Mondo

L’atelier dove si ricuciono le ferite della migrazione

di Veronica Rossi

Ad Amman, in Giordania, le ragazze fuggite dall'Iraq si rifanno una vita grazie a Rafedìn, un progetto di sartoria dell'associazione Habibi da cui escono capi raffinati che uniscono Occidente e Oriente

Doversene andare dalla propria casa è una ferita che non si può rimarginare. Per alcune ragazze irachene, però, il progetto Rafedìn è stato un modo per fare sanguinare meno questa ferita». A parlare è il sacerdote di Sansepolcro don Mario Cornioli“Abuna”, come lo chiamano tutti, una parola che significa “nostro padre” –, presidente dell’associazione Habibi, che in Giordania si occupa di persone vulnerabili e rifugiate. Rafedìn è un atelier di sartoria e pelletteria ad Amman che offre formazione professionale e opportunità di impiego a ragazze irachene sfuggite a persecuzioni dell’Isis, che ha ricevuto un finanziamento da Anap- Ancos.

«Il progetto è nato nove anni fa», racconta il sacerdote. «A seguito di una crisi che si era verificata nella zona erano arrivate in Giordania migliaia di profughi iracheni; avevamo iniziato ad accoglierli soprattutto nelle chiese, dandogli cibo, medicine, alloggio. Poi li abbiamo riposizionati nelle case. A quel punto molti pensavano di partire in pochi mesi – soprattutto verso Australia, Canada, Stati Uniti – però si sono accorti che la loro permanenza si prolungava. Così hanno iniziato a chiederci di fare qualcosa, di avere un lavoro. Così, abbiamo aperto un ristorante-pizzeria italiano e una sartoria di moda». A guidare quest’ultima è stata chiamata una fashion designer pugliese, Rosaria Di Flumeri. Così le giovani hanno imparato a progettare e cucire i loro vestiti, unendo la tradizione sartoriale italiana con i colori e le atmosfere dell’Oriente. Si tratta di un’arte che, poi, potranno portare con sé nei nuovi Paesi in cui si stabiliranno. Per farla diventare una professione, magari, come è accaduto per due ragazze che si sono formate a Rafedìn e che oggi lavorano in atelier per abiti da sposa in Australia.

A oggi nella sartoria sono passate più di 120 giovani, retribuite con delle borse lavoro. «Si tratta di un aiuto che rispetta la dignità della persona», commenta “Abuna”. «Che aiuta i profughi o chi ha bisogno di assistenza ad alzarsi e dare un senso ala giornata, cosa che non succede se si dà “money for nothing”». Le creazioni di Rafedìn vengono vendute in loco, ad Amman, soprattutto a turisti internazionali, ma anche in mercatini in Italia; per esempio, Habibi ha da poco partecipato a un mercato ad Arezzo grazie all’aiuto di Confartigianato. In questa collaborazione, l’atelier ha messo in chiaro una cosa: i capi vanno venduti perché sono belli e di qualità, non soltanto perché si tratta di un progetto benefico.

«Spero di lavorare con queste ragazze il più a lungo possibile, perché mi danno tanto», racconta Di Fumeri. «Di solito abbiamo l’idea di andar là per donare qualcosa, invece riceviamo moltissimo. Mi ha colpito la grande voglia di andare avanti che hanno queste giovani, la loro resilienza e la loro resistenza a ciò che capita loro. Per esempio, mi ha colpita molto la storia di una ragazza, arrivata ad Amman a 11 anni, che adesso ne ha 20, ma non è mai andata a scuola perché non ne ha avuto il diritto. Vede partire le altre, ma rimane sempre speranzosa». Secondo la donna, una delle caratteristiche più belle dell’atelier è la condivisione: gioire e soffrire insieme, starsi vicino, fare comunità. «Mi raccontano i loro sogni», confida. «C’è chi vorrebbe diventare avvocata, chi vorrebbe fare medicina, chi vorrebbe aprire una boutique. A volte devono aspettare molto per avere i visti, ma nonostante tutto durante la giornata sono sempre allegre. Quando sono andata per la prima volta mi aspettavo di trovare persone senza entusiasmo e voglia di fare; invece, anche se hanno dei vissuti tremendi alle spalle mi hanno trasmesso tanta serenità. Ora, ho ancora voglia di creare a 61 anni: con le ragazze ad Amman sembra che tutto sia possibile».

L’atelier è un luogo in cui si incrociano storie e si cambiano, almeno un po’, i destini. «Ban era una ragazza che non era sposata e viveva con il fratello», racconta don Mario Cornioli. «Nel 2019 abbiamo fatto una sfilata; abbiamo chiesto anche a lei di sfilare, ma all’inizio non era molto contenta, perché non aveva la corporatura adatta. Poi si è messa in gioco, si è cucita il suo vestito e ha partecipato. È stato bellissimo, quando è scesa sul tappeto rosso sembrava la regina di Amman. È stato commovente, aveva le lacrime agli occhi, era felice e orgogliosa di quello che aveva fatto. C’è stata una standing ovation, un applauso scrosciante di 300 persone. Si ricorderà questo momento per tutta la vita. E anche noi».

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