Andrea Pecchini ha 38 anni, è assistente sociale, da poco è direttore del Servizio multidisciplinare integrato – Smi Il Filo di Ospitaletto di Marcaria (Mantova) della Fondazione Arca. «Gli Smi sono gestiti dal privato sociale, accreditati da Regione Lombardia, svolgono le stesse funzioni e erogano le stesse prestazioni dei Servizi pubblici». Il Filo si occupa di prevenzione, trattamento e riabilitazione di abuso e/o dipendenza da sostanze legali e illegali, oltre che altre forme di dipendenza. «Sono stato, fino a qualche mese fa, per 15 anni operatore e negli ultimi quattro anni anche direttore, della comunità terapeutica Giovanni Paolo II, che opera sempre nel campo del recupero delle tossicodipendenze. Ho iniziato questo lavoro a 22 anni».
Pecchini, si registra una diminuzione degli operatori nelle strutture per persone dipendenti da sostanze di circa il 20% (VITA ne ha scritto QUI). Secondo la sua esperienza, può confermarci questo trend?
Nella maggioranza dei casi, nel momento in cui una persona si avvicina professionalmente al mondo delle comunità, spesso se ne innamora e resta a lavorare. Il problema è riuscire a trovare chi accetta di avvicinarsi al mondo delle comunità, da fuori non si sa bene cosa si fa dentro, che luoghi sono, aleggia un po’ di mistero intorno al mondo delle comunità. Noi abbiamo avuto tante assunzioni dopo il tirocinio di laurea, anche molte esperienze del servizio civile sono culminate in un’esperienza di lavoro. Per quanto riguarda la mia esperienza, i Servizi per le dipendenze delle persone maggiorenni il turnover è molto basso, è molto più elevato nel trattamento residenziale per minori, qui la realtà è più difficile.
Cosa può raccontarci del suo lavoro? Lei se ne è innamorato?
Ho iniziato a lavorare, neolaureato, a 22 anni in comunità. Inizialmente è stato un po’ difficile interfacciarsi con un’utenza con un’età diversa. I miei pazienti erano tutti più grandi di me, con storie e vissuti segnanti, con molti fallimenti alle loro spalle e situazioni di dolore e di sofferenza, che avevano vissuto loro stessi e che avevano fatto vivere alle persone a loro vicine. Forse l’esperienza che più mi ha cambiato è stata quando sono riuscito a creare una relazione di aiuto con un paziente che aveva 45 anni, il doppio della mia età, di cui 20 anni di detenzione e 30 di dipendenza alle spalle. Dopo un ricovero in una clinica e il ritorno nella nostra comunità (dove era in misura alternativa alla detenzione), questa persona stava molto meglio, iniziava a fidarsi di me e ad aprirsi: è stata una grande soddisfazione vedere che si era ripreso in mano la sua vita.
C’è qualcosa che l’ha colpita, all’inizio, del lavoro in comunità?
Il fatto che mi ha colpito sin dall’inizio del mio lavoro in comunità è che, mettendo insieme tante persone che hanno le stesse problematiche, bisognerebbe avere una situazione ingestibile, esplosiva. Invece quello che succede è che, se un utente della comunità inizia ad interagire con i compagni, a sentire che può essere di aiuto, inizia ad aiutare e a smettere di essere considerato solo un problema o una persona da tenere al margine della società. Vedere la capacità delle persone di mettersi in gioco, di essere di supporto le une alle altre andrebbe portato anche fuori dalle comunità (intese come residenziali o sociosanitarie). Il concetto di vivere in comunità sarebbe molto utile anche nella società di oggi, nella quale si è molto concentrati su se stessi, si guarda molto poco agli altri, si cerca di sopravvivere anche a spese degli altri. In comunità questo non si può fare, i ragazzi iniziano presto ad autoregolarsi, a capire che la propria libertà finisce quando inizia quella dell’altro. Nelle comunità è tutto gestito all’interno: si cucina, si mangia insieme, c’è la lavanderia.
