse inconscio, per deresponsabilizzarsi?

«Direi di sì. Il grande filosofo francese Michel Foucault, in una delle sue lezioni al Collège de France, spiegò che “la parresia è il coraggio della verità di colui che parla e si assume il rischio di esprimere, malgrado tutto, l’intera verità che ha in mente; ma è anche il coraggio dell’interlocutore che accetta di accogliere come vera la verità oltraggiosa da lui sentita”. La pratica della parresia si contrappone all’arte della retorica. Bisognerebbe avere sempre la forza di dire ciò che si pensa, a prescindere da ciò che gli altri vorrebbero sentirsi dire».

Nell’era della comunicazione si sta assistendo al fenomeno degli hikikomori. Sotto questo profilo, il lockdown e le relative restrizioni sono stati una mazzata durissima per i bambini e gli adolescenti. Lei che si occupa spesso di tematiche giovanili, non trova paradossale che questi ragazzi si stiano isolando dal mondo?

«Non sono uno psicologo, ma mi sono fatto un’idea. Ho a che fare con i giovani perché insegno all’università da molti anni ormai. E osservo i miei figli, che sono appena usciti dall’adolescenza. Ho notato, per esempio, che sono riluttanti a fare telefonate con gli amici: preferiscono scambiarsi messaggi e magari esprimere una sensazione con un emoticon. Ma questa situazione è una sconfitta soprattutto per il mondo adulto. Forse le parole che mancano sono quelle dei genitori ai loro figli. Il mondo è molto cambiato e molto rapidamente, negli ultimi tre anni, e alle nuove generazioni noi non siamo in grado di trasmette sicurezza e fiducia nel futuro».

Complessità, obbedienza, pregiudizio, dissonanza, diversità, dipendenza, pandemia. Sono sette delle 23 parole trattate nel suo saggio. Quale termine esprime meglio il suo presente?

«Coerenza. Non perché non mi senta libero e a volte in dovere di cambiare idea, se è necessario, ma nel senso che ci sono valori fondanti verso i quali ognuno di noi ha un dovere morale di fedeltà. Credo anche che i nostri figli si aspettino dai genitori una certa coerenza. Non sempre ci riusciamo».

E quali parole si sono aggiunte nel frattempo a questo elenco?

«Impossibile contarle, siamo in continua evoluzione. Giorno dopo giorno. Dovrei fare una nuova edizione del saggio, ma prima mi piacerebbe chiudere almeno uno degli altri libri che ancora ho in sospeso».

In apertura: Vittorio Pelligra in occasione di una recente presentazione del libro "Parole che fanno"


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