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In che percentuale gli utenti hanno anche problemi psichiatrici?
La comunità che gestivo fino a poco fa, Giovanni Paolo II di Mantova, è una comunità con un modulo per comorbidità psichiatrica, con pazienti che, oltre alla diagnosi di dipendenza da sostanze o da alcol, hanno anche una diagnosi psichiatrica conclamata dai servizi pubblici. Quando ho salutato la comunità, su 24 pazienti, 19 avevano anche una diagnosi psichiatrica.
Quali sono le difficoltà del suo lavoro?
Lavorare nelle comunità del Terzo settore, accreditate, in regione Lombardia, vuol dire lavorare con il Contratto collettivo nazionale lavoratori cooperative sociali: anche in caso di turni di notte, di lavoro nel weekend, lo stipendio è basso. Si lavora con la materia prima più complicata e bella che ci sia: l’essere umano. Che ha una variabile fantastica: ha la possibilità di decidere di cambiare la sua vita o di distruggerla. La complessità di lavorare con le persone andrebbe sicuramente esplorata. Le persone che chiedono di essere aiutate ci mettono la loro vita in mano, il senso di responsabilità che si ha nei confronti del paziente e dei suoi familiari è importante. Se si riesce a costruire una coalizione con i familiari, l’utente quando finisce il percorso è più strutturato e motivato a portare avanti il progetto di vita che si è costruito. Noi operatori di comunità abbiamo una grande responsabilità. Poi un tema a cui bisogna dare più attenzione è il fatto che si tratta di un lavoro usurante.
Ci spieghi meglio.
Essere un operatore in una comunità terapeutica è un lavoro faticoso, non dal punto di vista fisico, ma mentale ed emotivo. Nonostante la professionalità che ognuno ha, il coinvolgimento è molto forte. Si affrontano dei vissuti estremamente pesanti, con traumi forti dei nostri pazienti, a volte con delle storie di lutti e perdite che possono sovrapporsi leggermente con le nostre storie. Riuscire a restare dentro tutto questo richiede un quantitativo di energie molto elevato. Se si dà un lavoro di responsabilità così grande a un lavoratore, sarebbe giusto riconoscergli uno stipendio più adeguato.
Qual è stata la fatica maggiore in tutti questi anni?
In 15 anni di lavoro, ho sicuramente avuto tre burnout. Da operatore l’ho compreso, fortunatamente sono stato supportato dai colleghi e sono riuscito a superarli grazie a loro, e al lavoro su me stesso. Due lutti di miei pazienti mi hanno fatto fare i conti con il significato di questo lavoro. Tirate le somme, c’erano più pro che contro a continuare ad andare avanti, così ho superato questi periodi difficili e ho continuato a fare il mio lavoro.
Il burnout è frequente nel vostro lavoro?
Pensare che qualche mio collega non abbia mai dovuto fare i conti con il burnout è impossibile. In Fondazione Arca c’è un protocollo sulla prevenzione e la gestione del burnout tra noi operatori. Tra colleghi si impara a percepire dei segnali, per essere da supporto gli uni agli altri. Il burnout è frequente sia per i vissuti degli utenti sia per il ruolo che si ricopre come operatore. La maggior parte dei ragazzi che entrano in comunità hanno un rapporto con le autorità compromesso; la prima autorità con cui hanno a che fare, i genitori, in qualche modo ha fallito o si è creata con loro una difficoltà di relazione. La gestione del conflitto, delle frustrazioni, imparare a gestire e a dire dei “no”, da parte degli utenti, sono elementi usuranti. Il conflitto è una parte integrante del cambiamento. Se la persona che entra in comunità continua a comportarsi come si comportava fuori, non riesce a diventare una persona responsabile e ad avere la fiducia delle persone che le vogliono bene e a cui vuole bene.
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